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A Carinola

Marzo 25, 2012 Posted by Carceri 0 thoughts on “A Carinola”

Da anni il mio amico Ferraro va in carcere. Va a fare filosofia con i detenuti. Sono anni che lo sento parlare di loro, con amore, con entusiasmo. Ad ogni incontro di filosofia ne parla. Il suo racconto ha il fascino delle storie narrate oralmente non di quelle scritte. E’ un tornare indietro nel tempo, al tempo del racconto senza tempo, è il tempo dell’infanzia ascoltarlo. E’ stupore, è meraviglia. Ferraro è il mio amico ma è soprattutto il mio maestro, non nel senso di mio, ma di me. Sentire questa differenza(mio, di me) detta da un uomo in carcere ostativo da 20 anni mi ha dato un’emozione fortissima, indicibile. Penso a tutto quello che il di me amico è riuscito a trasmettergli in questi anni, a come glielo ha trasmesso. Già da un po’ sentivo un bisogno di condivisione più profondo di questa storia, fino a che, quest’anno, non ho potuto resistere “vado con il di me amico, voglio conoscere questi suoi amici così singolari, possono diventare anche i di me amici”. Una delle prime cose che ho imparato dal di me maestro è il sentimento Amicizia mentre parlava a giovani adolescenti dell’amica/o del cuore. Lentamente li guidava alla scoperta che il sentimento Amicizia è dentro di noi non va ricercato fuori. Il dentro, il fuori. Consapevole di avere/essere Amicizia dentro di me per un approssimativo bilancio della mia esistenza sul pianeta ho seguito le mie suggestioni utilizzandole come navigatore.
E in compagnia di Maurizio come navigatore sono giunta a Carinola, fuori al carcere. Un cancello si è aperto e siamo entrati con la macchina. Immediatamente una poliziotta, attorniata da altri poliziotti, ci ha chiesto i documenti e di aprirle il cofano dell’auto. Per istinto le ho risposto che era aperto ma lei ha insistito “lo deve aprire lei”. Mi sentivo già privata della mia libertà. “Lasciate tutto in macchina soprattutto i cellulari”. Avvertivo una certa tensione. Un signore senza divisa cercava di mantenere con il sorriso una sorta di allegria, di leggerezza. Ci ha guidati all’interno. Siamo stati accolti da altri poliziotti che ripetutamente ci chiedevano se eravamo sicuri di non avere armi con noi. Armi … una sola volta ho visto la pistola di un mio cugino poliziotto e gli ho chiesto di riporla subito da qualche parte in modo che io non potessi più vederla, era orribile. Ci hanno detto che il 1° gruppo che entrava era quello degli studenti e paradossalmente il primo cognome era il mio. Ci hanno fatto passare in un edificio più interno. Il dentro, il fuori, sempre più dentro. Il signore sorridente ci aveva avvertiti che “lì sotto fa molto freddo” per cui mi ero portata il mio soprabito di lana, mi era intollerabile pensare di avere freddo. Entrati nel 2° edificio le mie narici sono state colpite da un odore completamente diverso, un odore sgradevole che assomigliava a quello degli ospedali, delle mense, all’odore della miseria umana. Un colpo allo stomaco. Mi guardavo intorno, c’era il solito cartello “Vietato fumare” ma il maresciallo, che era uno dei nostri accompagnatori in divisa, fumava tranquillamente. L’ abitudine alla decodifica dei linguaggi non verbali ha acceso una vocina nella testa “non si fuma ma qui comando io dunque faccio quello che voglio”. Sulla parete alla mia destra tre quadri che immagino dei detenuti, colorati, molto colorati. Quello centrale è un paesaggio molto confuso, sfumato, rimanda a sensazioni spiacevoli, come quando si soffre il mal di mare. Quello a destra è un campo di margherite, bello, giallo; quello a sinistra è perfetto! Riproduce con colori ad alta definizione i campi inondati di peschi in fiore che abbiamo incontrato sulla strada, venendo qui. C’è la stessa simmetria dei campi, il colore, il silenzio intorno si tocca. I poliziotti aprono il 1° cancello. Entriamo in un corridoio inondato di luce, quanta luce in questo posto. A destra e a sinistra grandi finestre da cui è possibile vedere che siamo sotto il livello della terra, già fa più freddo. A destra un prato verde sopra le nostre teste, a sinistra un cantiere, orrendo. Mi accorgo che se non si chiude il 1° cancello dietro di noi non è possibile aprire il successivo. Non è una bella sensazione, non ci devi pensare a dove stai andando, devi respirare ma quello che respiri non è piacevole, l’unica cosa che incoraggia è la luce che abbaglia. Poi arriviamo su un palcoscenico, siamo increduli. I nostri nuovi amici i senza fine mai sono già lì ci aspettano. Giù ci sono altri detenuti attorniati dalle guardie, noi non capiamo, perché ci hanno messi lì sopra? Aspettiamo Pino con ansia, c’è un po’ di imbarazzo. Penso al senso di questa attesa a cosa mi deve insegnare penso all’attesa di questi uomini all’attesa di questa giornata. Li guardo mi sembrano felici di averci là così vicini, ci guardano e non so come noi sembriamo a loro. La sala comincia a riempirsi, entrano i docenti del carcere, entra Simona, entrano i giornalisti. Anche loro sono interdetti a vederci su un palco. Finalmente arriva Pino, abbraccia uno ad uno i suoi amici e come sua consuetudine ridefinisce il setting, si direbbe in termini analitici. Questa sua ridefinizione per me che ho assistito tante volte al suo lavoro è completamente diversa. Corpo a corpo poliziotti-detenuti, uno scende dal palco e viene rimproverato torna indietro noi dobbiamo uscire dalla scala a sinistra e loro a destra, non ci dobbiamo mischiare. Una volta giù Pino ci mischia tutti come un mazzo di carte napoletane. Comincia il lavoro …
Giuseppe: parla ai ragazzi “non fate niente che vi possa condurre al carcere”. Ha 47 anni e da 20 è lì. Ha due figli, due gemelli e non si può capire il dolore. Gli manca il mare, i tuffi nell’acqua salata, la sabbia che odiava da giovane, il corpo fa male per il desiderio.
Sappiamo che tra non molto si laurea in lettere, ha la media del 30/30.
Salvatore: ha due figlie laureate, questo è il suo orgoglio. “Sono diventate quello che io avrei voluto essere. In questi anni le ho martellate, ogni volta che venivano a colloquio, per corrispondenza, non fate mai niente che vi possa condurre in carcere, mai, assolutamente!
“Loro devono godere di tutti i piaceri della vita, dei piaceri del mondo. Io ero affascinato dal bello senza il bene. La letteratura mi ha aiutato. Sono entrato qui dentro analfabeta-confessa con un certo imbarazzo- e poi per 10 anni ho parlato di letteratura con le mie figlie quando venivano ai colloqui. Io sono felice perché ho raggiunto il mio scopo. Ragazzi vi auguro di essere felici nello studio”.
Pino: “Salvatore è la persona più felice che io conosco. Da quando gli ho consigliato “La gaia scienza”… ride. La felicità è uno stato d’animo. Lui è qui per la bellezza, il bene e la bellezza possono coincidere.
Gavino: parla ai ragazzi, con dolcezza. Parla di ergastolo, è difficile, la voce si rompe per l’emozione. “Sono in carcere da 20 anni e non sono più la stessa persona. Le condizioni creano le persone, le relazioni le cambiano. Si deve dare una chance alle persone, noi non abbiamo voce”. Cita Sofocle, nessuno è colpevole delle proprie azioni.
Pino: innocenti si può diventare. Penso alla storia di Zidane, non è cosa da farsi ma si può passare dalla colpa alla responsabilità. Gavino è la dolcezza, il carcere è il luogo del dentro e fuori. Bisogna mettersi sul piano della responsabilità, vedere le persone nel racconto della propria storia. Chi si può raccontare ha una relazione con se stesso.
Antonino: l’ergastolo si … ma l’articolo 26 della Costituzione dice che ogni pena deve dare al detenuto la possibilità di uscire. Io ho sbagliato e devo pagare per questo ma ci vuole rispetto per l’entità umana.
Rumori osceni inondano il salone, la voce di Antonino non si sente più. Sono i lavori del cantiere che ho visto entrando. Colpisce che lui per un po’ continua il racconto come a confermare l’abitudine a non essere ascoltato. Ma noi no, lo vogliamo ascoltare … per fortuna di tutti interviene la direttrice(come fa una donna a fare un lavoro del genere?) che fa sospendere i lavori, almeno fino alle 12.30. Il racconto può continuare. E’ curioso ma Antonino non riprende da dove si era interrotto ma ricomincia da capo, ripete ogni passaggio, fino a: “dietro ogni detenuto si trascina una famiglia. Noi siamo come gli alberi nel deserto. Se uno di noi cade non se ne accorge nessuno ma le nostre colpe non possono ricadere sui figli. Mio nonno è stato decorato di guerra, io lo amavo e ammiravo molto. Anche io vorrei essere il nonno di mia nipote.
Pino: la tragedia è sempre in casa, l’etica riguarda la città. Gavino è uno Spinoziano. Il vostro racconto è importante, rimanda all’importanza della testimonianza.
Cosimo: io sono un ex 41bis. Mi sono sposato in carcere, ho una moglie bellissima. Io sono un fine pena mai. Oggi è un giorno importante perché voi ci date la possibilità di esternare i nostri pensieri. Io e mia moglie vorremo una figlia/o. Ho trasformato la mia esperienza in positivo. Ho perso mio padre in carcere. Per me la felicità è dividere il pane siciliano che porta mia moglie con i miei compagni fine pena mai. Fate sentire la nostra voce fuori. Voi siete entrati qua grazie alla Scuola, la Filosofia in carcere è una parola importante. Noi siamo 40 ergastolani che hanno seguito il corso del professore, ora non siamo tutti, alcuni non ci sono, hanno fatto già 40 anni di carcere. Quest’anno stiamo lavorando su comunità, società, stato. Io rispetto le sentenze. L’istruzione apre la mente, l’ignoranza è totale, noi speriamo nel futuro, nel confronto tra esterno e interno.
Pino: queste sono voci non abituate a parlare, ad essere ascoltate. Sei libero se sei ascoltato. Il caso giudiziario è relativamente importante. Chi viene ascoltato è libero, dare ascolto non è ascoltare. Ascoltare vuol dire dare il proprio tempo.
Lorenzo: ho 52 anni, sono in carcere da 18 anni. Io non amo parlare del carcere perché è come piangersi addosso. Mi manca il profumo, la musica. La felicità è ricordare. Ad ogni modo ci dovrebbe essere anche un futuro che l’ergastolo ostativo ti toglie. Ai giovani auguro la felicità interiore. Io nutro la speranza di avere un figlio.
Pino: voi sapete cos’è la libertà non chi sta fuori.
Crescenzo: io ho fatto 10 anni di 41bis. Dopo 20 anni di carcere al corso di filosofia incontro Ferraro che mi abbraccia. La notte aspetto che arrivi l’alba, osservo il sorgere del sole. Lui il prof. ci porta per mano a capire cose diverse che non avevamo mai pensato, mai in quel modo. L’ergastolo ostativo è una mostruosità. Voi siete il futuro, voi che ci ascoltate. Lottate per voi stessi ma fatelo anche per noi.
Pino: ognuno fa e si fa gli auguri.
Andrea: io ho tre figlie, ho una bella famiglia, una figlia è laureata in psicologia. La mia felicità è la mia famiglia, quando mi sono concesse 5 ore di colloquio sono felice. Ho un figlio di 41 anni a cui ho insegnato ad essere corretto. Spero che lo stato ci dia qualche possibilità, dentro di noi il cambiamento c’è.
Aurelio: sono in carcere da 32 anni, scrivo poesie e racconti per bambini. Ho tre figlie a cui raccomando di non sbagliare. Mio figlio è stato arrestato perché l’hanno preso con gli spinelli, da giovani è facile rovinarsi la vita, non lo vedo da 10 anni.
Pino ringrazia gli agenti per il loro lavoro. Sanno come è autenticamente una persona ma la persona deve esprimere regole, relazioni.
Giuseppe: io sono felice perché nel 41bis non sono mai stato così vicino alle persone. In Italia siamo 1800 persone con famiglie anch’esse all’ergastolo, mia moglie ha l’ergastolo, i miei figli. Il giorno più felice che mi ricordo è stato quando dopo tanto isolamento sono uscito nel cortile del carcere e ho visto quel bellissimo albero che avete visto anche voi entrando. Non so cosa dire a questi ragazzi, posso augurare loro tante cose belle. Per noi è difficile, qui siamo tutti del sud, perché non c’è uno del nord? Perché loro hanno lavoro, cultura.
G.: la libertà è la legge che la garantisce, chiedo perdono alla comunità da cui provengo ma posso farlo solo dopo aver espiato la mia pena altrimenti potrei essere frainteso.
Uno studente: ho vissuto insieme a tutti voi un momento vero, reale, che ci ha fatto capire quanto è importante la libertà, per cui la vostra esistenza è importantissima ma avete volti familiari e questo fa paura.
Una studentessa: vi ho ascoltato come una figlia e penso che i vostri figli saranno orgogliosi di voi. La voce è rotta dal pianto. Anche mio padre ha fatto qualche giorno di carcere.
La direttrice: parlo come una voce di dentro, è la sofferenza che porta alla conoscenza.
Federico: perdere la libertà per conoscerla. E’ importante dove guardare piuttosto che cosa guardare, eppure non riesco a capire … siete come dentro un ospedale, come se aveste una malattia ma io vi vedo/sento normali.
Pino: noi respiriamo le persone.
Salvatore: la pena deve finire(cita il libro di Pino che parla di loro).
Pino: lo stato deve educare non punire, questo rende la pena giusta, ci vuole il fine della pena, è un diritto e il diritto è sempre una relazione.
La legge del padre …
Questa esperienza ha cambiato la chimica del mio corpo, grazie amico.
Quando torno a casa il più curioso di tutti è mio padre di 83 anni che non sta proprio in forma … mi chiede ripetutamente “perché sei andata in carcere?” e chiede e chiede. Riesco a rispondergli in un solo modo, gli leggo le voci di Giuseppe, Salvatore, Gavino, Aurelio, Cosimo, Antonino, Giuseppe, Lorenzo, Crescenzo, Andrea, che ho raccolto nel mio quaderno, l’unico oggetto che è entrato con me in carcere. Mi ascolta, riflette, mi chiede se la prossima volta può venire con me, li vuole conoscere. Mio padre non esce di casa da un paio di anni in modo autonomo. Vorrei aggiungere che è libero chi viene ascoltato e che lui mi ha dato questa libertà ma è ripiombato nel suo torpore di vecchio malato.

Anna Serio

La paura e la verità del desiderio

Marzo 5, 2012 Posted by επιμελεια - Epimeleia 0 thoughts on “La paura e la verità del desiderio”

C’è una strana corrispondenza tra la paura e la speranza. S’intrecciano. Girano intorno ad uno stesso asse. L’Altro. E’ l’altro che suscita paura. E’ altro. Ciò viene da altrove ed è qui, non di qui. Estraneo. L’Altro è senza volto, non persona, scuro in viso, non è riconoscibile, non fa parte della casa, non ha cittadinanza, è fuori della comunità. Non si sa cosa e chi. Ospite ostile. Minaccia, non sta ai patti. Non rispetta i confini, invade. E’ di un altro genere. Di un altro luogo. Parla un’altra lingua. Ha un pensiero altro. Senza contorni precisi. E’ fuori del discorso. Illegibile. Illegale. Improprio. L’altro è il buio, ed è nel buio. E’ l’ombra. Abbuia l’animo, oscura. Lascia la voce strozzarsi in grido o farsi attonita. L’altro è prima ancora del dubbio. Prima ancora del rimando. Non lascia tempo al giudizio. Minaccia. E’ l’altro da cui si fugge.

Eppure è ancora l’altro, in un movimento contrario, a suscitare la speranza. L’altro che si cerca, l’altro che si vuole rappresentare, l’altro che si vuole diventare, l’altro che si vuole che ritorni, l’altro che si attende. Bisogna seguire un tale movimento, un tale moto interiore, per capire l’intreccio di speranza e paura, ma anche per capire che l’affezione da cui si generano è del corpo, prima ancora che come affetto trovi un causa adeguata al suo presentarsi.

La distinzione è di Spinoza. L’affezione è propriamente del corpo. L’affetto è quando l’affezione trova una causa adeguata, quando la mente registra i movimenti del corpo riscoprendoli come propri, moti dell’animo. La corrispondenza tra mente e corpo appare nell’Etica smarrirsi per un momento. Spinoza è costretto a ritornarvi pure dichiarando di averla precisa in maniera definitiva già prima (Scholium, Demonstratio, Propositio II, Pars III). E’ un aggiramento continuo. Un ricorrersi a cerchio per una tale corrispondenza che comprova la funzione del tempo e perciò dell’esperienza e della significazione concettuale che le è seconda. Un aggirarsi e rincorrersi che solo nell’eternità dell’amor dei inteclualis si acquieta, trova acquiscienza e abbandono. Il corpo e la mente si corrispondono in dio, ma c’è da farne esperienza prima di giungere alla verità di un tutt’uno. La mente trova la causa dell’affezione traducendola in affetto, la mente corrisponde al corpo, lo adegua, gli si adegua. Dopo. I significati sono il nostro ritarso sulle cose. Le cause vengono dopo che le cose sono avvenute. Prima il corpo sente. Ed è solo. Semplicemente ha affezioni. La paura è la prima affezione. Non è ancora chiaro cosa sia. Si accompagna alla passione triste, puà diventare disperazione, opposta alla speranza, che può tradursi in letizia. Il parallelo della corripondenza quasi cambia binario sulla corrispondenza oppositiva di passioni tristi e passioni liete. Prima c’è ancora qualcosa d’altro. Qualcosa che dice d’Altro, qualcosa che dice dell’Altro.

Il desiderio si pone al centro di questo doppio movimento del corpo e dell’animo, del fuori e del dentro, in un cambio di direzione che muove ora in un verso ora in quello opposto. Il desiderio è tra la speranza e la paura. Ne sollecita le oscillazioni, ne riprende le emozioni. Da fuori a dentro e da dentro a fuori. Il desiderio attraversa la paura e si traveste della speranza. Lega l’una all’altra. Permane nell’affezione. Sentimento non ancora. Non c’è tempo. I sentimenti invece sono riflessivi, non speculari, cangianti, non mutevoli. I sentimenti sono fatti di tempo. Cambiano col tempo e nascono e svaniscono col tempo. Hanno un’età, ma hanno anche un’epoca. S’insinuano nella storia come nella biografia, permettono di raccontare il mondo proprio e quello comune. Vanno dall’uno all’altro. Legano e sciolgono l’uno all’altro mondo tra la speranza e la paura.

Le emozioni si danno, le passioni si hanno, i sentimenti si educano. Le affezioni prendono il corpo, gli affetti muovono l’animo, le passioni si hanno per natura, s’impongono. Le emozioni sono improvvise, come le impressioni sono immediate. I sentimenti perdurano. Conservano. Sono più vicini al ricordo, giacciando al fondo. Insistono. Le emozioni si danno in segni, i sentimenti in voci. Hanno voce, vanno in cerca in cerca di parole. La paura può fare per intera la scala dalle emozioni ai sentimenti, ed ogni volta produce moti e stati differenti. Sono le paure. Sociali, personali. La paura rimanda sempre alla solitudine, al sentirsi soli ed esposti. Ed è per questo anche quell’affezione che si traduce nell’affetto dell’Io. Le paure sono differenti. La paura fa la differenza. E’ generativa, richiama un generare differente, un genere e un altro. La differenza si scopre nel egenrare, di ciò che genera la paura e di ciò che si genera dalla paura. L’uso che se ne fa, il modo in cui la si vive e la si sfida. Il suo diventare timore e il suo insistere in desiderio, il farsi precoccupazione e darsi come cura. L’uso della paura, l’aggirarla, il solecitarla, il deviarla, il donarla. Fuori dai sentimenti la differenza di genere è un calcolo, una rappresentazione logica, grammaticale. Utile a disitnguere e a mettere in fila, a registrare. I sentimenti sono invece singolari nel loro essere comuni. Ed è in questo comune singolare che la differenza di genera si genera e genra nell’assoluta individualità.

La paura è un’affezione, non è un affetto. Lo si legge in Spinoza. La mente non trova per essa una causa adeguata a ciò che il corpo proprio percepisce. Non ha causa adeguata. La Mente umana non percepisce alcun corpo esterno come esistente in atto se non mediante le idee delle affezioni del suo Corpo (prop. XXVI, P. II). Domina il dubbio, il sospetto. E sempre la paura è attaccata alla speranza. «La speranza infatti non è altro se non una letizia incostante, nata dall’immagine di una cosa futura o passata, del cui esito dubitiamo. La paura invece è una tristezza incostante, nata dall’immagine di una cosa dubbia. Se ora da questi affetti si toglie il dubbio, la speranza diventa sicurezza e la paura disperazione» (Sc. II prop. XVIII p. III) Manca alla paura come affezione la causa che la genera. La paura è la percezione dell’estraneo, del fuori, che presto diventa il fuori di sé. Fino a presentarsi anche come paura di se stessi senza che se rappresenti una causa precisa. L’altro, l’altra, restano figure indistinte, inadeguate a ciò che si percepisce, si avverte, si sente. Si è a se stessi indistinti. La paura ne sbarra l’accesso. Assale. Al posto dell’altro, dell’altra, figura un’ombra, il buio, il vuoto del buio. Ad avere paura il corpo si nasconde nel corpo. Le mani fasciano il viso, coprono gli occhi, ci si piega, ci si raggomitola. Allora la paura è interiore o, che è lo stesso, non c’è più difesa dal pericolo che avanza tutt’intorno.

La paura dell’ombra è la prima di cui si fa esperienza. E’ la paura dell’altro senza identità, figura senza immagine, lineamenti del buio. E’ la paura prima. Ogni bambino la incontra e la rimuove. La paura prima è la propria ombra. “Ci segue”. “Ci vede” e “si muove” al nostro muoverci. E’ il primo passaggio di una fenomenologia che scandisce quel processo di continua messa in chiaro. L’ombra diventa fantasma. Una presenza. Nascosta. Si avverte, non si vede. Se ne sente il rumore, la voce, non si vede. Poi assume i lineamenti di persona. Si confonde con il ricordo ed è un ricordo inceppato nell’animo, il ritornante nel buio dell’io.

Ancora un passaggio, la paura è allo specchio. E’ l’io. Inquieta. E’ il corpo proprio che inquieta. Il fuori adesso è il corpo stesso. Aspetta di essere riconosciuto proprio, di essere vissuto come proprio. Segue il passaggio alla maschera. Il travestimento. L’altro. Ancora fuori. Ancora estraneo, ancora turba. Poi l’amico. Colui che accompagna. Chi sostiene. Ascolta le mie parole, che io stesso ascolto dal suo ascolto, nelle sue parole. L’amico infonde coraggio. L’amico è il non nemico. Dalla propria parte e dall’altra parte. La paura stabilisce un tale confine. Un territorializzazione che dal terreno di confine giunge fino ai confini interiori e al proprio.

La paura stabilisce un confine. Una territorializzazione assai precisa. Lo si legge in Omero:“E il padre Zeus dalle alte vette fece sorgere in Aiace la paura (phobos), egli si fermò esterefatto, gettò indietro lo scudo dai sette strati di cuoio, tremò forte, guardandosi intorno, simile a fiera, voltandosi indietro, alternando a poco a poco ginocchio a ginocchio” Iliade XI. 544-7

La paura è recinsiva. Alimenta la proprietà, il proprio. Stabilisce un confine. Non un legame. Un confine territoriale, che si sublima a confine morale. Diventa un confine etnico, che sublima il confine etico. Fino a rappresentarsi come verità. La propria verità. Fino a contenere la verità nella forma de sapere. La iniziale territorializzazione sulla quale si arretra diventa ordine del discorso, il recinto che difende dalla paura diventa il piano discorsivo  che difende la verità. Adesso è questo strano rapporto tra la verità e la paura che viene emergendo. La verità fa paura e risolve la paura. L’ordine del discorso è inclusivo, stabilisce confini formula patti logici, ordini, grammatizza le parole, rende conto di nomi e di tempi. Controlla la voce. Il discorso è la voce che solo si può ascoltare, fuori del discorso le voci sono stonate, estranee, escluse.

Aice arretra. Territorializza il proprio spazio di difesa. E’ un guerriero. La sua difesa è la sua forza. Lo scudo. Si muove come una fiera. Dopo ci sarà ad essere fieri del discorso per vincere la paura.

«Ebbi paura che l’anima mia si accecasse completamente, guardando le cose con gli occhi e cercando di coglierle con ciascuno degli altri sensi. E perciò ritenni di dovermi rifugiare nei discorsi () e considerare in questi la verità delle cose […]. Comunque io mi sono avviato in questa direzione e, di volta in volta, prendendo per base quel ragionamento che mi sembri più solido, giudico vero ciò che concorda con esso, sia rispetto alle cause sia rispetto alle altre cose, e ciò che non concorda giudico non vero […].» (Fedone 99 E)

La paura incontra sul binuario di scambio la verità, che ne prende il posto. La sua verità. Il discorso diventa un territorio di sicurezza. Indica cause, soggetti, circostanza, spiega. Produce giudizi. Include ed esclude. Definisce un confine sociale, un confine di soggettività, il confine dell’Io Penso. E prima ancora, il confine delle Idee. Di un mondo simbolico in cui il mondo della vita trova spiegazione. Meglio, il mondo da confine alla vita. La include. La ospita. La custudisce. La sequestra anche. La paura incontra la sua verità. E’ la vita che mette paura? La vita come morte mette paura. Ed è su tale versante che la paura scopre la verità e il desiderio che la la strascina. Proprio il desiderio.

Il discorso toglie la paura, rappresenta la verità, ma la verità che rappresenta fa paura, non la si può dire tutta, né tutta si lascia dire. Il desiderio, letteralmente, nel suo etico, indica la frattura dell’ordine, la caduta dell’astro che si separa dall’ordine degli astri. La verità toglie la paura, ma la verità fa paura. Il desiderio accende la paura e spinge verso ciò che fa paura. «Anche la paura della morte che è propria dell’uomo comune attesta il desiderio di conoscenza dell’anima.» Si legge nel testo di Aristotele. «Essa infatti fugge ciò che le è ignoto, l’oscurità ed il mistero, e per sua natura cerca ciò che è visibile e conoscibile. … Per la stessa ragione riceviamo gioia dagli oggetti e dagli uomini a noi più familiari, e per l’appunto, chiamiamo amici queste persone a noi note. Tutto questo dimostra che amiamo ciò che è conoscibile ed evidente; e se amiamo ciò che è conoscibile, visibile e chiaro, necessariamente amiamo il conoscere ed il pensare». (Protreptico B103)

La paura svolge un’importante funzione sociale, stabilisci luoghi di sicurezza. Di conoscenza. Di conoscenti. Sempre più vicini, con sempre maggiore legame, gli amici, la famiglia, l’appartenenza. Ha una funzione pedagogica, fa da guida. La paura del voto, dell’interrogazione, della condotta, della bravura degli altri. Ma non si può svolgere una pedagogia della paura. Non bisogna educare alla paura o per mezzo della paura, piuttosto bisogna educare la paura. Spingerla a farsi sentimento. A tradursi in prudenza, in timore, fino a risolversi, a sciogliersi con l’amore, che sta tra la paura e il desiderio. L’amore vero. Quello che prende il posto della verità e da qualcosa ne fa una relazione. Un legame. Il più sicuro. Senza però un ordine preciso. L’amore non ha discorso. E’ fatto di parole, che prendono senso dalla voce, dal tono che fa sentire il proprio sentire di chi vi si pronuncia offrendosi all’altro/a.

Paura e desiderio sono intricate. Non per corrispondenza. Non per parallelismo. Non come per la paura e la speranza. Il desiderio opera al fondo. Nemmeno si può dire che sia un operare. E’ presente. Ed è la verità della paura. La verità della speranza. Il desiderio è come la verità che non si lascia dire. E’ diverso se a pronunciarsi è la voce del padre o se è la voce della madre. Il padre è sempre il padre del discorso. Il padre delletica. Tutti i libri di etica sono dedicati al figlio. Da Aristotele a Savater. C’è sempre il padre che fa il discroso al figlio perchéproceda sicuro nella società, fuori, tra gli altri, nel mondo. Dall’altra parte ci sono forse parole senza discorso. La madre dice “non aver paura”. “passa”, come la parola che conforta gli passa. La madre che ha paura della paura del figlio dice di non aver paura. Una paura incomprensibile quella del figlio, perché è una paura della vita che la madre che gli da vita “non capisce”. Non gli offre il discorso dell’inclusione e dell’esclusione, del riparo. Gli offre la sua paura. Gli parla. Lo fa parlare. Fuori dell’ordine del discorso. Parole intrise di paura e speranza, di desiderio. Parole vere, per un momento senza tempo. Non vere per sempre.

Paura e desiderio hanno lo stesso spettro emozionale. L’amore educa il desiderio, l’amore educa la paura. Educa la paura in timore e il desiderio in speranza. L’amore insegna l’attesa e la presenza, insegna ad essere presente, perché chi nella speranza attende prende anche cura, attende senza tempo ed è presente per questo. L’amore educa a stare tra l’evento e l’avvenuto, tra il passato e il futuro che viene dal presente che si racconta, s’immagina, si proietta, si sogna. E’ come noi amiamo che siamo anche qui, è come noi temiamo e come attendiamo. Tutto questo ci viene dalla paura e dal desiderio, dal fondo di una affezione contrastante e uguale, indistinguibile.

L’immagine che Leonardo da Vinci riferiva per dire della condizione di conoscenza della natura, si può trasferire dalla “caverna della natura” alla “caverna della propria natura”.

«… e tirato dalla mia bramosa voglia, vago di vedere la gran copia delle varie e strane forme fatte dalla artifiziosa natura, raggiratomi alquanto infra gli ombrosi scogli, pervenni all’entrata d’una gran caverna; dinanzi alla quale, restato alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa, piegato le mie reni in arco, e ferma la stanca mano sopra il ginocchio e colla destra mi feci tenebre alle abbassate e chiuse ciglia e spesso piegandomi in qua e in là per vedere se dentro vi discernessi alcuna cosa; e questo vietatomi per la grande oscurità che là entro era. E stato alquanto, subito salse in me due cose, paura e desiderio: paura per la minacciante e scura spilonca, desiderio per vedere se là entro fusse alcuna miracolosa cosa» (Scritti Letterari, pag. 184, Rizzoli, Milano 1980)

Quanto è diversa l’immagine della caverna di Leonardo da quella di Platone. Qui ci si trova fuori della caverna. Nel mito di Platone si esce fuori dalla caverna, ci si libera. Dentro ci sono ombre di corpi costruiti da uomini e da loro stessi portati lungo un muretto che prende luce dal fuoco. Fuori c’è il sole, ed è al sole che la vista si rischiara. Bisogna uscire dalla caverna, dalle ombre che scambiamo per essere viventi e parlanti, mentre non sono che artifizi umani.

Leonardo invece è là, fuori della caverna. Vi guarda dentro. Ne è attratto e spaventato, lo desidera e ne ha paura. Paura per la minaccia, desiderio del mirabile. Del non visto prima. Ciò che fa paura e si desidera per venirne in possesso ed acquisire un nuovo sguardo. Per Platone è il sole che rende mirabile ogni cosa. Per Leonardo il mirabile è anche nel buio, siamo noi stessi a rischiararlo. Ciò che conosciamo per paura e desiderio è anche una conoscenza desiderosa e pericolosa. Per Platone è l’eros che ci muove, e l’eros è tra il sapere e il non sapere, una mescolanza. Ed è proprio questa la conoscenza che viene dalla spinta dell’eros, la mescolanza, il misto. Con Leonardo, con il Moderno, lontano dal Greco, la mescolanza della conoscenza che alimentiamo e alla quale ci educhiamo è tra la paura e il desiderio, è desiderosa e pericolosa.

«Noi non sappiamo che cosa può un corpo», diceva Spinoza dando alla mente la funzione di trovare una causa adeguata e tradurre l’affezione in affetto, passando dalla passione all’azione, giungendo alla soggettivazione, all’essere soggetto, non senza rilevare che l’essere soggetto è un assoggettamento, che si riscatta e si libera solo come abbandono, acquiescenza. Spinoza distingueva tra l’affezione e l’affetto indicando quest’ultimo come l’affezione che trova, da parte della Mente, la sua causa adeguata o inadeguata. L’una per un affetto gioioso, l’altra per un affetto triste. L’affetto è perciò determinato, consaputo, vissuto con consapevolezza. L’affezione è piuttosto qualcosa che ci prende, è propria del corpo e della mente, ma di quel che la mente non sa del corpo e che la mente non sa di se stessa perché «l’essenza della Mente consiste nell’idea del corpo in azione», ma noi non sappiamo – la Mente non sa – che cosa può il Corpo. Pensiamo perciò di essere liberi nelle nostre azioni, ma accade, al fondo della nostra chiarezza e distinzione, di essere come sonnambuli o come ubriachi, o fanciulli, bambini, drogati. Al fondo della nostra libertà di dire e fare questa e quella cosa opera qualcosa di sconosciuto a noi stessi, alla nostra mente, ed è il corpo. Noi non sappiamo che cosa può il nostro corpo.

Ed è questa la paura. Questo non sapere, questo non poter indicare una causa adeguata alla nostra affezione e di non riuscire perciò a tradurla in affetto, in sentimento, a trovarvi perciò un legame, a fare della paura stessa un legame e a trasformarla in sentimento, perché non sia più paura. Semplice affezione. Ne va del nostro essere vero. Di ciò che siamo veramente e del come poter essere delle persone vere, degli individui, degli uomini in verità, che dicono la verità e sono veri, manifestando il proprio essere autentico.

Non la verità, ma essere veri. Una relazione di dentro e fuori di sé. La relazione di ciò che si è e di ciò che si ha. Tra la vita e l’esistenza. L’una che ospita l’altra ed è dall’altra ospitata. La paura viene dalla vita e bussa alla porta dell’esistenza, della propria vita, quella delle proprie scelte, dei propri progetti, quella si dà preoccupazioni e cura, legami e sentimenti. Quella ci si costruisce. La vita bussa alla porta di questa casa, di ques’edificio. Reclama una sempre nuova ospitalità, entra prepotente e con violenza se ne va via.

Occorre donare la paura per essere veri. Questa è la conclusione cui sono giunto. Ho interrogato giovani e bambini, studenti, docenti, adulti, ho interrogato i libri che mi sono cari, ho letto le loro pagine come fossero lettere pervenutemi da un tempo che è accanto al mio, al nostro adesso, vivente ed esistito. Ho ascoltato gli uomini assenti, i carcerati senza speranza e paura, spenti e ancora vivi.

Il desiderio ci supera. La paura ci supera. Ci trascendono. Superano l’esistenza, vengono dalla vita. Il desiderio è un volere che non siamo noi a volere. Un volere senza volontà. Più vicino alla voglia. Una volere impersonale. Improprio. Come è la vita per il vivente. Impropria. Ciascuno è vita come vivenete ed ha vita come esistente. La che si è impropria. La vita che si ha è propria. La propria casa, il proprio lavoro, le proprie amicizie e relazioni, le proprie idee. La vita che siamo è impropriamente di noi che esistiamo. E la paura è l’imporprio. Il desiderio è l’improprio. Questa presenza inquientanete è di ciò che non si rappresenta pienamente nell’esistenza, e nel mondo. Ad essere veri bisogna stare a questa verità della vita che siamo. Impropria. Gratuita. Inordinabile. Viene alla voce, ma sfugge al significanto più pregnante che la inordina in un discorso.

Solo quando il gratuito diventa un dono assume anche il valore di ciò du cui essere grati. Bisogna donare la propria paura per essere veri. E’ gratuita. Come il desiderio è gratuito. Nasce improvviso. Altrettanto improvvisamente può dissoleversi. Bisogna donare la paura, bisogna educare il desiderio, volere ciò che si prenseta in una volontà impropria. Farla propria. Non per impradonirsene, ma per ospitarla. Nella nostra volontà ospitiamo una volontà che della vita ed è solo in questo scambio del gratuito nel dono che il desiderio diventa amore e la paura una passione lieta.

Diversamente la paura produce mascheramenti. Strategie di menzogne, fino a recludere, confinare, separare, non aprire. Non ci sarà mai condivisione se non metteremo insieme le nostre divisione, le nostre soglie e limiti. Non lo si può astrattamente. Occorre donare la paura. Non è da tutti, ma è da ognuno.

La paura genera superstizione. E’ una leva del potere. Sul piano sociale agisce come separatore e ingiunzione di dovere. Sarà ancora più evidente che non bisogna educare al dovere, ma al potere fare di cui il dovere è lo strumento, non il fine. Il fine del dovere è la potenza, non l’obbedienza. La potenza è il rovescio dell’obbedienza. La potenza è attiva, l’obbedienza è passiva, ed anche ingannevole. La potenza invece è pura manifestazione di presenza, di attesa, di attenzione.

Non dovete aver paura! O forse no, bisogna aver paura!? Può dunque la paura essere qualcosa che si può suscitare per urgenza, per necessità, per obbligo? Certo a scuola la paura è presente. Si fa uso della paura. Attraverso il voto, l’interrogazione, il giudizio. Adesso c’è la ripresa del voto in condotta. Dovrebbe far paura. Per questo si ha il facilitatore e si ricorre a mezzi sedativi, a minimizzare le difficoltà. Forse è proprio il posto della paura ad essere difficile da indicare per avviare un processo educativo, per apprendere. Non bisogna aver paura, ma forse dovremmo affermare che è da educare la paura, piuttosto che educare per mezzo della paura o educare alla paura. La questione passa di soglia in soglia dalla scuola alla società, dall’educazione alla politica, dalla formazione alla professione, da sé agli altri. La paura è proprio della relazione, ma è come un momento, arriva, non la si può decidere. La paura arriva quando non c’è relazione. Non la si può suscitare, accade. E’ la paura di fronte all’imprevisto, al non riuscire a dominare una situazione, a non trovare relazione tra ciò che avviene e ciò che lo determina. Oppure la paura di ciò che si è fatto. Ma allora la paura non trova più la causa come sua determinazione, la causa diventa la colpa. Sulla paura si sviluppa la coscienza morale, non l’etica.

Non bisogna confondere la paura con la preoccupazione. La paura è sempre al presente. Sempre ora. Adesso. Tale però da sconvolgere il presente e l’adesso. E presto ci accorgiamo che tutto il nostro ragionare e organizzare la nostra la vita, sul piano istituzionale, sociale, personale, non è nient’altro che stabilire un adesso, un’ora senza lasciare libera la paura, dominandola. Così ci procuriamo la soggettività,  diventiamo soggetti agenti, stabiliamo le nostre relazioni, avanziamo esorcizzando, eliminando, dominando la paura. Procuriamo anche finzioni di scena mostruosa, delittuose, per non avere paura.

Ma cosa è mai e da dove viene e dove ci porta la paura? Viene da altro, dall’altro, da ciò che è altro e che non si conosce. La prima paura, quella che dimentichiamo da bambini è la paura dell’ombra, ma anche la paura del cibo, quando si passa dal seno allo svezzamento. Il rifiuto di ciò che non si conosce. La paura è un sistema di difesa. Ma da chi? da cosa? Chi e cosa ci fa paura? Esistere. Non esito. E’ questo. Esistere. La paura è l’affezione dell’esistenza. La paura esiste, ex siste, viene all’esistenza dalla vita. Nella paura ci troviamo sulla soglia dell’esistenza e della vita, al confine. Possiamo perderla, ma è anche questo perderla che suscita insieme alla paura il desiderio.

La filosofia si spinge sull’abisso dell’esistenza, dove la paura diventa angoscia. I filosofi la conoscono come paura di nulla, come paura che viene dal nulla. E’ questa la distinzione che la filosofia ha segnalato tra la paura come affezione della coscienza e l’angoscia come affezione dell’esistenza. Non è la stessa. Sulla paura come affezione della coscienza è nata la morale. Sull’angoscia come affezione dell’esistenza è nata l’ontologia, la domanda sull’essere. Qualcosa che gli antichi non hanno conosciuto, perché si sono interrogati sulla sostanza dell’essere, su ciò che ci mantiene in esistenza nella vita, al mondo come commisurato allo splendore e al movimento degli astri, riposto sull’armonia dell’universo. L’ontologia si afferma invece come domanda sull’essere, sul senso dell’essere. Su come lo percepiamo e lo viviamo e così lo perdiamo e ci smarriamo. I Greci non hanno conosciuto l’angoscia. Non hanno saputo della paura del nulla. Sapevano del panico ed era la paura del tutto, pan, la paura della Natura, della Physis. Conoscevano il panico, la paura di quando ci sente soli nella natura, noi conosciamo la paura di quando ci si sente soli al mondo. Ed è diversa. La caverna di Leonardo è diversa dalla caverna di Platone. L’uno cerca di entravi, ne attratto e la teme. L’altro cerca di uscirne, di venire al mondo. La caverna adesso è il nostro animo. Il dentro noi.

I filosofi conoscono la paura, la colgono come angoscia, parlano della paura della coscienza e della paura dell’esistenza. Non si riferiscono ad un’analitica della psiche, ma ad un’analitica dell’esistenza.

I greci non avevano bisogno di una morale, perché sorretti, come dice Nietzsche, da un’etica quale espressione del cosmo, sul quale potevano scrivere la propria estetica, la propria rilevanza artistica. Noi invece costruiamo morali senza alcun fondamento etico. Confondiamo morale ed etica. Ci spingiamo a distinguere l’una dall’altra. Non comprendiamo ancora che l’una è dentro l’altra, ne è la pittura, l’interpretazione, la condotta personale. Estetica.

I filosofi conoscono la paura, l’angoscia, il non senso, per questo sono anche i più felici, per questo parlano della gioia ed ogni libro di etica finisce in gioia. I filosofi sanno della felicità. Sanno andare oltre la paura, oltre l’inganno e l’illusione.

Vado sui confini della città, dove la voce non trova parola o resta muta, dove la voce non trova ascolto e ha paura, lacerandosi in un grido o chiudendosi in silenzio. Quando entro in carcere, quando varco tutti quei cancelli uno dietro l’altro, non saprei dire se è la stessa paura del primo giorno sotto scuola, davanti alla porta dell’aula. Non so se sia la stessa di quel ragazzo di una scuola a Ponticelli, che ho trovato da solo, al corso di recupero, o di Luigi, il bambino solo all’ultimo banco. Non so se è la stessa  della ragazza di Giugliano che arriva all’ISIS “de Nicola” al Vomero, in quella scuola dove, ad ogni rampa di scala all’ingresso del piano, c’è un cancello. E’ aperto. Spero, credo, immagino, che non sia mai stato chiuso, ma è là.

Quando sono andato in carcere insieme ai miei studenti, c’è stata una ragazza che ha chiesto a quanti vivono l’ergastolo rinchiusi là dentro se avessero paura. Sì, ha risposto uno di loro, paura di uscire fuori.

E’ necessario avere paura. Senza non c’è l’io. Senza si è senza difese. Ho conosciuto una bambina nella scuola di Caserta. E’ brasiliana. Ha l’insegnante di sostegno. Ha dodici anni. E’ in quarta, con bambini che di anni ne hanno nove. Non parla. Ha un sorriso tenue sulle labbra. Occhi grandi. Qualunque cosa le chiedi e le dici, non risponde. Mantiene il suo sorriso, arrendevole, sul quale ti devi arrendere. Non ho mai trovato chiusa una porta così socchiusa. Chiusa perché dallo spiraglio sull’uscio non arriva luce. Non ha disturbi. Sa parlare italiano, ma è come “anoressica”, non parla. Non vuole parlare. Neppure è giusto dire “non vuole parlare”, perché neppure questo vuole. E’ con la sorella in Italia, a Caserta. Il fratello è in Brasile, così pure la mamma. E’ una bambina adottata. Troppo grande per essere adottata e per potersi costituire una memoria che trovi intralcio su un’altra precedente memoria.  Si difende così. Neppure più ha paura. E’ come insensibile, lei che è così sensibile sostenendosi in quel sorriso. Ha scritto che non ha paura. E’ stata come travolta dalla paura.

Un bambino di un rione assai difficile di Pozzuoli diceva pure di non avere paura. Non sentiva nulla. Il padre morto ammazzato, la madre in prigione. Chi non ha paura nemmeno più ha un io, nemmeno è sulla soglia che è tra la vita e l’esistenza, tra il desiderio e la paura di vivere e di esistere.

 

Imparare ad amare

Bisogna imparare ad amare. L’aforisma di Nietzsche recita, si deve imparare ad amare. L’amore toglie la paura? La trasforma. Questo esercizio di trasformazione dei sentimenti è il solo esercizio d’amore. Bisogna imparare ad amare, ma l’amore non toglie la paura, la trasforma. La paura diventa timore. Il timore è l’espressione di una relazione, di un legame. E’ Agostino che nel suo discorso sulla paura (Discorso 348) parla così dell’amore e del timore. Chi ama dio ha timore di dio. Timor, non metus, avrebbero precisato i latini. Timor. La radice della parola ci porta al greco. Il timore è il rispetto che si ha per ciò che si stima, perciò che si venera. Il timore porta la paura a confrontarsi sulla verecondia, sul pudore. Sono queste tonalità di trasformazione della paura che spettano all’amore, all’imparare ad amare.

E tuttavia non basta. Bisogna educare la paura e educare è un modo di amare. Significa stabilire una relazione che trasforma, una relazione di cammino, di formazione, di trasformazione, di desiderio.

Non bisogna educare con la paura, bisogna educare la paura, che significa educarsi alla propria solitudine. A stare da soli. Non isolati. A sentire. A sentirsi. A farsi strumento. A fare del corpo proprio uno strumento di melodia. C’è quel bellissimo aforisma di Nietzsche che parla dell’educazione come melodia quando la singolarità del proprio accento si unisce in armonia ad altri accenti. Il tempo interiore. A questo occorre che ci si educhi educando la paura, incontrando il desiderio e insieme consegnarsi all’educazione amorosa. A risuonare in se stessi e insieme. La parola “libera” dalla paura, ma solo se “libera” la paura, se la trasforma da affezione ad affetto, trasformandola in sentimento.

Bisogna donare la propria paura per essere veramente ciò che si è: vivente esistente. Vivendo esistendo. E non per esistere senza vita. Donare la propria paura si può solo abbandonandosi a chi si ama, amando.

Breve storia del “Salotto del Pensiero”

Marzo 3, 2012 Posted by Scuole 0 thoughts on “Breve storia del “Salotto del Pensiero””

Il “Salotto del Pensiero” si trova nella Scuola Media Statale “G. Gigante di Napoli”. Nasce il 22 maggio 2006  in seguito a una serie di incontri felici, tra persone ancora appassionate di scuola,di giovani studenti, di curiosità relative alle varie modalità di apprendimento. Nasce anche come sfida di fronte a chi non ha più nessuna fiducia nella scuola come istituzione, incancrenita dall’avvicendarsi di varie politiche, che non hanno mai avuto il coraggio di mettere l’istruzione in primo piano veramente, e non solo attraverso un burocratese che ha esasperato moltissimi docenti, che non hanno più energia per combattere. Perché, come dice Simona Marino, docente di Filosofia presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, “l’insegnamento è un corpo a corpo quotidiano”, dove il docente è costantemente esposto a se stesso e ai suoi studenti.

Dopo l’esperienza della Scuola dei Sentimenti con G. Ferraro, docente di Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Napoli, numerosi incontri, tra i docenti coinvolti nell’esperienza e il Prof., fecero maturare l’idea della necessità di uno spazio, che risultasse più accogliente della classe e dell’aula magna. Spazio per lavorare all’esercizio del pensiero critico degli studenti, ma anche,e soprattutto, dei docenti stessi. Una sorta di bottega artigianale del pensiero, dove nessuna idea è censurata, dove la valutazione non può essere altro che auto-valutazione,dove il docente scende in campo non solo con il suo sapere, ma anche con il suo non sapere. Dove la disciplina non serve ad elevare barriere e a costruire paure, ma piuttosto ad affrontarle,con l’umiltà che dovrebbe contraddistinguere i professionisti dell’apprendimento.

C’è stata grande cura per arredare questa insolita aula; tappeti, quadri, tavolini abbigliati, tende alle finestre, cuscini, il leggio, un mobile un po’ retrò, fiori, piante, lo specchio, ma soprattutto i divani, generosamente offerti da Chateau D’Axe. Come dice Ferraro “tra il pubblico e il privato c’è il proprio…”.

Il primo anno di vita del Salotto non è stato facile; un pò come quando nasce un bambino….è spesso raffreddato….a volte non dorme o non vuole mangiare…dà molto da fare a chi si occupa di lui… La maggior parte dei docenti mostrava una certa resistenza a portare le classi nel salotto e venivano fuori le richieste più impensate… da tutto il personale della scuola… si può usare per la pausa caffè? si possono portare i genitori per i colloqui? si può utilizzare per colloqui delicati con alunni in difficoltà? si può fare lo sportello ascolto?e quant’altro… tendendo molto a psicologizzare l’ambiente costruito con tanta fatica.. o a demolirne il senso originario… Ma il Salotto è stato strenuamente difeso dai suoi ideatori e sostenitori! Infatti ha un suo Statuto, che definisce in maniera inequivocabile le sue finalità e le sue regole, e ha un suo Manifesto che ne proclama a gran voce le modalità educative, didattiche e organizzative.

La sperimentazione è partita nell’ottobre del 2006. Una sola classe della scuola andava nel salotto in modo sistematico,una volta alla settimana per due ore con due docenti in compresenza. Le docenti alternavano i ruoli di conduttore del gruppo e di osservatore;tutto il lavoro è stato rigorosamente documentato. Le altre classi si affacciavano timidamente al salotto,alcuni docenti chiedevano di poterlo utilizzare per un ciclo di incontri o per qualche particolare problematica emersa in classe. A tutti è stata  richiesta la documentazione degli incontri e i lavori sono stati scrupolosamente raccolti. In primavera sono cominciati “I dialoghi dell’imparare…”a cura di G. Ferraro con i genitori della scuola. La presenza più significativa è stata quella dei genitori i cui figli avevano partecipato alla scuola dei sentimenti…è stato un lavoro entusiasmante… Anna: “grazie al salotto è cambiato il rapporto con mia madre. Ora lei mi da più spazio, non legge più il mio diario, entra nella mia stanza solo dopo aver bussato. Mi è servito a scoprire un lato sconosciuto di mia madre, riflette prima di agire e ora mi tratta più da adulta”. Giovanni: “io a casa non parlo mai, non mi so esprimere. I miei mi vogliono iscrivere in una scuola per potermi esprimere meglio. Io a casa non parlo mai ……nel salotto troviamo gli argomenti che mi interessano, ma a casa io mangio, poi arriva mio padre che sa aggiustare i computer, ma con loro non trovo l’argomento giusto…”Gianluca: “Il salotto è bellissimo! Non me lo aspettavo cosi. Vorrei metterci anche io qualcosa di mio, non so… un’opinione, un oggetto.. non so.. spero tanto di ritornarci”…Valentina(una madre): “qui ho capito che posso ancora sognare; il mio sogno è il sogno di mio figlio!”

Quest’anno quasi tutte le classi della scuola sperimentano il metodo filosofico nel salotto del pensiero; inoltre, nel salotto, è stato realizzato il Progetto Segnali, un progetto di prevenzione dalle tossicodipendenze patrocinato dalla Regione Campania. Si è parlato di dipendenza in chiave filosofica, sempre con la collaborazione di G. Ferraro, che continua non solo il suo lavoro con gli studenti e i genitori della scuola, ma è il supervisore di tutto il lavoro e la produzione dei docenti, non più timidi fruitori di questo magico spazio.

Uno degli incontri più stimolanti è stato quello con il personale ATA (collaboratori scolastici e personale della segreteria). Sono esplicative le conclusioni di Annalisa, volontaria del servizio civile, che ha molto collaborato al salotto in questo suo 2°anno di vita: “…quando l’incontro si conclude si avverte in tutti un po’ di dispiacere, come se ci si fosse allontanati da tavola ancora con un po’ di appetito”. Questo è proprio il senso delle nostre intenzioni: creare le condizioni affinché negli studenti, ma non solo, si sviluppi un appetito della conoscenza che è indispensabile a generare nuova conoscenza, insomma un terreno di cultura(nel senso biologico del termine) per un sapere generativo! Questo è per noi il Salotto del Pensiero!

Anna Serio

…e i pensieri cominciarono a volare… Il primo incontro nel “Salotto del Pensiero”

Marzo 3, 2012 Posted by Scuole 0 thoughts on “…e i pensieri cominciarono a volare… Il primo incontro nel “Salotto del Pensiero””

Classe 1°

Elvira

A primo impatto, appena ho visto il salotto, ho fatto un tuffo nel passato ricordando le cose antiche raffigurate nei libri. Invece appena accomodati sui tappeti ho  avuto l’impressione che quella porta  blu ci separasse dalla scuola e dalla casa. Concludo dicendo che mi sono trovata molto a mio agio nel salotto perché è come se stessi a casa mia.

Federica

Io penso che il salotto del pensiero sia una minuscola casa con all’interno degli oggetti meravigliosi.

Sembra che dietro la porta del salotto ci sia un portale magico che ti porta a casa.

Chiara

Nel salotto….Quando sono entrata li mi sono sentita come a casa mia. Ciò perché è arredato proprio come una casa vera e propria .

Francesco

Il salotto mi è sembrato come se fossi a casa con la mia famiglia. I compagni erano i miei cugini e la prof. mia mamma.

Luca

A prima vista il salotto mi è sembrato una cosa antica piena di ricordi e mi sono sentito a mio agio.

Enzo

Quando sono entrato nel salotto le cose cambiavano e cosi ci siamo seduti sul tappeto e tutto è diventato tranquillo. Per me era un posto di riposo e di tranquillità.

Fabiana

Nel salotto mi sono sentita a mio agio perchè sembrava di stare a casa. Il salotto era molto bello e lussureggiante. La porta sembrava quasi un passaggio dalla scuola alla casa.

Flavia

Nel salotto…mi sono sentita a mio agio quasi come se fossi a casa mia.

Armando

Il salotto è stato per me bello perché mi ha fatto ricordare una persona alla quale ero tanto affezionato che ora non c’è più. E mi ha fatto ricordare la Signora e sono felice.

Giovanni

Mi sono divertito tanto come fossi a casa mia.

Savio

Quando ho visto il salotto ho ricordato la mia casa vecchia con quei mobili e tavoli antichi poi anche  quelle ricamature (?) erano bellissime.

Emanuele

Il salotto è molto bello e anche se è piccolo è spazioso.

Roberto

Nel salotto ho sentito che stavo in una stanza di casa e mi sono rilassato ed è stato molto bello.

Marina

Non immaginavo fosse cosi…cosi…. familiare il salotto. È bello ed assomiglia ad una casa antica tipo quella della mia nonna materna: con il divano blu mare , i tavoli , i quadri. Stando dentro mi ero dimenticata che ero a scuola, e invece… bastava aprire la porta! Dentro si crea un’atmosfera molto tranquilla, serena, e si è rilassati come se si fosse a casa con fratelli e sorelle. Insomma il salotto del pensiero è stupendamente bello.

Classe 3°

Giovanni

Il giorno 18 maggio 2006 siamo andati nel “salotto del pensiero”. È stato bello ritrovarsi in una stanza senza banchi, cattedra, e lavagna, e leggere una parte di quel meraviglioso libro(Il piccolo principe), si è potuto infatti riflettere meglio. Peccato solo che quella divertente attività sia finita cosi presto e siamo dovuti ritornare in classe. Magari fosse tutti i giorni cosi!

Arianna

Ieri siamo andati in un’aula per un progetto chiamato “il salotto del pensiero”. L’aula era diversa dalle altre volte era in stile “etnico”; devo dire mi piaceva lo stile della camera e sinceramente mi è piaciuto come siamo stati insieme. La professoressa ci ha letto delle pagine tratte dal libro “Il piccolo principe” molto istruttive e noi abbiamo ascoltato seduti a terra su dei cuscini. È stato diverso dalle altre volte perché l’atmosfera era più bella.

Valentina

Ieri alla 4° ora cioè l’ora di compresenza italiano-matematica siamo andati nell’aula “il  salotto del pensiero” a svolgere l’attività del salotto stando insieme seduti su dei tappeti e  ad ascoltare la nostra prof. di italiano che leggeva il libro “Il piccolo principe”. L’aula dava una sensazione di relax e piacimento(?)ma purtroppo l’ora è finita e siamo ritornati in classe. Spero che faremo molto presto un’altra giornata così spensierata.

Francesco

Giovedì nell’ora di compresenza di italiano e matematica siamo andati nella stanza “il salotto del pensiero”. E’ stato molto bello fare quest’attività fuori dalla classe. Stare seduti a terra è stato molto rilassante e abbiamo avuto l’opportunità di esprimere le nostre opinioni riguardo al libro “il piccolo principe”,letto dalla prof di italiano,senza essere giudicati. E’ stata un esperienza che rifarei perché mi ha fatto pensare moltissimo.

Umberto

Ieri siamo andati nell’aula del salotto dove ci siamo seduti tutti a terra riuniti in un cerchio e la prof di italiano ha letto un libro che noi dovevamo poi spiegare ciò che avevamo capito .Questa stanza era molto bella,era ben arredata  e ci siamo sentiti tutti a nostro agio è stato un progetto più divertente perché non eravamo in classe. Questo progetto è stato bello e vorrei poterlo ripetere con i miei compagni e i professori perché è divertente e rilassante.

Stefano

Ieri siamo andati nel salotto del pensiero e ci siamo seduti sui tappeti in cerchio. La prof…ha letto il libro del piccolo principe. Quest’attività è stata molto bella perchè ci siamo rilassati ed era molto bello perché sembrava di stare a casa.

Daniele

Il 18 maggio siamo andati nell’aula “il salotto del pensiero”. Siamo andati io,la mia classe e i due professore di matematica e italiano. Abbiamo letto un libro il cui nome è “il piccolo principe”. Questa storia è ambientata su un paese immaginario,è una storia molto bella. In quest’aula eravamo seduti per terra su dei tappeti,un ambiente che non si direbbe proprio quello di un aula ma quello di un salotto.

 

..…..

Ieri 18/5/2006 siamo andati nel salotto del pensiero. Abbiamo trascorso un’ora lì leggendo un libro. Lì c’era un atmosfera diversa da quella che c’è in classe. Stavamo seduti sui tappeti mentre la prof leggeva noi ascoltavamo attentamente. E’ stata un attività divertente magari fosse tutti i giorni così.

…….

Il giorno 18/05/06 abbiamo fatto un progetto di “salotto”. Ci siamo riuniti in un’aula molto bella.

Era arredata come se stessimo in un salotto. C’erano tappeti a terra, un divano, sedie, cuscini e quadri appesi. C’erano persino i mobiletti con gli oggetti e le tende. Era molto accogliente e devo dire la verità ero a mio agio. La professoressa insieme al prof….. ha letto il libro del “piccolo principe”, un versetto e l’abbiamo commentato insieme e espresso tutti i nostri pensieri. Questa esperienza è stata molto riflessiva per tutti  e la cosa che mi ha colpito di più è stato l’ambiente poiché non ti faceva sentire di stare a scuola.

Gabriele

Il giorno  18 maggio 2006 siamo andati nel salotto del pensiero. E’ stato bello ritrovarsi in una stanza senza banchi cattedra e lavagna e leggere una parte di quel meraviglioso libro,si è potuto infatti riflettere meglio. Peccato solo che quella divertente attività sia finita così presto e siamo dovuti ritornare in classe.

Visita di una classe 3°

Gennaro

Mercoledì insieme alle prof……. siamo andati nel salotto nel pensiero. La cosa che mi ha colpito è il quadro dove c’era la nostra città. Mi sembrava di stare a casa mia. In questa stanza c’erano tappeti, sedie, tavolini e alcune poesie attaccate al muro. Io a dire la verità sono stato molto stupito dal quadro e mi è molto piaciuto soprattutto per questo.

Fabrizio

Questo progetto che ha fatto la prof…. aiutata da altri prof. mi è piaciuto moltissimo perché mi sembrava di stare in una casa con tutti i miei compagni. È stato bellissimo perché stavamo tutti insieme in una specie di salotto….

Gianluca

Mercoledì scorso siamo andati in una stanza chiamata “salotto del pensiero”. Non mi sembrava vero;tuttavia mi sono seduto sul divano con i miei compagni senza guardarmi intorno più di tanto. Quando siamo tornati in classe me ne sono pentito…Mi ha lasciato l’impressione di un luogo pieno di fantasia,poca luce,molto bello e accogliente e ho pensato che chi ha realizzato il salotto è stato particolarmente bravo. E’ stato un bel modo per ritrovarci tutti insieme. Spero di restarci più a lungo la prossima volta…mi sono venute in mente molte cose.

Martina

E’ stata la prima volta,sembrava di stare a casa e non a scuola. C’era poca luce,al centro della stanza mancava qualcosa,era troppo vuoto sebbene ci fossero tappeti,cuscini,poltrone e tavolini abbigliati. Ci siamo un po’ sparpagliati per la stanza,le femmine da una parte e i maschi dall’altra. Mi è piaciuto molto,è un luogo molto bello e accogliente.

Giovanna

Mercoledì scorso insieme alle prof…siamo andati nel salotto del pensiero. Un’aula adibita proprio come una camera da salotto,un luogo dove poter meditare,sognare e rilassarsi. A me sembrava di non essere a scuola. Tanti pensieri offuscavano la mia mente,pensieri interessanti e altri meno .Ho cercato di analizzare n quel momento la mia vita,le cose belle che ho fatto e le cose brutte,le cose che mi sono capitate,le prime cotte,i primi dispiaceri,le allegrie,le ansie,le delusioni. Queste sono esperienze di vita che mi hanno fatto crescere,maturare e formare il carattere.

Alessandra

A dire la verità quel piccolo salotto era molto carino,mi ha colpito molto…pensavo di essere a casa…e sinceramente quei colori mi hanno fatto rilassare e mi sarebbe piaciuto restare un altro po’ a parlare con i miei amici.

Daniele

Mercoledì scorso le prof…ci hanno portato nel salotto del pensiero .Appena entrato ho notato subito che era un posto totalmente diverso dal resto della scuola. Sono rimasto sbalordito .Era un posto poco illuminato e questa è stata l’unica cosa che non mi è piaciuta. Per il resto è un luogo bello e accogliente;spero di ritornarci per osservare meglio i particolari.

Chiara

Mercoledì 10 Maggio siamo andati con le prof…nel salotto del pensiero .In questa stanza che prima era una classe,c’erano tappeti,sedie,tende,cuscini colorati,quadri,un divano e un mobiletto che creavano un’atmosfera articolare. Una stanza diversa dalle altre,senza banchi,lavagna,armadietti, sembrava quasi di non essere a scuola .Appena siamo entrati i maschi si sono seduti mentre noi ragazze ci siamo messe a leggere delle frasi attaccate al muro,si trattava di pensieri di filosofi riguardanti l’amicizia,l’amore,ecc…Mi sarebbe piaciuto restarci più a lungo per riflettere e rilassarmi.

Simona

Mercoledì con le prof…siamo andati a visitare il salotto del pensiero. Appena entrata mi hanno colpito molto i quadri,i vasi,i fiori,le tende,il divano,il tavolo,ma soprattutto le bellissime frasi scritte sui fogli attaccati al muro .In quel momento non mi sembrava di stare a scuola ma in una casa bella e accogliente dove poter stare con gli atri. L’atmosfera,i colori della stanza,aiutavano a riflettere…c’era un bell’odore e non si pensava allo studio.

Chiara

Mercoledì le prof…ci hanno portato a vedere il salotto del pensiero che si trova al secondo piano del nostro istituto. Si tratta di un’aula trasformata in un salotto con lo scopo di facilitare la nostra riflessione e farci concentrare sui nostri pensieri. E’un ‘aula arredata con divano,mobili…e il tutto abbellito anche da vasi con fiori. Appena entrata la classe si è divisa in due gruppi:i maschi si sono scaraventati sul divano,secondo me segno di poco interesse,noi femmine,invece,più interessate,ci siamo dedicate alla lettura di alcune frasi d filosofi che spingevano proprio al ragionamento. Mi è piaciuta la “diversità” rispetto ai luoghi che normalmente frequento con i mie compagni. I colori rilassanti hanno forse proprio lo scopo di lasciar pensare e riflettere. Iniziativa simpatica,innovativa,interessante;non me l’aspettavo così carina e ospitale.

Gabriella

Mercoledì siamo andati a visitare un salotto arredato in una classe della nostra scuola:il salotto del pensiero .Lì alunni,professori e genitori parlano ed esprimono le proprie opinioni. Appena entrata mi sembrava di essere fuori dalla scuola e ho provato una bella sensazione a stare in un ambiente chiuso tra quattro mura diverso da una classe,con tutti i miei compagni. Non c’è mai stata un occasione in cui,fuori dalla scuola,eravamo tutti presenti. L’arredamento era molto bello e colorato,le frasi appese al muro erano molto significative per lo scopo di quel salotto. Non sembrava di stare a scuola,sembrava di stare a casa;non si pensava allo studio…così carino ed accogliente…i colori,il profumo…

Roberta

Mercoledì insieme alle prof…abbiamo visto il “salotto del pensiero” .C’era un divano,sedie,tavoli,tappeti,cuscini,tende…frasi molto carine. Alcuni compagni hanno detto che sembrava di stare a casa,ma a casa non ci sono frasi appese ai muri e mobili disposti in quel modo;è un po’ strano trovarsi in quella stanza e pensare di stare a scuola .Ad alcuni è piaciuto poiché,non essendoci libri,non si pensava allo studio ed era più facile parlare. Il profumo,il divano…e poi ci siamo ritrovati tutti insieme come non era mai capitato fuori dalla scuola. A me non  è piaciuto molto,mi sembrava mancasse qualcosa,anche se no so cosa. Se non fosse stato per i colori avrei giurato di trovarmi nella stanza di attesa dello studio del mio dentista. L’unica cosa che ho apprezzato sono state le tende…non mi aspettavo proprio di vederle!

La stessa 3° torna al salotto.

Giovanna

Mercoledì scorso siamo di nuovo andati nel salotto del pensiero. Ci siamo seduti a terra formando un cerchio e abbiamo ascoltato una piccola parte del “piccolo principe”. Il principe assiste incuriosito nel suo pianeta alla nascita di un fiore spuntato da un seme venuto de chissà dove .Il fiore prepara con cura i suo colori,aggiusta i petali,appare nello splendore della sua bellezza. Ciò suscita invidia agli altri fiori del luogo. Io penso che l’invidia è la cosa più brutta che esista,crea disaccordi,inimicizie,pettegolezzi e a volte anche calunnia .L’invidia suscitata dal fiore nei confronti degli altri è paragonabile all’invidia suscitata da una persona bella nei confronti di persone meno carine,questa bellezza crea fastidi in un gruppo,suscita invidia,la persona stessa resta isolata .La bellezza a volte è un danno.

Chiara

Mercoledì 24 Maggio le prof…ci hanno portato nel salotto del pensiero per discutere su un argomento scelto. Appena arrivati mi sono girata intorno per ammirare eventuali cambiamenti ed ho notato cose nuove,come tanti cuscini colorati sui quali ci siamo seduti,per discutere a terra in cerchio .Una volta sistemati la prof ci ha letto un capitolo tratto dal piccolo principe. Sinceramente non ho capito benissimo il significato della lettura,ma ho notato come da un argomento iniziale se ne possono diramare tanti altri,e come si può andare “oltre” con le parole e con la fantasia. Infatti alla fine siamo giunti a “come ci comportiamo con i nostri genitori per ottenere qualcosa”. Molti hanno detto che compiono cose che possono piacere ai propri genitori  solo per ottenere una cosa tanto desiderata;ad es. Fabrizio per avere il motorino deve andare bene a scuola .A quel punto siamo   giunti al fatto che usare la scuola come mezzo per ottenere qualcosa non è giusto e neanche piacevole. Secondo me andare bene a scuola deve essere uno scopo personale. Ho notato con dispiacere che qualche mio compagno non è stimolato allo studio e non pensa a quale sarà il suo  futuro. Io invece nello studio vedo il mio futuro,e sinceramente,anche se a volte è stancante,non è tanto male studiare!

Chiara

Mercoledì 24……si parlava di un fiore nato da un seme e cresciuto lentamente scegliendo i colori per i suoi petali,aggiustandoli  uno ad uno per non uscire tutto stropicciato. Il piccolo principe vedendolo lo trovò molto bello e decise di portargli dell’acqua per innaffiarlo .Il fiore gli disse di aver paura delle correnti d’aria e che desiderava un riparo per la notte,magari una campana di vetro,perchè faceva molto freddo .Il principe andò a cercare un paravento ma,sentendo il fiore tossire perché gli voleva far venire dei rimorsi,si fermò nonostante la sua buona volontà e il suo amore aveva cominciato ad avere dei dubbi nei suoi confronti ma poi capì;non l’avrebbe dovuto giudicare dalle parole ma dai fatti.

Abbiamo riflettuto sulla vanità; per me essere vanitosi,cioè compiacersi eccessivamente di sé è sbagliato. Una persona infatti non si giudica dal proprio aspetto esteriore ma da ciò che ha dentro e dai sentimenti. Bisogna si aver cura del corpo e non apparire trasandati,ma non bisogna trascorrere ore intere davanti allo specchio. A volte,proprio nelle persone più semplici,possiamo trovare tante qualità,intelligenza e amore. Le persone non vengono giudicate da quello che dicono ma da quello che fanno. Si possono fare tante promesse ma se non vengono rispettate restano parole al vento.

Roberta

Mercoledì24……un fiore nato da un seme che non smetteva mai di crescere. Gli ci vollero giorni e giorni per essere pronto;infatti il fiore sceglieva con cura i suoi colori perché non voleva uscire sgualcito come un papavero. Un giorno al sorgere del sole il fiore era pronto. Quando il piccolo principe lo vide non potè fare a meno di ammirare la sua bellezza. Si capiva subito che il fiore non era molto modesto. Voleva essere curato,così il piccolo principe andò a prendere dell’acqua per innaffiarlo. Un giorno il fiore parlando delle sue spine disse che potevano venire delle tigri con i loro artigli ma il piccolo principe disse che non c’erano tigri su suo pianeta. La vera paura del fiore erano le correnti d’aria e così chiese al piccolo principe un paravento .Lui cominciò a cercarlo ma non ne ebbe il tempo perché il fiore tossiva per fargli capire che aveva bisogno di essere protetto. Il principe cominciò ad avere dei dubbi su di lui ma poi capì che non avrebbe dovuto giudicarlo dalle parole ma dai fatti.

Il fiore era molto vanitoso e tutta la classe era d’accordo che questa parola significa “compiacimento di mettere in mostra i propri pregi”. Una frase molto bella del libro è “non avrei dovuto giudicarlo dalle parole ma dai fatti”.

Purtroppo non tutti fanno così. Abbiamo discusso un bel po’;la maggior parte della classe usa la scuola come mezzo per avere qualcosa che desidera. Invece io quando voglio qualcosa non prometto nulla in cambio perché so che prima o poi l’avrò.

Una cosa molto bella che ha detto Alessia è stata che è inutile  promettere qualcosa ai propri genitori per poi ricevere qualcos’altro perché loro ci vogliono bene e desiderano solo il nostro bene.

Gabriella

Mercoledì 24 siamo tornati nel salotto del pensiero questa volta con un scopo diverso:ascoltare gli altri e farci ascoltare. Dopo aver letto un brano dal piccolo principe ognuno ha fatto le proprio considerazioni sul racconto e,in base a ciò,sulla realtà. Mi ha molto sbalordito che una mia compagna di classe che non va molto bene a scuola,in quella stanza ha parlato e ha detto cose giuste e sensate. A questo punto ho pensato: “se per qualcuno il salotto del pensiero è inutile  si è dovuto ricredere perché tanto inutile non è!”Leggendo il racconto è uscita fuori la vanità e ognuno di noi ha detto a sua. Secondo me un po’ di vanità tutti devono averla,ma superato un certo limite,la persona diventa antipatica ed è giudicata male. Per quanto riguarda il giudizio che una persona ha verso un’altra io credo che sia sbagliato perché prima di giudicare qualcuno bisogna conoscerlo. Infatti se vedo una bella persona che ha un brutto carattere per me non vale nulla. Concludo dicendo che a me piace molto andare nel salotto del pensiero perché lì ognuno dice ciò che gli passa per la testa e mi dispiace che con la chiusura della scuola non rivedremo più quella stanza così speciale.

Il Salotto del Pensiero

Marzo 3, 2012 Posted by Scuole 0 thoughts on “Il Salotto del Pensiero”

Il “Salotto del Pensiero” è un luogo di voci, di parole, di attenzione, di cura, di ascolto. È organizzato all’interno della scuola. Non un luogo di sospensione o interruzione dell’attività curriculare della formazione, ma un luogo dove l’attività formativa possa trovare nuove espressioni e disposizioni su percorsi e per relazioni che decostruiscono il rapporto di classe configurando una più esplicita comunità di ricerca.

Il “Salotto del Pensiero” è il progetto che nasce all’interno del corso di filosofia per la scuola dell’obbligo denominato “Scuola dei Sentimenti” coordinato dal prof. Giuseppe Ferraro, e del quale la prof.ssa Anna Serio è responsabile per la SMS “G. Gigante”. Il progetto trova coinvolte altre scuole che hanno organizzato a tal fine uno spazio alternativo con uguale denominazione a Napoli, Caserta, Chieti, Lanciano, Mantova.

La sua ispirazione s’inserisce nell’esigenza sempre più diffusa di portare la filosofia nella scuola dell’obbligo, non come ulteriore “materia”, ma come pratica di relazione disciplinare al fine di esaltare la funzione delle classi come comunità di ricerca esaltando la relazione di apprendimento e di insegnamento in una circolarità tale che ne riabiliti ruolo e funzione.

La sua pratica aderisce ai Programmi della Comunità Europea nella prospettiva di progetti culturali che liberano le differenze da barriere di esclusione e rilancino il piacere di apprendere, non riferito alle sole facilitazioni ludici, ma per riportare lo stare insieme a scuola alla riscoperta della conoscenza come cura di sé nell’espressione di appartenenza ad una comunità di differenti.

Il principio guida del “Salotto” è di restituire alla scuola una propria “abitabilità”. L’intento è riattivare un patto di fiducia tra docenti e genitori, tra studenti e insegnanti, che permetta una continuità di percorso formativo senza “pena” di confini, senza campi disciplinari astratti dall’esigenza di una vita in comune.

Il presupposto è che i luoghi sono le persone che li abitano. Condizionano e sono condizionati dalle azioni che vi si svolgono. Ogni luogo esprime una precisa organizzazione del tempo che si esplicita nella sua particolare configurazione. Come le stanze di una casa definiscono un ambito diverso di azione, così ogni luogo suggerisce tempi e modi, agio e finalità della funzione per cui è organizzato.

I luoghi nella propria organizzazione dello spazio definiscono una precisa legislazione del tempo, per cui si usano in certo tempo, ospitano in un certo tempo, permettono di operare precise azioni secondo tempi stabiliti. Ogni luogo ha perciò la sua osservanza ed è come tale disciplinare. Non si può svolgere un’azione in un luogo dove l’organizzazione dello spazio e del tempo comporta altre azioni e abitazioni. Ogni luogo pertanto ha una precisa connotazione simbolica. Da queste premesse segue lo statuto:

– Il salotto del pensiero è un luogo di continuità formativa che ospita e rende possibile una relazione educativa ispirata all’idea di una comunità di ricerca.

– Ospita un’intera classe ovvero un gruppo di comunità composito di genitori e di alunni.

– Promuove obiettivi formativi.

 – Procura modalità funzionali di ascolto, di lettura, di dialogo.

 – Esclude attività finalizzate a scopi individuali o di gruppo inaderenti alla relazione educativa.

– Favorisce incontri con genitori e misti, con genitori, docenti e alunni, al fine di riattivare il patto di fiducia formativa che riabiliti un rapporto diretto tra la casa e la scuola come percorso di ritorno formativo di cultura.

Corso di filosofia a Carinola

Marzo 1, 2012 Posted by Carceri 0 thoughts on “Corso di filosofia a Carinola”

Siamo al 13 di ottobre 2011 è il quinto anno questo in cui ci troviamo in cerchio.

Gavino, Croce, Salvatore, Lorenzo, Antonio, Aurelio, Andrea, Antonino, Giuseppe.

L’argomento di quest’anno sarà il rapporto tra Comunità e Società, il Corso sarà dedicato all’Etica Sociale. Lo stesso che terrò con gli studenti all’università, il percorso e i testi non saranno gli stessi, perché un cammino formativo si dispiega dalle esigenze e dalle voci che si esprimono in un dialogo comune.

Oggi abbiamo appena cominciato a porre la questione: parleremo di Etica non più nella prospettiva della relazione personale, ma in quella del rapporto Comunità e Società.

L’incontro ha avuto un’introduzione che può sembrare lontana o estranea al cammino del Corso. Ci siamo seduti in cerchio. Ho chiesto anche per me una sedia uguale a quella di tutti gli altri, non di stoffa e con braccioli, ma di legno, semplice. La trovo più comoda, ma anche giusta. La simbolica della “tavola rotonda” è chi vi siede intorno ha pari dignità, non ci sono gerarchie. Se, però, le sedie intorno non sono uguali anche la tavola non è più rotonda. Si fanno differenze e gerarchie. In una relazione formativa, le gerarchie sono interiori e sono diverse per ognuno e in ogni momento possono cambiare. In ogni caso sono gerarchie di ascolto, di ammirazione.

C’è prima l’esigenza di parlare del Polo Universitario che si sta finalmente costituendo. Arriveremo, si spera, anche a disporre di una sezione specifica, ma importante sarà il servizio di comunicazione tra l’ateneo e l’istituto che consentirà aggiornamenti didattici necessari allo sviluppo del proprio percorso di studi. L’università permette di acquisire una disciplina. Ciò che è più difficile nello studio non è l’apprendimento di questo o quel contenuto, ma lo stare seduto e concentrato per più di cinque minuti. La disciplina è il tempo dell’attenzione e della cura di cui ci si fa capace in una relazione che riguarda dapprima se stesso.

Antonino parla del percorso disciplinare di ognuno che, se immerso in un cammino, può non trovare una critica a quello che svolge. Porta perciò l’attenzione sulla necessità dell’autocritica. Il sapere rende le cose più veloci, aggiungo. Uno quanto più sa, più velocemente riesce a risolvere delle questioni e superare degli inciampi. Anche nella condizione del carcere, quanto più si conoscono le dinamiche di relazione più si riesce ad accelerare richieste ed esigenze. Ci abbiamo messo tanto tempo ad avviare il Polo Universitario, c’è voluto il tempo di sapere il funzionamento di meccanismi di relazione e comunicazione. Quanto più si sa più si vede e più si riesce a fare critica e autocritica. Il sapere innalza, metaforicamente, va volare, permette di vedere dall’alto, offre una visione a più punti di osservazione, permette perciò di trascendere, di avere una visione trascendentale delle cose, che non significa metafisica, ma alta. Si vede di più. Così i paesini costruiti sulle rocche, permettono una maggiore difesa, così le torri. Il sapere si rapporta al vedere e questo alla cura. C’è però l’inciampo più grande per un detenuto quello di trovarsi pure a sapere le cose, ma di trovarsi poi di fronte persone che non vogliono sapere di quel che è giusto fare ed operare. Il sapere non è senza la volontà delle persone che lo svolgono. Così ripeto che non sono le istituzioni cattive o sorde, perché le istituzioni sono le persone che le rappresentano. Cambiano se cambiano le persone. Un giudice è persona d’istituzione, la difficoltà personale è quella di interpretare, considerare, confrontare, intuire, provare, anche osare certe volte. Certo però la cosa più semplice è “far parlare le carte”, trincerarsi dietro i fascicoli.

Parliamo dell’ergastolo ostativo. Di come se ne possa uscire. E di come sia una battaglia per la democrazia e non a favore di uno o di un altro cessare una misura di ostatività che l’ammissione di una misura di prigioniero di guerra senza che sia dichiarata esplicitamente la guerra. Si parla perciò di come la cosiddetta mafia non sia espressione di un esercito in guerra contro lo Stato, ma che produce un danno sociale di cui lo Stato ne risente. Non a caso sono poi anche i funzioni dello Stato a trovarsi vittime.

Lo Stato ha la funzione di garantire la sicurezza sociale e il benessere dei suoi cittadini. Accade però che per tenere la sicurezza manchi l’obbligo del benessere. Basta considerare le spese per la sicurezza dello Stato e come queste potrebbero essere rivolte allo stato sociale e quindi al benessere. È un paradosso. La mancanza di benessere sociale crea insicurezza e per sanare l’insicurezza si manca ancora di più la spesa del benessere.

Come uscire dall’ergastolo ostativo ovvero come uscire dal fine pena mai se non ci sono collaborazioni di giustizia. Ritorniamo a parlare dell’esigenza della collaborazione sociale che rappresenterebbe la vera via di uscita da una storia dentro la quale ci si trova coinvolta e che per molti è ancora una storia finita, non solo sul piano personale, ma su quello epocale.

Storia personale e storia epocale, storia sociale e storia individuale. Bisogna riflettere su questo doppio percorso. Non basta l’ammissione di aver fatto parte di una storia riconoscendo un’appartenenza che confonde la comunità di cui si fa parte, il paese, la cultura, l’ambiente, e la società organizzata entro cui ci si trova impigliati, per scelta consaputa o perché inconsapevolmente travolti. È difficile  per chiunque trovare il filo che permette di individuare la storia personale da quella sociale, il proprio tempo e quello storico di una determinata evoluzione di condizioni generali di vita di un paese.

È tuttavia il percorso personale, il mettere alla prova che diventa necessario indicare. Dopo 20 e più anni di detenzione qualcosa deve pure emergere se quegli anni sono vissuti ad apprendere, a capire, a liberarsi da chi e cosa si è stato, assumendo una disciplina come cura di sé che è sempre effetto delle relazioni.

 

I versi di Lukas

Febbraio 26, 2012 Posted by Approfondimenti 0 thoughts on “I versi di Lukas”

L’aurora è tempo cadenzato dai suoni

immagine e crepitio delle cose,

risvegli come silenzi custoditi nei legni di casa.

Sono stagioni della notte e del giorno

scandite dal ritmo del vento su antenne di palazzi.

Lancette di orologi di un tempo.

Così il  legno dei mobili  si diffonde nei cardini delle porte,

nei tasselli che tengono insieme sponde diverse dei suoni

pareti come tele nei colori del giorno

risuonano,

come brina su fiori.

Sono crepe nel tempo,

intonaci levigati

versi del giorno di notte.

Scrivo come alunni fuori classe

sui gradini della scuola

piego le pagine del libro

per ricordarne versi dimenticati

oblio le parole che insegno

inseguo i volti degli ultimi

ne calco i nomi

impressi nella memoria

faccio della voce

il suono del tempo

dallo sguardo

ne traggo il sapore

dei giorni

l’alternarsi disciplinato

delle materie

il tavolo da lavoro

l’inchiostro

il quaderno

Mi accingo allo sguardo futuro

traccio linee geometriche

come alfabeti di volti

numero di gesso

i pitagorici ritmi

alterno punto e linea

a lavagne di superficie

meraviglia

di tracce di segni

divengono gesso

materia vivente del numero

Stelle cadenti

Dicembre 26, 2011 Posted by Camerota 0 thoughts on “Stelle cadenti”

“Bisogna avere il caos dentro di sè per generare una stella danzante” [Nietzsche].

Evidentemente doveva esserci tanto caos nel cielo l’ultima notte in cui sono stato a Marina di Camerota, perchè le stelle danzanti erano davvero tante. Ed è proprio volgendo gli occhi al cielo e guardando una di quelle stelle danzare o cadere, che mi sono chiesto: dove va a finire una stella cadente? Vedi un punto fermo, fisso che riesce nonostante ciò a danzare nella sua immobilità, grazie alla luce che emana e si unisce al ritmo incalzante della luce delle altre, in un coro di silenzioso movimento. Poi in un attimo è il caos più totale, quel punto diventa un trattino e un attimo dopo diventa il nulla. Che fine ha fatto quella stella? Ho, forse, avuto solo io l’impressione che si muovesse? In fondo, non potrò mai dire di aver visto “cadere” la stessa stella, che ha visto il mio amico, dato che non potrò mai indicargli il punto esatto del cielo infinito in cui è accaduto l’evento. Un’altra cosa che ho capito, questa volta grazie ad un’amica, che nemmeno sa di avermi donato questo pensiero è che non tutti possono vedere una stella cadente. Non è affatto facile.Bisogna imparare a guardare nel posto giusto. A guardare nel modo giusto. Sì perchè facciamo credere a chi non le vede che quelle sono stelle cadenti, che tendono ad andare giù. Così quelle persone cercano di trovare l’evento più giù del cielo, al confine col mare. Noi che vediamo queste stelle dobbiamo far capire alle persone che la traiettoria di una stella non sarà mai discendente, quanto piuttosto è orizzontale. Mi piace pensare che quando una stella non si vede più, perchè “caduta”, quella pià vicina a lei diventi più luminosa, in virtù di un abbraccio stellare. Un po’ come facciamo noi, che quando ci sentiamo soli per non cadere giù ci muoviamo in orizzontale verso chi ci è vicino, per splendere nuovamente dopo un abbraccio. Con queste mie parole non voglio però dire che le stelle “cadenti” non esistano. Esistono eccome. Per fortuna. Le stelle “cadenti” sono quelle che si sono stancate di vedere il mondo spento da lassù. Per questo una volta cadute cercano una rivalsa tentando di illuminare il mondo. Per me quelle stelle sono: Pino, Simona, Alfonso, Cesare, Filippo, Riccardo, Adriano, Francesco, Marco, Massimo, Fulvio, Marco, Liliana, Mariarosaria, Alfonso, Roberta, Paola, Marco, Marialaura, Laura, Marco, giovanna, Anna, Annarella, Pina, e tutti quelli che hanno partecipato a questi tre giorni indimenticabili e con cui mi scuso per non aver inserito il nome. Ringrazio tutti per aver reso quei tre giorni indimenticabili e per aver illuminato la mia vita. Sperto tanto che nessuno di voi abbia capito ciò che ho scritto, perchè vorrebbe dire che c’era tanto caos in queste parole, quanto spero possa un giorno essercene dentro di me.

Dal treno del ritorno

Federico Zaccaria

Verbale d’immagine

Novembre 6, 2011 Posted by Scuole, επιμελεια - Epimeleia 0 thoughts on “Verbale d’immagine”

2011.11.06 verbale-immagine

I Letterati: incontro con Giuseppe Ferraro

Marzo 6, 2011 Posted by επιμελεια - Epimeleia 0 thoughts on “I Letterati: incontro con Giuseppe Ferraro”