Le cose sono andate come sono adesso. La Storia è il racconto che il presente fa del suo Stato. La storia è la narrazione che indica le condizioni e le giustificazioni di come si è costituita una condizione sociale e una forma di governo. Quando si dà un rivolgimento sociale, un mutamento violento delle condizioni, quando si trasforma lo stato delle cose esistenti, cambia anche la narrazione del passato. La storia che incontra la sua verità cambia il presente. La verità si viene sempre a sapere, non è mai saputa. La verità sfugge al sapere che cerca di trattenerla. S’incontra, si viene a sapere, cambiando il racconto di quel che è stato e saputo. Se raccontiamo l’Unità d’Italia per noi delle terre indicate come “meridione” quella storia è stata come la sentiamo, come viviamo adesso. Vogliamo perciò cambiarla, raccontarla diversamente, ciò che è possibile solo cambiando il nostro presente. La storia si racconta a voce, fa parte del proprio corpo, dei propri gesti, dei costumi, degli oggetti che usiamo, delle relazioni. La libertà di un Paese si misura al grado della qualità dei legami sociali. Non posso ricordare senza desiderare. C’è un rapporto tra il desiderio e il ricordo come tra il futuro e il passato. Il tempo è la contesa del presente, si divide, si spartisce. “Temnein” in greco significa “dividere”. Il tempo è la divisione del presente. La divisione dell’attimo. Si fa in due. Curioso è che la lingua latina abbia ereditata la parola “tempo” dal greco, da cui anche “tempio” che è il luogo di confine e divisione tra l’umano e il divino, tra la terra e il cielo. Curioso, perché i Greci intendevano il tempo con altre espressioni, dicendo “Chronos”, “Aion”, “Kairos”, “Exfaines”, indicando in ognuna una modalità di relazione tra l’esistenza e la vita, tra “Fusis” e “Kosmos”. Il tempo ci divide. Ed è come ci dividiamo il tempo che stabiliamo anche le nostre relazioni e legami. I sentimenti sono fatti di tempo. I sentimenti ci dividono. Non posso ricordare senza desiderare. Il desiderio è il ricordo di quel che non è avvenuto in quel che è accaduto. Il desiderio è del presente che reclama al ricordo del passato di raccontare come sarebbe stato. Il desiderio divide in due il ricordo, riporta il passato al futuro.
Non si può insegnare la storia senza il desiderio del presente, non si può apprendere quel che è stato nella ripetizione di una memoria che non si sente sul corpo proprio. In questo tempo, che si dice di precarietà, non ci manca il futuro. Manca il racconto del presente, rimasto senza desiderio. Il futuro è una strana espressione, indica il “fu” in una forma “preformativa”. Indica un passato remoto in avvenire. Il futuro è il racconto che faremo di questo presente come passato. È quello che racconteremo di adesso, di come lo passiamo. Non ci manca il futuro, è questo preesente che non è raccontabile. Ci manca il racconto, ci manca, sì, così, la storia. Questo presente che non è raccontabile. È senza il desiderio del suo racconto. A scuola ci hanno insegnato il “futuro anteriore”. Col tempo ho capito il “futuro interiore”. Il passato e il futuro, diceva Agostino non ci sono, si deve piuttosto dire “presente/passato”, “presente/presente”, “presente/futuro”. Il futuro non c’è, manca, solo per questo il desiderio si può dire “mancanza”, solo perché il desiderio è il futuro interiore. Quel che ci manca ci sta dentro, diversamente non potremmo nominarlo. La mancanza è l’interiorità, è l’intimità, per questo l’amante può dire “mi manchi” mentre parla a chi ama.
La storia è il racconto che il presente fa del suo passato col desiderio del raccontarsi e passare diversamente. Siamo una generazione senza storia, si potrebbe anche chiosare. Il conflitto tra generazioni non è com’è stato. Questo si dovrebbe allora “insegnare” come storia, il racconto di sé, del sentimento che viene a sentire e capire quel che è stato e quel che ci sta intorno. La storia è politica, quando il presente si fa storia, raccontandosi. È però cambiata la storia, non più un solo racconto. La politica ci ha cambiato, dovremmo allora cambiare la politica per raccontare un’altra storia.
Scrivevo di questo nel “giorno della memoria”. Il ricordo non è senza il desiderio che il passato ha del suo futuro. Adesso, al presente. Il ricordo deve valere per noi come il racconto del nostro stato d’animo adesso per quello che vediamo, viviamo, sentiamo del mondo che c’è così come ancora non è, raccogliendo nel ricordo il desiderio di un’altra storia. La storia s’insegna adesso non più con un solo linguaggio e sono molte le storie. I luoghi, i racconti. Le testimonianze. Dovremmo provare, facendo storia, a raccontarci insieme, come si faceva la sera da bambini, quando si ascoltava e si raccontava. La scuola può essere quel momento, giusto perché la scuola è un modo di tessere e apprendere quello proprio, il tempo interiore. La propria storia.
Il metodo che penso debba valere è del dispositivo “Decamerone”, “il racconto dei racconti”, “lu cunto de li conti”. Il “metodo” adesso è questo, ne verrebbe anche un modo di stare insieme. Senza, non vale raccontare la storia così come si sono costituite le cose, bisogna raccontare anche il desiderio nascosto nel ricordo. Ogni cosa che accade porta il desiderio del suo avvenire, di come viene, e di come si “addiventa”. Ogni cosa che accade porta il desiderio come ogni stella che cade, ed è un segreto, bisogna tacere, perché si avveri. Ecco, questo è da disimparare. Il desiderio non deve essere segreto. C’è un rapporto tra mancanza e intimità, raccolto nel segreto. Il desiderio non è mancanza se non perché è interiore e resta segreto. Mancanza, intimità, segreto cospirano. Ogni desiderio è la cospirazione di quel che accade per ciò che avviene. Bisogna liberare la cospirazione in un respiro comune, manifestarlo. C’è un rapporto tra intimità e clandestinità. Non si dichiara, non si racconta, si nasconde. L’intimità è sotto copertura. Eppure l’intimità non è mai dell’essere solo. L’intimità si dà insieme. Non c’è senza lo stare insieme a un altro, a un’altra. L’intimità non è senza amore. Abbandono. L’intimità è senza identità. Bisogna che non sia più clandestina. Bisogna che ci sia una politica dell’intimità. Non perché l’intimità sia pubblica, ma perché sia politica.
Si può insegnare storia non solo per dire come non è stata, ma per dire come sentiamo il presente che viviamo. Non posso dire dello sterminio dei campi di concentramento nazisti senza sentire quel che vedo a ripeterlo adesso, senza il desiderio di un mondo così come ancora non è. Non posso ricordare senza desiderare.
Insegnerò storia nel prossimo corso, lo farò in una classe particolare, tra ragazze che disiderano una vita diversa. Come racconterò loro la storia? Le inviterò a non separarla dalla propria storia. Il corpo della storia è il proprio. Sono le relazioni, i luoghi. Si può raccontarla come la viviamo, come ci vediamo nelle foto di altri, nei quadri, nei gesti riflessi nelle forme delle cose. Ricordo ancora quel giorno, fui accompagnato nelle stanze di una reggia non ancora aperte a museo. Le sale che si aprivano al passaggio non erano lustrate e astratte, scintillanti di gloria perduta, restavano i gesti, gli echi di voci. I passi. Il “museo” dovrebbe essere la casa dei racconti. La casa delle muse. Quel giorno sono entrato in stanze, dove ho visto i giocattoli dei bambini, i bagni, le cose lasciate. Erano ancora come abitate, come lasciate da poco. Sulle porte c’era l’unto delle mani che le avevano aperte nel tempo. È strano come siano poi gli specchi a ribellarsi ai musei, sottraendosi a quella riduzione del fermo del tempo. Gli specchi invecchiano. Non trattengono i volti che vi si sono affacciati, i movimenti, i gesti, i sorrisi, il compiacimento e la tristezza di un momento, di una figura. Non la trattengono, ma ne portano come le rughe, invecchiano, con quelle loro macchie, come le porte unte dalle mani, come i giocattoli lasciati sul pavimento, come le foto. Bisogna raccontarla la storia. E non separala dalla pedagogia, non asportarla dalla via dalla filosofia, non separarla dal diritto e dalla geometria, non riporla fuori dalla percezione di come siamo adesso. Il tempo è lo specchio opaco in cui continuiamo a rifletterci in tanti volti. Dovremo attraversare lo specchio della storia.
Penso ancora al “Decamerone” come a un metodo. La storia si racconta nella modificazione della lingua, dei modi, dei luoghi, riflessa nelle foto, nei quadri, sugli atlanti di un tempo, sui documenti, sulle lettere, sui costumi, sulle maniere, sul cibo, sulle voci, sui legami, sui sentimenti, sul corpo proprio. La storia del mio Meridione e della Legalità è anche nello scarto di una lingua orale e una lingua scritta, tra quella che è leggibile e quella che non è ascoltata. Non racconterò mai più la storia del Meridione d’Italia e della sua questione, ma quella dell’Italia del Meridione, fuori quetione, liberato dalla clandestinità del segreto della sua intimità. Racconterò la storia del Meridione interiore. Non racconterò l’Unità d’Italia, ma l’Unione di chi abita e parla questa lingua, nel mondo che viviamo insieme. L’Italia del Meridione sarà il Paese come lo esprime la vocazione dei luoghi nelle voci di chi li abita, sarà il desiderio che il Meridine ha dell’Italia, del proprio autonomo contiributo all’Unione. Non più unità geografica, ma unione di di autonomie che si condividono le proprie voci, che si partecipano. La storia è politica e noi abbiamo bisogno del desiderio di una politica dell’intimità, perché non sia più clandestina la gioia di vivere.