Siamo al 13 di ottobre 2011 è il quinto anno questo in cui ci troviamo in cerchio.
Gavino, Croce, Salvatore, Lorenzo, Antonio, Aurelio, Andrea, Antonino, Giuseppe.
L’argomento di quest’anno sarà il rapporto tra Comunità e Società, il Corso sarà dedicato all’Etica Sociale. Lo stesso che terrò con gli studenti all’università, il percorso e i testi non saranno gli stessi, perché un cammino formativo si dispiega dalle esigenze e dalle voci che si esprimono in un dialogo comune.
Oggi abbiamo appena cominciato a porre la questione: parleremo di Etica non più nella prospettiva della relazione personale, ma in quella del rapporto Comunità e Società.
L’incontro ha avuto un’introduzione che può sembrare lontana o estranea al cammino del Corso. Ci siamo seduti in cerchio. Ho chiesto anche per me una sedia uguale a quella di tutti gli altri, non di stoffa e con braccioli, ma di legno, semplice. La trovo più comoda, ma anche giusta. La simbolica della “tavola rotonda” è chi vi siede intorno ha pari dignità, non ci sono gerarchie. Se, però, le sedie intorno non sono uguali anche la tavola non è più rotonda. Si fanno differenze e gerarchie. In una relazione formativa, le gerarchie sono interiori e sono diverse per ognuno e in ogni momento possono cambiare. In ogni caso sono gerarchie di ascolto, di ammirazione.
C’è prima l’esigenza di parlare del Polo Universitario che si sta finalmente costituendo. Arriveremo, si spera, anche a disporre di una sezione specifica, ma importante sarà il servizio di comunicazione tra l’ateneo e l’istituto che consentirà aggiornamenti didattici necessari allo sviluppo del proprio percorso di studi. L’università permette di acquisire una disciplina. Ciò che è più difficile nello studio non è l’apprendimento di questo o quel contenuto, ma lo stare seduto e concentrato per più di cinque minuti. La disciplina è il tempo dell’attenzione e della cura di cui ci si fa capace in una relazione che riguarda dapprima se stesso.
Antonino parla del percorso disciplinare di ognuno che, se immerso in un cammino, può non trovare una critica a quello che svolge. Porta perciò l’attenzione sulla necessità dell’autocritica. Il sapere rende le cose più veloci, aggiungo. Uno quanto più sa, più velocemente riesce a risolvere delle questioni e superare degli inciampi. Anche nella condizione del carcere, quanto più si conoscono le dinamiche di relazione più si riesce ad accelerare richieste ed esigenze. Ci abbiamo messo tanto tempo ad avviare il Polo Universitario, c’è voluto il tempo di sapere il funzionamento di meccanismi di relazione e comunicazione. Quanto più si sa più si vede e più si riesce a fare critica e autocritica. Il sapere innalza, metaforicamente, va volare, permette di vedere dall’alto, offre una visione a più punti di osservazione, permette perciò di trascendere, di avere una visione trascendentale delle cose, che non significa metafisica, ma alta. Si vede di più. Così i paesini costruiti sulle rocche, permettono una maggiore difesa, così le torri. Il sapere si rapporta al vedere e questo alla cura. C’è però l’inciampo più grande per un detenuto quello di trovarsi pure a sapere le cose, ma di trovarsi poi di fronte persone che non vogliono sapere di quel che è giusto fare ed operare. Il sapere non è senza la volontà delle persone che lo svolgono. Così ripeto che non sono le istituzioni cattive o sorde, perché le istituzioni sono le persone che le rappresentano. Cambiano se cambiano le persone. Un giudice è persona d’istituzione, la difficoltà personale è quella di interpretare, considerare, confrontare, intuire, provare, anche osare certe volte. Certo però la cosa più semplice è “far parlare le carte”, trincerarsi dietro i fascicoli.
Parliamo dell’ergastolo ostativo. Di come se ne possa uscire. E di come sia una battaglia per la democrazia e non a favore di uno o di un altro cessare una misura di ostatività che l’ammissione di una misura di prigioniero di guerra senza che sia dichiarata esplicitamente la guerra. Si parla perciò di come la cosiddetta mafia non sia espressione di un esercito in guerra contro lo Stato, ma che produce un danno sociale di cui lo Stato ne risente. Non a caso sono poi anche i funzioni dello Stato a trovarsi vittime.
Lo Stato ha la funzione di garantire la sicurezza sociale e il benessere dei suoi cittadini. Accade però che per tenere la sicurezza manchi l’obbligo del benessere. Basta considerare le spese per la sicurezza dello Stato e come queste potrebbero essere rivolte allo stato sociale e quindi al benessere. È un paradosso. La mancanza di benessere sociale crea insicurezza e per sanare l’insicurezza si manca ancora di più la spesa del benessere.
Come uscire dall’ergastolo ostativo ovvero come uscire dal fine pena mai se non ci sono collaborazioni di giustizia. Ritorniamo a parlare dell’esigenza della collaborazione sociale che rappresenterebbe la vera via di uscita da una storia dentro la quale ci si trova coinvolta e che per molti è ancora una storia finita, non solo sul piano personale, ma su quello epocale.
Storia personale e storia epocale, storia sociale e storia individuale. Bisogna riflettere su questo doppio percorso. Non basta l’ammissione di aver fatto parte di una storia riconoscendo un’appartenenza che confonde la comunità di cui si fa parte, il paese, la cultura, l’ambiente, e la società organizzata entro cui ci si trova impigliati, per scelta consaputa o perché inconsapevolmente travolti. È difficile per chiunque trovare il filo che permette di individuare la storia personale da quella sociale, il proprio tempo e quello storico di una determinata evoluzione di condizioni generali di vita di un paese.
È tuttavia il percorso personale, il mettere alla prova che diventa necessario indicare. Dopo 20 e più anni di detenzione qualcosa deve pure emergere se quegli anni sono vissuti ad apprendere, a capire, a liberarsi da chi e cosa si è stato, assumendo una disciplina come cura di sé che è sempre effetto delle relazioni.