Dalla colpa alla responsabilita’
Il carcere deve essere un luogo di lavoro su se stessi, dentro se stessi, sui propri
legami di vita, sulle proprie scelte e decisioni.
di Giuseppe Ferraro
Il tempo non è uguale per tutti. C’è chi “ce ne mette di più e chi meno”. Si dice così “c’è chi ne impiega di più e chi meno”. A scuola si capisce presto. Ci sono quelli che apprendono velocemente una materia e chi ha bisogno di più tempo, magari poi lo stesso ne ha bisogno di meno per una diversa applicazione. “Dammi tempo”, “ho bisogno di più tempo”, “faccio subito”. Sono espressioni che conosciamo per averle riferite tante volte noi stessi. E quante volte i ragazzi, in casa, si prendono tempo o vanno di corsa. Il tempo non è un equivalente generale. Il denaro lo è, e per quanto si dica che il tempo è denaro, non è lo stesso quando si tratta di Sé, dei propri affetti, della conoscenza di se stessi, delle proprie scelte morali e decisioni di vita. Il tempo non è il denaro, anche se il denaro si misura sul tempo di produzione. Ne indica il costo. La pena è un costo da pagare. Deve essere allora proporzionata al tempo che s’impiega per capire, per scontarla, per espiare, per passare dalla colpa alla responsabilità. Il carcere deve essere un luogo di lavoro su se stessi, dentro se stessi, sui propri legami di vita, sulle proprie scelte e decisioni. Il carcere deve poter essere un luogo d’istruzione della libertà.
Quanto tempo occorre a un uomo per capire se quel che ha operato è stato giusto o sbagliato? Quanto tempo occorre per rimediare? Non si può allora decidere il tempo della pena senza tener conto della persona. Siamo fatti di tempo, esprime la nostra singolarità. I sentimenti sono fatti tempo. Lo sappiamo quando riserviamo tutto il tempo a chi amiamo e quando non abbiamo tempo per chi ci è estraneo o che ci lascia indifferente. Il tempo è la materia dei sentimenti, e il lavoro su se stessi riguarda i propri legami. Lasciarsi o incontrarsi è cosa che riguarda il tempo proprio. Quanto allora costa un crimine e un misfatto, un errore o una follia, un torto o un imbroglio, un omicidio e un furto? Il codice stabilisce il prezzo in tempo che si ferma. Devi fermare il tuo, non dare il tuo. Bisogna rifletterci. La pena si paga a costo di tempo, ma non è il tempo che si dà, perché è quello che si toglie. Si misura in anni. E se provassimo a pensare al tempo che dà? E come si dà il tempo se non operando, rimediando come persona, come relazione, come legame, perché il tempo è questo che procura, opera, lega, relazione. Dare il proprio tempo significa dare se stessi nell’operare. Ed è curioso che la parola “ergastolo” indica dalla lingua greca un costo d’opera, una pena di lavoro.
Dare il proprio tempo significa lavorare su se stessi perché la propria dignità conquistata, ripresa, rimediata dia ragione e restituisca senso a quel che non ha senso. La giustizia è restituzione. Bisogna restituire il proprio tempo come proprio dell’altro al quale si è tolto il tempo di vita o di passione, di lavoro o di occasione, di dignità e di persona. In uno stato di diritto, la pena deve essere un diritto, quello di ripensare se stessi per passare dalla colpa alla responsabilità. Si è responsabili quando si risponde di sé, si dà responsabilità quando si dà restituzione. Una giustizia di responsabilità è di restituzione.
Non sarà mai come restituire quel che si è preso e tolto a chi si è defraudato o ucciso. Non si restituisce il maltolto senza che si sia diventato altro da quel che si è preso, né si può restituire vita a chi non è più in vita. La restituzione quale che sia è imperfetta. Si può dare solo nella forma imperfetta. Al verbo dell’imperfetto. Al tempo dell’imperfetto. Quello del racconto. Si deve raccontare la propria vita, si deve fare della propria vita il racconto di un percorso per una storia che comincia la propria vita da capo, a partire da quel che non si è stato per essere se stessi. La restituzione è nella collaborazione sociale di giustizia. Chi è stato ingiusto deve farsi racconto di giustizia, deve poter fare del proprio tempo il racconto del giusto. Si diventa giusti. E chi è stato contro la Giustizia deve farsi giusto, è condannato a essere giusto. Ed è una condanna che viene da dentro, se si danno le condizioni per esprimerla. Se invece sono ingiuste le condizioni per chi è stato contro la Giustizia, non c’è rimedio, non c’è restituzione, non c’è pena che rientri nel diritto di Giustizia.
In carcere il tempo stagna. Rafferma. La sicurezza si concepisce nel rimando del fare niente perché niente succeda. Si toglie tempo, si taglia in parti uguali, si cementa, il carcere dimentica. Anche quello che richiedi sul momento, si dimentica, si somministra l’oblio, perché tutto sia tranquillo, perché ci si abitui a fermare il tempo. L’arresto tante volte ho pensato che fosse l’arresto del tempo proprio. In carcere è recluso il tempo proprio, i propri sentimenti, i propri legami. Eppure il carcere è un luogo di libertà, ripetevo l’altro giorno, il carcere è il luogo, dove ci s’istruisce alla libertà. Può esserlo, può diventarlo, in certi casi è tale. Ci sono persone che fanno presto ad apprenderlo e ci sono di quelle che non lo apprenderanno mai.
Come sempre però nei casi in cui ne va dell’apprendere a prendere il “brutto voto” è dapprima chi insegna, chi istruisce, quando deve fare conto del proprio successo educativo o della propria sconfitta, quando non è riuscito a riportare dentro il cerchio dell’inclusione sociale chi ne è stato escluso perché aveva deviato da quel campo coltivato della società. Si chiama “socialità” il campo d’esercizio di una tale “istruzione” in carcere.
Giovanni mi scrive ogni giorno. Gli ho detto Giova’ non è che posso risponderti ogni volta, però tu continua a scrivere, perché chi scrive si iscrive nella grammatica del testo per essere leggibile. E la legge è tale perché legge, perché vuole che ci si esprima in maniera leggibile. Spesso quelli che sono reclusi per associazione non sanno scrivere, non sanno neppure cosa significa prescritto o iscritto, derubricato, declassato.
Giovanni mi scrive ogni giorno. Sono anni ormai. Venne al corso di etica che tenevo a Carinola e fu sorpreso del clima di amicizia che si respirava. Il corso funzionava già da anni e continua, altrove o per corrispondenza. Salvatore è a Catanzaro, e gli mancano quegli incontri, ne parla con tutti quelli che trova, li tiene a ripetizioni, fa supplenza. L’altro giorno mi ha scritto che ci sono persone in carcere che dopo tanti anni si chiedono ancora delle carte del processo, senza domandarsi del perché sono in prigione. Salvatore non è più quello che ho conosciuto all’inizio. Giuseppe poi ha fatto un percorso semplicemente ammirevole. Gavino ancora, la sua dolcezza, la sua delicatezza. Posso continuare. Sono in grado di dire con assoluta certezza e responsabilità i nomi di quelli che potrebbero ben essere dichiarati collaboratori sociali di giustizia, persone che possono dare un contributo non indifferente a combattere la guerra sociale di mafia, perché di un processo educativo si tratta. La libertà di un Paese si misura dalla qualità dei legami sociali. Di questi si ha bisogno e di questo si fa istruzione, e si deve, in carcere.
Giovanni mi scrive ogni giorno. Per quanto grosso fisicamente da far paura a vedersi, un gigante, è un timido di una vulnerabilità inquietante, un mammone, si direbbe, come Patrizio che parla della sua mamma e si commuove ogni volta al pensiero. Giovanni non parlava in pubblico e aveva problema ad aprirsi, semplicemente perché è persona d’intimità. Aveva timore che altri potessero non capire e come accade sempre in carcere devi mostrare agli altri la forza che non hai. Lui poi è un timido. Allora mi scrive. Gli ho detto che chi scrive si pone in uno stato interiore, in un tempo proprio. Continua a scrivere gli ripeto, perché chi scrive, parla dentro se stesso. Si parla. Ascolta. Ed è questo il passo che deve avere l’istruzione alla libertà.
Parlarsi. Avere un Sé ed essere se stesso come mai si è stato e come ti hanno lasciato e non ti hanno fatto diventare. In carcere ho capito che è libero chi riceve ascolto. Chi non è ascoltato non è libero.
Il carcere è una comunità reclusa, ma non può essere esclusa. La reclusione, se è data all’interno dell’inclusione, deve mantenere una tale funzione di sospensione del tempo proprio perché si ristabilisca un legame sociale perduto. La reclusione deve essere riparativa, il carcere deve poter essere un’officina, una bottega, una scuola. Nel linguaggio scolastico si diceva anche degli esami di riparazione. E non avrebbe certo dovuto essere una “condanna” o una “punizione”, ma un’aggiunta, un supplemento di tempo per adeguarsi ai tempi di conseguimento di un sapere parimenti come altri che svolgevano nella stessa età la stessa classe di studio.
Ripeto sempre che il grado di democrazia di un Paese si misura dallo stato delle sue carceri e delle sue scuole. Non può essere altrimenti, è stato così lungo tutto l’arco dello sviluppo della democrazia in Europa. Quando le carceri saranno scuole e quando le scuole saranno carceri, il grado democrazia di un Paese avrà raggiunto il suo punto più alto. Le carceri devono essere scuole di legalità. Non è pensabile, come invece accade, che si facciano incontri di legalità con magistrati e forze dell’ordine nelle scuole. È invece nelle carceri che si deve fare scuola di legalità, ciò significa che magistrati e forze dell’ordine, e non può essere altrimenti, hanno una funzione educativa sul piano sociale, devono rappresentare l’esempio di legalità e devono avere gli strumenti educativi, e non coercitivi, di legalità. Ben inteso in tale prospettiva, che la legalità è fatta di legami e che l’educazione ai legami sociali avviene in comune. Non è qualcosa che si possa dare individualmente se non nella partecipazione comune, come avviene in tutte le situazioni in cui è necessario porre rimedio a un’inclinazione riconosciuta come dipendenza. I nostri incontri di filosofia in carcere avvengono sempre in gruppo, si discute insieme, ci si confronta, si stabilisce un dialogo corale, una coralità dialogica di voci dove ognuno riprende quel che un altro prima ha indicato come posizione per seguire di stanza in stanza, di voce in voce il percorso che ci permette di arrivare alla soddisfazione di avvicinamento alla comprensione di quel che mettiamo in discussione, i sentimenti, i valori, la libertà, le relazioni, la comunicazione, la vita…
I risultati sono evidenti. Il confronto, il prendere parola, il mostrare la propria interiore fragilità, il proprio stato d’animo senza infingimenti, ma con onestà e dignità, perché poi è questa da conquistare come espressione della legalità, la propria dignità, quella che ti rende anche libero di essere e diventare quel che sei nella tua umanità. L’inviolabilità della vita e la dignità della vita sono i due percorsi sui quali l’Europa ha realizzato il suo cammino dell’istituzione penitenziaria all’interno dello sviluppo della democrazia di comunità. Siamo ancora su questo cammino, non tutte le carceri sono uguali e la diseguaglianza carceraria è ancora più sofferta di quella di cui è riflesso nella società.
Il carcere è certo il riflesso del disagio della civiltà, è certo il riflesso della diseguaglianza sociale, formative, comunicative, locali. Questo significa che proprio il carcere, perché luogo di reclusione dentro l’inclusione, deve poter esprimere quell’attenzione di rimedio sociale che non è solo del singolo detenuto, ma del sistema di detenzione che deve poter essere esso stesso di rimedio sociale. Spiegandomi meglio, significa che nel carcere è possibile “sperimentare”, proporre, indicare metodi, forme, percorsi educativi d’eccellenza rimediando a metodi, forme, sperimentazione educativa che hanno fallito o che non sono proponibili indifferentemente in ogni luogo e situazione ambientale. Il carcere è un luogo di sperimentazione di forme indirizzate a un’educazione sociale. Lo studio è la cosa più importante. Il carcere deve essere una scuola. Ciò che già è così, ma non in forma spontanea, improvvisata, lasciata al volontariato temporaneo e non sempre accolto e lasciato operare, mentre dovrebbe essere modulato, con percorsi formativi disciplinati secondo le esigenze personalizzate, ma mai da soli, ma indirizzate al singolo perché ognuno possa farlo proprio non per imposizione ma per scelta di partecipazione insieme con altri con i quali ci si confronta e si opera al fine di diventare dei collaboratori sociali di giustizia. Sappiamo bene che proprio chi trasgredisce le leggi le conosce meglio, sapendo quel che legittimano e quel che vietano, possono esprimerne perciò il senso e il valore meglio di altri e possono finanche indicare soluzioni e aggiustamenti di cui le stesse leggi hanno bisogno nell’evolversi del tempo.
La pena deve essere un diritto, si comprende ancora meglio in tale prospettiva. In uno Stato di Diritto, anche la pena deve essere un diritto, quello per chi ha sbagliato di rimediare al proprio errore aprendo un percorso che porti dalla colpa alla responsabilità. Accade invece, spesso, che il carcere fa diventare vittima chi ha commesso un reato, senza riuscire a vedere dentro di sé, a sentire, il male procurato a chi ha offeso e alle persone care che entrano nel cerchio di una pena soffrendo per colpe inattese e improprie.
Si dirà, che il carcere concepito in questo modo è solo una fantasia, un ideale, perché nella realtà c’è la condizione di reazione, la follia di ogni giorno, la tabella di consegna, il giro da compiere, i tempi da rispettare e che manca il personale, i servizi sono carenti, i soldi non si possono spendere se si hanno e non ci sono quando occorrono, allora ecco il volontariato, che magari crea anche problemi, perché non c’è personale che sostenga le ore della loro presenza, e di nuovo si ripete il rito di una sicurezza per cui non si fa niente perché non succeda niente.
Il nulla costa nulla. Il tempo allora rafferma. Si arresta. Ci si trova in arresto. Detenuto. Così si amalgama il cemento di parole, il caglio di voci che raffermano ogni avanzamento mentre ci sono persone splendide nel personale della sicurezza, nei comandi, nella semplicità di chi sa che potrebbe essere diverso, di chi tra gli agenti nasconde il proprio malessere in un riflesso rovesciato della detenzione dell’altro, perché nessun uomo che incrocia lo sguardo distratto di un altro ne resta indifferente. Anche chi uccide deve non guardare negli occhi la sua vittima, fosse anche un animale da sacrificare nelle feste comandate. Quando si ha di fronte una persona, quando si ha davanti una vita, la mano si deve tendere aperta nel desiderio di vivere e costruire mondo. La dignità edifica, il resto, senza, rovina. Il volto dell’altro affaccia sulla vita, non si può guardare senza essere presi e coinvolti come di un bene che è comune a tutti nella sua sacralità, nella sua inviolabilità che reclama dignità.
Non sarà l’automatismo dell’assegnazione di tempi, il riscontro di tabelle. Il tempo non è uguale per tutti, ognuno ha il suo tempo di apprendimento e di ripensamento. Il tempo è dato dagli avvenimenti; il tempo proprio è fatto d’incontri, di cose che colpiscono, di strade nuove che s’intravedono e s’intraprendono. C’è quella “scala a scendere”, esattamente come inversa a quella dei gradi della scuola e delle professioni di merito. Nel carcere tutto è capovolto, secondo una logica che ha un senso preciso. Il declassamento si svolge secondo una tale logica.
Non è un avanzamento di merito, non si sale una classe, si scende di grado di pericolosità. Si scende la scala per arrivare alla società, si scende dal ripostiglio, dal piano di reclusione stabilito. Le parole mantengono una saggezza che spesso perdiamo a pronunciarle nella quotidianità. La parola è invece uno scenario di azione, uno schermo sul quale si rappresentano azioni e valori. Il declassamento è importante. È una scena di piano.
C’è un criterio di declassamento. La sicurezza. Avanza l’esigenza di separare anche per istituti le “classi di pericolosità” da As1 As2 As3. Siamo a una nuova stagione delle condizioni del carcere in Italia. Ci si muove in più direzioni. Dalla sorveglianza dinamica che investe forme e metodi di detenzione impegnativi sul piano della conoscenza e della formazione per un avvicinamento alle richieste della Comunità Europea, fino ad arrivare, all’altro capo, a una detenzione speciale, ridefinendo la geografia delle carceri con luoghi dedicati all’alta sicurezza. Il declassamento bisogna intenderlo come un merito, spesso però le condizioni di declassamento rispecchiano un’esigenza economica al risparmio permettendo di detenere più di una persona nello stesso spazio. Il paradosso è che il regime di As1 consente un lavoro su sestessi, un contenimento di sé con maggiori possibilità di ripensamenti. Bisogna allora pensare al declassamento non per ragioni economiche di risparmio. Non sarà l’esigenza economica, dei costi della sicurezza ad abolire l’ergastolo in Italia, le ragioni dell’abolizione dell’ergastolo, ostativo e non, devono essere sociali, educativi, di dignità umana, di avanzamento della democrazia. Diversamente la logica del risparmio ricrea le condizioni di dispersione e di disagio che il carcere stesso è chiamato a risanare come istituzione se vuole essere un luogo d’istruzione della libertà. Non è difficile capire quel che è un discorso solo in apparenza paradossale. Il declassamento deve coincidere con maggiore attenzione al percorso formativo della persona. Deve perciò essere di garanzia di continuità del proprio cammino di libertà.
Separare alta e bassa sicurezza, può anche voler affermare un principio d’irrimediabilità di pena per chi rientrando in una topologia di criminalità associativa finisce con l’essere dimenticato per sempre. Murato. Senza continuità di percorsi intrapresi. I criteri devono essere altri, non economici, si spende meglio e meno per la sicurezza se la prospettiva è quella educativa. Posso fare i nomi. Conosco persone che meriterebbero immediatamente l’uscita dalla condizione di As1 ed entrare nel tempo della libertà di prova prodigandosi con impegno alla collaborazione sociale di giustizia. Posso fare i nomi, posso dare garanzia assoluta, posso offrire adozione, ospitalità, pensare a una comunità di collaboratori sociali di giustizia, persone che so con assoluta certezza che hanno acquisito una responsabilità che non può continuare a essere sprecata. Quelli che si definiscono come irrimediabili da un punto di vista sociale possono operare di “collaborazione insociale di giustizia”, dando un segno diverso, opposto a chi invece può esprimere un bisogno sociale di libertà. Vanno allora ripensati i criteri, ma anche le condizioni di declassamento.
Vanno ripensate le geografiche carcerarie, così le forme e metodi della sicurezza, i tempi di detenzione, l’ordine del tempo, a partire dal principio più semplice: la sicurezza è la parola a garantirla, quando ci si parla, la regola è la relazione. Le regole senza relazioni sono vuote e repressive, le relazioni senza regole sono violente e cieche. Non c’è pena che non sia per un impegno, che non faccia dire “ne valeva la pena”. Quella che non è valsa per tale è una pena inutile, che non serve nemmeno a dimenticare. Le regole sono le relazioni che rendono possibili. La pena è un diritto. Lo studio è una pena, si dice anche in quel caso “diritto allo studio” ed è la voce che ha segnato lo sviluppo della democrazia in Italia e ancora invoca, bisognerà anche dire diritto alla pena, non solo per certezza che renda più sicuri nella testa chi la pena non la soffre, ma perché la pena ha la sua verità che nessuna certezza può capire se non misurando il tempo che si dà e si toglie, quello che è proprio della persona per riuscire a tornare e a diventare quel che ogni essere umano è capace di rappresentare in rappresentanza della dignità della vita propria e sociale.