Da anni il mio amico Ferraro va in carcere. Va a fare filosofia con i detenuti. Sono anni che lo sento parlare di loro, con amore, con entusiasmo. Ad ogni incontro di filosofia ne parla. Il suo racconto ha il fascino delle storie narrate oralmente non di quelle scritte. E’ un tornare indietro nel tempo, al tempo del racconto senza tempo, è il tempo dell’infanzia ascoltarlo. E’ stupore, è meraviglia. Ferraro è il mio amico ma è soprattutto il mio maestro, non nel senso di mio, ma di me. Sentire questa differenza(mio, di me) detta da un uomo in carcere ostativo da 20 anni mi ha dato un’emozione fortissima, indicibile. Penso a tutto quello che il di me amico è riuscito a trasmettergli in questi anni, a come glielo ha trasmesso. Già da un po’ sentivo un bisogno di condivisione più profondo di questa storia, fino a che, quest’anno, non ho potuto resistere “vado con il di me amico, voglio conoscere questi suoi amici così singolari, possono diventare anche i di me amici”. Una delle prime cose che ho imparato dal di me maestro è il sentimento Amicizia mentre parlava a giovani adolescenti dell’amica/o del cuore. Lentamente li guidava alla scoperta che il sentimento Amicizia è dentro di noi non va ricercato fuori. Il dentro, il fuori. Consapevole di avere/essere Amicizia dentro di me per un approssimativo bilancio della mia esistenza sul pianeta ho seguito le mie suggestioni utilizzandole come navigatore.
E in compagnia di Maurizio come navigatore sono giunta a Carinola, fuori al carcere. Un cancello si è aperto e siamo entrati con la macchina. Immediatamente una poliziotta, attorniata da altri poliziotti, ci ha chiesto i documenti e di aprirle il cofano dell’auto. Per istinto le ho risposto che era aperto ma lei ha insistito “lo deve aprire lei”. Mi sentivo già privata della mia libertà. “Lasciate tutto in macchina soprattutto i cellulari”. Avvertivo una certa tensione. Un signore senza divisa cercava di mantenere con il sorriso una sorta di allegria, di leggerezza. Ci ha guidati all’interno. Siamo stati accolti da altri poliziotti che ripetutamente ci chiedevano se eravamo sicuri di non avere armi con noi. Armi … una sola volta ho visto la pistola di un mio cugino poliziotto e gli ho chiesto di riporla subito da qualche parte in modo che io non potessi più vederla, era orribile. Ci hanno detto che il 1° gruppo che entrava era quello degli studenti e paradossalmente il primo cognome era il mio. Ci hanno fatto passare in un edificio più interno. Il dentro, il fuori, sempre più dentro. Il signore sorridente ci aveva avvertiti che “lì sotto fa molto freddo” per cui mi ero portata il mio soprabito di lana, mi era intollerabile pensare di avere freddo. Entrati nel 2° edificio le mie narici sono state colpite da un odore completamente diverso, un odore sgradevole che assomigliava a quello degli ospedali, delle mense, all’odore della miseria umana. Un colpo allo stomaco. Mi guardavo intorno, c’era il solito cartello “Vietato fumare” ma il maresciallo, che era uno dei nostri accompagnatori in divisa, fumava tranquillamente. L’ abitudine alla decodifica dei linguaggi non verbali ha acceso una vocina nella testa “non si fuma ma qui comando io dunque faccio quello che voglio”. Sulla parete alla mia destra tre quadri che immagino dei detenuti, colorati, molto colorati. Quello centrale è un paesaggio molto confuso, sfumato, rimanda a sensazioni spiacevoli, come quando si soffre il mal di mare. Quello a destra è un campo di margherite, bello, giallo; quello a sinistra è perfetto! Riproduce con colori ad alta definizione i campi inondati di peschi in fiore che abbiamo incontrato sulla strada, venendo qui. C’è la stessa simmetria dei campi, il colore, il silenzio intorno si tocca. I poliziotti aprono il 1° cancello. Entriamo in un corridoio inondato di luce, quanta luce in questo posto. A destra e a sinistra grandi finestre da cui è possibile vedere che siamo sotto il livello della terra, già fa più freddo. A destra un prato verde sopra le nostre teste, a sinistra un cantiere, orrendo. Mi accorgo che se non si chiude il 1° cancello dietro di noi non è possibile aprire il successivo. Non è una bella sensazione, non ci devi pensare a dove stai andando, devi respirare ma quello che respiri non è piacevole, l’unica cosa che incoraggia è la luce che abbaglia. Poi arriviamo su un palcoscenico, siamo increduli. I nostri nuovi amici i senza fine mai sono già lì ci aspettano. Giù ci sono altri detenuti attorniati dalle guardie, noi non capiamo, perché ci hanno messi lì sopra? Aspettiamo Pino con ansia, c’è un po’ di imbarazzo. Penso al senso di questa attesa a cosa mi deve insegnare penso all’attesa di questi uomini all’attesa di questa giornata. Li guardo mi sembrano felici di averci là così vicini, ci guardano e non so come noi sembriamo a loro. La sala comincia a riempirsi, entrano i docenti del carcere, entra Simona, entrano i giornalisti. Anche loro sono interdetti a vederci su un palco. Finalmente arriva Pino, abbraccia uno ad uno i suoi amici e come sua consuetudine ridefinisce il setting, si direbbe in termini analitici. Questa sua ridefinizione per me che ho assistito tante volte al suo lavoro è completamente diversa. Corpo a corpo poliziotti-detenuti, uno scende dal palco e viene rimproverato torna indietro noi dobbiamo uscire dalla scala a sinistra e loro a destra, non ci dobbiamo mischiare. Una volta giù Pino ci mischia tutti come un mazzo di carte napoletane. Comincia il lavoro …
Giuseppe: parla ai ragazzi “non fate niente che vi possa condurre al carcere”. Ha 47 anni e da 20 è lì. Ha due figli, due gemelli e non si può capire il dolore. Gli manca il mare, i tuffi nell’acqua salata, la sabbia che odiava da giovane, il corpo fa male per il desiderio.
Sappiamo che tra non molto si laurea in lettere, ha la media del 30/30.
Salvatore: ha due figlie laureate, questo è il suo orgoglio. “Sono diventate quello che io avrei voluto essere. In questi anni le ho martellate, ogni volta che venivano a colloquio, per corrispondenza, non fate mai niente che vi possa condurre in carcere, mai, assolutamente!
“Loro devono godere di tutti i piaceri della vita, dei piaceri del mondo. Io ero affascinato dal bello senza il bene. La letteratura mi ha aiutato. Sono entrato qui dentro analfabeta-confessa con un certo imbarazzo- e poi per 10 anni ho parlato di letteratura con le mie figlie quando venivano ai colloqui. Io sono felice perché ho raggiunto il mio scopo. Ragazzi vi auguro di essere felici nello studio”.
Pino: “Salvatore è la persona più felice che io conosco. Da quando gli ho consigliato “La gaia scienza”… ride. La felicità è uno stato d’animo. Lui è qui per la bellezza, il bene e la bellezza possono coincidere.
Gavino: parla ai ragazzi, con dolcezza. Parla di ergastolo, è difficile, la voce si rompe per l’emozione. “Sono in carcere da 20 anni e non sono più la stessa persona. Le condizioni creano le persone, le relazioni le cambiano. Si deve dare una chance alle persone, noi non abbiamo voce”. Cita Sofocle, nessuno è colpevole delle proprie azioni.
Pino: innocenti si può diventare. Penso alla storia di Zidane, non è cosa da farsi ma si può passare dalla colpa alla responsabilità. Gavino è la dolcezza, il carcere è il luogo del dentro e fuori. Bisogna mettersi sul piano della responsabilità, vedere le persone nel racconto della propria storia. Chi si può raccontare ha una relazione con se stesso.
Antonino: l’ergastolo si … ma l’articolo 26 della Costituzione dice che ogni pena deve dare al detenuto la possibilità di uscire. Io ho sbagliato e devo pagare per questo ma ci vuole rispetto per l’entità umana.
Rumori osceni inondano il salone, la voce di Antonino non si sente più. Sono i lavori del cantiere che ho visto entrando. Colpisce che lui per un po’ continua il racconto come a confermare l’abitudine a non essere ascoltato. Ma noi no, lo vogliamo ascoltare … per fortuna di tutti interviene la direttrice(come fa una donna a fare un lavoro del genere?) che fa sospendere i lavori, almeno fino alle 12.30. Il racconto può continuare. E’ curioso ma Antonino non riprende da dove si era interrotto ma ricomincia da capo, ripete ogni passaggio, fino a: “dietro ogni detenuto si trascina una famiglia. Noi siamo come gli alberi nel deserto. Se uno di noi cade non se ne accorge nessuno ma le nostre colpe non possono ricadere sui figli. Mio nonno è stato decorato di guerra, io lo amavo e ammiravo molto. Anche io vorrei essere il nonno di mia nipote.
Pino: la tragedia è sempre in casa, l’etica riguarda la città. Gavino è uno Spinoziano. Il vostro racconto è importante, rimanda all’importanza della testimonianza.
Cosimo: io sono un ex 41bis. Mi sono sposato in carcere, ho una moglie bellissima. Io sono un fine pena mai. Oggi è un giorno importante perché voi ci date la possibilità di esternare i nostri pensieri. Io e mia moglie vorremo una figlia/o. Ho trasformato la mia esperienza in positivo. Ho perso mio padre in carcere. Per me la felicità è dividere il pane siciliano che porta mia moglie con i miei compagni fine pena mai. Fate sentire la nostra voce fuori. Voi siete entrati qua grazie alla Scuola, la Filosofia in carcere è una parola importante. Noi siamo 40 ergastolani che hanno seguito il corso del professore, ora non siamo tutti, alcuni non ci sono, hanno fatto già 40 anni di carcere. Quest’anno stiamo lavorando su comunità, società, stato. Io rispetto le sentenze. L’istruzione apre la mente, l’ignoranza è totale, noi speriamo nel futuro, nel confronto tra esterno e interno.
Pino: queste sono voci non abituate a parlare, ad essere ascoltate. Sei libero se sei ascoltato. Il caso giudiziario è relativamente importante. Chi viene ascoltato è libero, dare ascolto non è ascoltare. Ascoltare vuol dire dare il proprio tempo.
Lorenzo: ho 52 anni, sono in carcere da 18 anni. Io non amo parlare del carcere perché è come piangersi addosso. Mi manca il profumo, la musica. La felicità è ricordare. Ad ogni modo ci dovrebbe essere anche un futuro che l’ergastolo ostativo ti toglie. Ai giovani auguro la felicità interiore. Io nutro la speranza di avere un figlio.
Pino: voi sapete cos’è la libertà non chi sta fuori.
Crescenzo: io ho fatto 10 anni di 41bis. Dopo 20 anni di carcere al corso di filosofia incontro Ferraro che mi abbraccia. La notte aspetto che arrivi l’alba, osservo il sorgere del sole. Lui il prof. ci porta per mano a capire cose diverse che non avevamo mai pensato, mai in quel modo. L’ergastolo ostativo è una mostruosità. Voi siete il futuro, voi che ci ascoltate. Lottate per voi stessi ma fatelo anche per noi.
Pino: ognuno fa e si fa gli auguri.
Andrea: io ho tre figlie, ho una bella famiglia, una figlia è laureata in psicologia. La mia felicità è la mia famiglia, quando mi sono concesse 5 ore di colloquio sono felice. Ho un figlio di 41 anni a cui ho insegnato ad essere corretto. Spero che lo stato ci dia qualche possibilità, dentro di noi il cambiamento c’è.
Aurelio: sono in carcere da 32 anni, scrivo poesie e racconti per bambini. Ho tre figlie a cui raccomando di non sbagliare. Mio figlio è stato arrestato perché l’hanno preso con gli spinelli, da giovani è facile rovinarsi la vita, non lo vedo da 10 anni.
Pino ringrazia gli agenti per il loro lavoro. Sanno come è autenticamente una persona ma la persona deve esprimere regole, relazioni.
Giuseppe: io sono felice perché nel 41bis non sono mai stato così vicino alle persone. In Italia siamo 1800 persone con famiglie anch’esse all’ergastolo, mia moglie ha l’ergastolo, i miei figli. Il giorno più felice che mi ricordo è stato quando dopo tanto isolamento sono uscito nel cortile del carcere e ho visto quel bellissimo albero che avete visto anche voi entrando. Non so cosa dire a questi ragazzi, posso augurare loro tante cose belle. Per noi è difficile, qui siamo tutti del sud, perché non c’è uno del nord? Perché loro hanno lavoro, cultura.
G.: la libertà è la legge che la garantisce, chiedo perdono alla comunità da cui provengo ma posso farlo solo dopo aver espiato la mia pena altrimenti potrei essere frainteso.
Uno studente: ho vissuto insieme a tutti voi un momento vero, reale, che ci ha fatto capire quanto è importante la libertà, per cui la vostra esistenza è importantissima ma avete volti familiari e questo fa paura.
Una studentessa: vi ho ascoltato come una figlia e penso che i vostri figli saranno orgogliosi di voi. La voce è rotta dal pianto. Anche mio padre ha fatto qualche giorno di carcere.
La direttrice: parlo come una voce di dentro, è la sofferenza che porta alla conoscenza.
Federico: perdere la libertà per conoscerla. E’ importante dove guardare piuttosto che cosa guardare, eppure non riesco a capire … siete come dentro un ospedale, come se aveste una malattia ma io vi vedo/sento normali.
Pino: noi respiriamo le persone.
Salvatore: la pena deve finire(cita il libro di Pino che parla di loro).
Pino: lo stato deve educare non punire, questo rende la pena giusta, ci vuole il fine della pena, è un diritto e il diritto è sempre una relazione.
La legge del padre …
Questa esperienza ha cambiato la chimica del mio corpo, grazie amico.
Quando torno a casa il più curioso di tutti è mio padre di 83 anni che non sta proprio in forma … mi chiede ripetutamente “perché sei andata in carcere?” e chiede e chiede. Riesco a rispondergli in un solo modo, gli leggo le voci di Giuseppe, Salvatore, Gavino, Aurelio, Cosimo, Antonino, Giuseppe, Lorenzo, Crescenzo, Andrea, che ho raccolto nel mio quaderno, l’unico oggetto che è entrato con me in carcere. Mi ascolta, riflette, mi chiede se la prossima volta può venire con me, li vuole conoscere. Mio padre non esce di casa da un paio di anni in modo autonomo. Vorrei aggiungere che è libero chi viene ascoltato e che lui mi ha dato questa libertà ma è ripiombato nel suo torpore di vecchio malato.
Anna Serio