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Lo Stato senza Società

Luglio 10, 2015 Posted by Approfondimenti 0 thoughts on “Lo Stato senza Società”

Prendere parola sull’Europa – ora – non è facile, ma è necessario. Si deve a se stessi. Che sia la Grecia a rompere il cerchio della sudditanza appare come l’effetto di una nemesi divina, quasi sia ancora Zeus a ripudiare Europa che prima aveva sedotta, e violentata, nelle sembianze di un toro bianco, espressione di una provenienza di gente diversa senza il colore del sole. Fu l’inclinazione buona della cultura dal Mediterraneo verso le terre interne del continente. Europa significa “buona virata”, “buona sterzata”, “deviazione favorevole”. Il mito fa risalire l’origine anche al matrimonio per rapimento ovvero all’espressione propria della cultura popolare mediterranea della “fujtina”, della “scappatella”. Diciamo pure così, l’Europa ci è scappata dal Mediterraneo, “fujuta”, fuggita, emigrata anche, forse, data in sorte. Zeus in quel caso rappresentò il destino di quella svolta del mediterraneo verso il continente. (L’immagine della pubblicità dell’“estratto di carne” della “Liebig” lo ricorda benissimo) Un mito sofferto, poco frequentato e raccontato perché comunque di una deviazione si è trattata, per quanto accettata come i matrimoni riparatori di una volta. È sempre difficile mantenere buoni rapporti in questi casi. Il richiamo, che ne è venuto in seguito, alla cultura ellenica, come posta alla base dello sviluppo dell’Europa, suona ancora come racconto di un mito di cui liberarsi. L’Europa è la nostra Cultura, diciamolo meglio però. È la cultura del Mediterraneo adattata alla scienza moderna occidentale. Il conflitto tra Scienza e Cultura emerge a sussulti, costantemente, e pone a destino proprio dell’Europa la Crisi, non come momento, ma come appunto destino dell’Europa. È innanzitutto “crisi delle scienze” e delle idee, della politica e dell’economia ovvero di ogni azione e sapere calcolante. È la Krisis spiegata nelle pagine di Husserl, e che ritorna nelle forme del nichilismo, ma che è anche quella che ha permesso degli avanzamenti e dei ripensamenti dello sviluppo dei saperi e della politica. La “Crisi” è costante e dice dello scarto, inadeguabile, tra scienza e filosofia. Una tale inadeguatezza cela lo scarto di cultura nascosto dentro il tormentato divario tra Nord e Sud. Accade spesso di nascondere nella carta geografica quello che è una divergenza di cultura, che diventa evidente nella geopolitica dominante.

Le spiegazioni lasciano il tempo che trovano e fanno perdere quello da trovare. È piuttosto sulle decisioni che è necessario arrivare. Le divisioni non guastano, sono come doppie visioni, molteplici. Il problema è tenerle insieme senza aprire nuove frontiere, che ripetano Nord e Sud, Oriente e Occidente. “Condividere” è tenere insieme le divisioni. Ora si tratta di mettere insieme la cultura, non in forma di nostalgia del passato che fu, con un’economia che non sia quella finanziaria del presente. Per l’Europa “tenere” la Grecia è mantenere la cultura critica del ripensamento, per cui scienza e filosofia, scientismo e cultura, economia e stili di vita, etica e politica stiano insieme. Sul nome della Grecia è di questo che si discute, di Etica e Politica.

È questo il tempo in cui l’organizzazione del rapporto Stato e Società si è disciolto, l’Illuminismo ha chiuso per sempre i suoi battenti. L’Europa nasce come CEE e ora come UE per fronteggiare guerre e divisioni, frontiere e separazioni. Già Kant si augurava che si realizzasse come federazione di Stati Uniti, mentre imperversava la guerra. Con l’Illuminismo si aprì il corso del rapporto Stato e Società con la fine dell’assolutismo. Fu il tempo della nascita dell’economia politica, della scuola pubblica, dei servizi sanitari, della costruzione delle città. Ora siamo giunti alla fine di quel rapporto tra Stato e Società che ha conosciuto tentativi di soluzioni radicali come scioglimento della Società nello Stato tra socialismo e comunismo, finendo nella dissoluzione del liberismo dello Stato “alleggerito” della Società privatizzando le istituzioni. Tra Stato e Società si sono espresse le rappresentanze politiche di classi, indirizzi di idee sociali in conflitto di progresso. Tutto questo è finito, con la fine del rapporto Stato Società sono decadute anche le rappresentanze che ne facevano da mediazione. Siamo ora ad uno Stato senza Società.

Al proletariato si è sostituito il precariato diffuso. Se il proletariato aveva solo la prole a suo destino, il precariato non ha neanche più la propria esistenza come progetto di vita.

Lo Stato senza Società significa la riduzione progressiva dei servizi sociali e l’assunzione delle associazioni come sua sostituzione, dalle carceri agli ospedali, dai servizi pubblici alla scuola, sta nascendo una nuova prospettiva di organizzazione della vita che si dice “dal basso”, che più esplicitamente è da ognuno, dalle persone, dalla propria vita e perciò anche dai propri desideri, passioni e sogni, dalla gioia. La liberazione dei luoghi dismessi dalle funzioni di strutture di un’economia in disfacimento significa l’attivazione di nuove forme di economia e di cospirante ospitalità di persone e stili vita diversi. Al fondo cambia il rapporto tra valore d’uso e valore di scambio dell’economia politica, cambia il rapporto tra possesso e proprietà nella prospettiva di un possesso senza proprietà. Ai soggetti sociali, alle classi, si sostituiscono i territori, sono questi adesso i soggetti sociali, annunciati dalle lotte per l’ambiente, ma che significano di fatto nuovi soggetti sociali per i quali l’abitare e, perciò, l’etica e i legami sono da conquistare. Di tutto questo l’Europa dell’UE finge di non sapere niente. E quando un equilibrio non sa del suo movimento, comincia a vacillare e frantuma, a meno di non provare a ritrovare un altro passo su una nuova e antica strada ovvero dove la politica ritrova l’etica al suo passare.

Con il rifiuto del popolo greco a piegarsi al terrore dei “creditori” non ci si deve chiedere cosa succederà o quali conseguenze comporterà l’eventuale uscita o non uscita della Grecia dall’Europa per gli Stati che ne fanno parte con preoccupazione. La presa di posizione reclama una misura di confine assai precisa, e necessaria: la domanda è cosa vogliamo che sia l’Europa. Viene facile incitare a una Germaniaexit, ma sarebbe pensarla allo stesso modo di chi ragiona per inclusione/esclusione/reclusione. Fuori da questa logica è l’Europa dei territori, delle culture, è l’Europa del Mediterraneo. L’Europa non è non è una sola, dovrebbe essere questo il senso dell’Unione, non l’unità unica, l’Europa non è una moneta. L’Unione richiama sempre il plurale. Fin si è stati costretti a un euromarco insieme dissolvimento di ogni sociale ogni collegialità che sia la scuola o il lavoro, come le riforme “marcano”. Da tempo a scuola non si consegue il diploma di maturità, che indicava la formazione della persona alla società di cittadino, per passare al diploma delle competenze con gli studenti “prodotti” e “formattati” sulle esigenze di mercato del momento. È finita per sempre l’età dell’emancipazione ed della ragione, così come della coscienza di classe, in cambio c’è la farmacia dei diritti, per tenere buone le richieste del momento, e se i soggetti che li reclamano sono “portatoti d’interesse”.

Sono i corpi e le persone, sono i territori adesso i soggetti sociali. Adesso le classi sono i territori, del disagio e dell’agio, quelli esclusivi a fronte di quelli d’esclusione e d’abbandono. Il potere finanziario, che erode la sovranità dello Stato e dissolve la Società, prepara forme movimentate di potere che reclamano scelte, nuovi antagonismi. La vocazione dei territori è nelle voci di quelli che li abitano e li vivono. Questo l’Unione è chiamata a interpretare, la partecipazione delle voci.

GF

RAtto Europa

una piazza per sentimento

Giugno 25, 2015 Posted by Approfondimenti 0 thoughts on “una piazza per sentimento”

Il secolo dei lumi è stato anche quello della nascita della società. È stato il tempo dell’economia politica, dei primi progetti di scuola pubblica, dello sviluppo delle periferie e dei centri urbani, della riforma delle carceri, della scuola dei sentimenti. Di seguito c’è stato il secolo della storia, del progresso, dell’ideologia, dello stato etico, fino ad arrivare allo stato totalitario come primo tentativo di assorbire la società nello Stato facendo nel progetto del socialismo e della cancellazione dello Stato nel comunismo. Entrambi contrastati e fatti degenerare nella condizione attuale. Ora chiamiamo democrazia lo stato di diritto nel quale sperimentiamo il progressivo prosciugamento della società e la gestione privatistica dello Stato. L’Unione Europea cancella la sovranità degli stati locali, indebitati a uniformarsi sotto ricatto del fallimento e della povertà alle condizioni di incastrare tutti i servizi sociali nelle maglie della gestione privata. La parola d’ordine nascosta è privatizzare la società ed eliminare lo stato. L’effetto ideologico è l’informatizzazione e la riduzione della scuola a formattazione continua rispondente alle innovazioni. Si studia per farsi prodotto di mercato, vestendo l’innovazione. “Ingegnarsi” si diceva anche per intendere il vestito nuovo, ed è di un tale vestirsi che si dà la concorrenza sulle competenze. La produzione invade la generazione, scomponendo i generi, così come i prodotti sono di nuova o ultima generazione. La privatizzazione della società e la cancellazione della sovranità degli stati in nome di unità continentali in concorrenza tra di loro sul piano globale, provoca una maggiore precarietà di esistenza individuale. La democrazia è diventata espressione di una farmacia dei diritti, “prodotti” sulla base delle esigenze cliniche a fatturato crescente. Ci sono ragioni senza diritti, perché non danno ricchezza, e diritti senza ragione, perché sono privilegi. I farmaci si producono alimenetando epidemie, per malattie rare non c’è guadagno a produrli, non non se ne ha, e la felciità è una “malattia” rara. Il riconoscimento delle ragioni in diritti è sempre in relazioni alle ragioni di ricchezza. Cresce la solitudine, meglio l’isolamento. La democrazia, senza stato e a società privata, è sempre più gestita da associazioni. La scuola è privatizzata dall’alto, reclama una formattazione sempre più personalizzata e funzionale di settore. La persona è svuotata del tempo della sua esperienza e dei propri sentimenti. L’informatizzazione reclama una gestione sempre più individuale da parte di ogni singolo che perde sempre più stanza sociale per ridursi a sola porta girevole dello scambio d’identità e di persona, come prodotto tra gli altri. I sentimenti lasciano il posto a consulenze e terapie, per essere trattati come patologie. Così la noia è diventata depressione, la malinconia è ora un disturbo dell’umore, così come ogni altra espressione di sentimento. L’amore vissuto è a tempo determinato così come per ogni altro sentimento che ha bisogno di cura per guarire. La società privata diventa una clinica. Crescono i centri di benessere, manca la felicità, perché il benessere è delle condizioni, la felicità è delle relazioni. I sentimenti sono legami, sono fatti di tempo ed è il tempo e il legame che ci mancano. Sono cambiati. Siamo cambiati. È il momento questo di comprenderne gli effetti e capire quali sentimenti ci aspettano e ci spettano, ripensando a quello che è stato fin qui ed è ora il nostro amore, la nostra amicizia, il dolore e il dispiacere, il piacere e l’entusiasmo. Ogni passaggio che diventa storia nel tempo dell’Europa è segnato dalla riforma delle carceri e delle scuole come di ogni luogo di cura e di ospitalità. La storia dell’Europa si misura dalle forme dell’ospitalità e delle migrazioni delle genti. Stiamo vivendo tutto questo, riforma delle scuole, riforme di ospitalità e di detenzione, di campi d’inclusione, reclusione ed esclusione, in una forma d’urgenza perché giunta al punto di una trasformazione radicale delle relazioni, dei legami e dei sentimenti che ne conseguono. Sta cambiano l’economia. Sta cambiando la nostra stessa percezione d’esistenza e il rapporto con la vita. Il nostro modo di abitare. I sentimenti non sono patologie, non necessitano di una clinica, dicono quel che ci accade dentro di quel che avviene fuori e del mondo che vogliamo e sappiamo ancora per una società comune e una comunità sociale. Il programma di “Una piazza per sentimento” è un modo per mettere all’aperto il proprio sentire, di parteciparne, di ripensare il nostro stare insieme e abitarci. Partiamo da dove i sentimenti hanno fatto scuola. I sentimenti sono fatti di tempo. Cominciare dalla Critica del Giudizio, leggerla adesso, vale come tradurla, riportarla al linguaggio adesso corrente, tradurla perciò riportandola dove siamo ora e capirla, ospitarla in un altro tempo per capire quanto sia cambiato il suo e il nostro sentimento. GF

una piazza per sentimento

Lido Pola per un’economia senza proprietà

Giugno 14, 2015 Posted by Approfondimenti 0 thoughts on “Lido Pola per un’economia senza proprietà”

Ieri a Lido Pola, Luca, Domenico, Franceschina, Lorenzo, tutti. Lido Pola è un luogo di confine. Lo indicano i tratti divenuti simbolici da quelle parti, in fondo al molo si trova Nisida, l’isola che non c’è, perché sottratta alla città, sede di carcere di ragazze e ragazzi, appena prima di arrivarci, è la sede NATO, mentre, a monte, da un lato c’è la grotta di Seiano, la galleria che porta in un altro mondo di storie e ricchezze, dall’altro lato poi i resti dell’Italsider, un tempo Ilva e un tempo, ancora prima, Armstrong, ci ha lavorato anche mio nonno, per dire quanta città ci è passata prima ancora che costruissero la periferia operaia all’inglese del quartiere di Bagnoli. Dall’alto c’è il Parco Virgiliano, un altro mondo ancora, che non avrebbe mai immaginato quel che sarebbe accaduto là sotto. E là il mare, che “sta sempre là, tutte spuorco, chine ‘e munnezza ca nisciuno o po’ guarda’”. Lido Pola, un tempo c’era il ristorante, che affacciava sul pare pavimentato di barche ormeggiate una dietro l’altra, una vera distesa. C’erano anche i pescatori che resistevano a fare i “guardiani” di macchine e barche, insieme si contendevano il “tenore di vita”, si dice proprio così “tenore”, che indica anche un registro di voce di quelle voci che non ci sono più. L’aria adesso risuona di silenzi di giorno come di luoghi perduti e ritrovati. Di notte si scatena invece il fracasso di musiche da discoteca e di auto nervose di traffico. Di tutto questo il sole non sa niente e non ne vuole sapere, siamo noi a raccontarci nel tempo un altro tempo, altre storie, qui dove si viene su un confine della Città.

Siamo là in quella sala ritrovata e “rifrabbrecata” dalle mani di Luca, Domenico, di tutti che da due anni e più di tanti giorni che fanno calendario di tutta un’altra storia appena cominciata. I luoghi si liberano occupandoli. In questo caso ci si insediati in un luogo abbandonato, dismesso. Non è allora un’occupazione e non è una liberazione, ma un’obbedienza virtuosa alla vita, alla bellezza, alla memoria di tante storie che quel luogo suggestiona. Chiunque di noi ci è arrivato, in ogni età, di un giorno, di un anno, anche solo per affacciarsi dalla terrazza della curva sulla rampa che sale al capo di Posillipo. Come un corpo è questa città, che curiosamente nomina ogni volta solo il capo, perché ricomincia sempre e sempre sta in piedi, e poi il “capo” è “prima”, “all’inizio”, e “in alto”. Sant’Aniello a cape e Napule, o capo e Pusillepo, a Capa e Napule … n’capa, ncoppe, e abbascio, addo sta sempe ‘o mare. È così questa Città, che vuole vivere ancora e sempre delle sue arie, del mare, delle voci della gente che la vive.

I luoghi sono le persone che li abitano, vi hanno casa, vi lavorano, li camminano, vi si s’incontrano, stanno assieme. E quando un luogo viene abbandonato anche le persone che lo abitano vengono lasciate sole. E questo è da pensare: quando un’economia consuma la storia delle sue forme, del suo potere, delle sue relazioni di schiavitù, di servilismo, di salariato, parola che sa di sale. Quando si dismettono i luoghi di una storia di vita di lavoro, si dismettono anche abitudini, relazioni, tradizioni, si perde una quotidianità, una “sicurezza”, l’attesa di domani. Quando l’Italsider ha chiuso, prima a poco a poco, tra i singhiozzi di scioperi e occupazioni, proteste, scontri, e poi per sempre, un giorno, quello che è venuto, allora il “giorno dopo”, non è stato come quello atteso, ci ha lasciati impreparati a cercare un tempo che non c’era prima, lasciando i luoghi frequentati a poco a poco a consumarsi come una memoria che sbiadisce. Lido Pola è il simbolo di questo confine da un giorno all’altro, da una storia a un’altra storia, da una pietra a un’altra, da voci ad altre voci. A poco a poco, e questa volta sarà una liberazione, forse, chissà, bisognerà occupare l’isola e prendersi Nisida.

C’è la bocca aperta del commissariamento di Stato sul Lido Pola come su tutto il litorale di Bagnoli. C’è la bocca spalancata della speculazione pronta a riprodurre un’economia di potere, di colonizzazione, di proprietà.

La Città sta scoprendo la fine di un imperativo economico che lascia e abbandona come in fuga i resti che furono di un potere che si distende altrove sul pianeta e ridisegna i programmi geoindustriali, perché la ricchezza si fa sull’uso dei corpi, altrove, o facendoli arrivare da altrove.

Lido Pola è diverso dall’ex Asilo Filangeri, come dalle strutture occupate nel Centro Storico della città. Qui si tratta di rendere “storico” un nuovo insediamento. Diversa è la collocazione urbanistica, qui si tratta di riabitare, di fare economia per altre forme di relazioni e di comunità.

Qui la gente viene e se ne va, è un confine, bisogna allora abitare questo confine, inventare nuove scuole e liberare desideri, operare servizi comuni, in comune. Qui s’impone una svolta audace, che faccia memoria di quel che già sta accadendo in questa città. Qui è il capitolo di un insediamento di vita del tutto diverso. I confini di una città sono fatti di voci, da qui bisogna che le voci prendano parola per nuove forme di abitare, per un’economia senza proprietà.

Bagnoli è stato la punta occidentale di produzione e di ricchezza della Città, dismessa, ora, da qui, può cominciare un’economia senza proprietà, un’economia del possesso senza proprietà. Fin qui il valore di scambio e il valore d’uso sono rimasti separati, giusto a salvaguardare il potere economico della proprietà. È questa, la proprietà, che separa valore di scambio e valore d’uso. Una forbice resa ancora più larga dalla distribuzione che mantiene distanti i due valori fino a essere il riflesso d’ombra minacciosa alla pareti delle case dell’altra forbice, quella di privazione e privilegi, sempre più distanti. Sul piano giuridico si avanzano i diritti per scrivere nuove separazioni. In quella forbice si dà il taglio definitivo allo Stato Sociale, facendo precipitare nel vuoto le misure sociali e i servizi pubblici. Questo Stato è senza società, non è più uno stato sociale, perché il sociale è sempre più calato nella commissione privata e nei commissariamenti che aprono ancora di più la forbice tra l’uso e lo scambio. Qui dobbiamo riflettere sul senso, la misura e la soggettività di quel che si chiama volontariato. Bisogna passare oltre. La posta in gioco è sempre là, la merce, che prende sempre di più la connotazione della mercificazione, qualcosa di diverso dall’alienazione di un tempo. La merce è il corpo proprio, qui passa lo scambio e l’uso. L’intreccio è come sempre speculare del suo capovolgimento. Bisogna allora riprendere le “frasi fatte” a “uso e consumo”. Bisogna cambiare il linguaggio, raccogliere altre ragioni per altri rivolgimenti. L’uso è lo scambio, il possesso è il passaggio, la proprietà è rendita, ferma, oppone, cintura, confina.

Il possesso senza proprietà è la chiave di volta di un’economia che rimette su un piano del tutto nuovo il rapporto tra scambio e uso modificando le relazioni che vi corrispondono. Lido Pola può essere un luogo di un’economia del possesso senza proprietà ovvero di uno scambio dell’uso, di un passaggio, facendo del possesso un bene comune di altri in altri, in una misura del tempo sociale. “comune” è quel che è proprio e improprio. Non c’è altra definizione, bisogna aver cura come di qualcosa di proprio di ciò che è improprio, di tutti e di ognuno. Lido Pola è uno spazio per dar luogo a un tempo diverso che modifica la destinazione degli spazi, senza proprietà facendone un bene comune sociale.

Non sarà allora solo un luogo di servizio del “dopo” lavoro o del “dopo” scuola o del “tempo libero”, questa logica del “dopo” deve essere invertita, deve diventare “prima”, assumere il valore di una priorità o semplicemente del prima di un tempo che viene, che costruiamo, che raccontiamo per un’altra storia. Il lavoro deve ridiventare arte di costruzione di relazioni e forme di vita per una comunità sociale e una società comune. Il lavoro deve essere sociale, in comune, partecipato. Può essere anche come nell’esempio di un ristorante popolare, dove ci sono i pescatori e i cuochi, i fruttivendoli e i droghieri, facendo anche spesa dei prodotti a scadenza o andando per le campagne e gli orti nei dintorni. Quella del ristorante è un’immagine, ma è anche quella che rende la misura per ogni altra di servizio produttivo di ricchezza e gioia, per il suo essere di ristoro e comune di tanti parti che possono stare insieme soddisfacendo il bisogno di tutti col desiderio di ognuno.

Sarà lo stesso con l’invenzione di una scuola, di un tempo diverso di apprendere e sapere, mettendo insieme scelte e conoscenze, facendo a meno di competenze e competizioni.

Viene facile proporre subito la festa aprendo per una sera il ristorante dove ognuno porti piatti e posate coinvolgendo arti e mestieri.

Ieri è stato un pomeriggio di sole al confine della città, dove la città si può sognare e dove il sogno è il sole che viene dal mare e colora i volti di chi sognando insieme ne riluce.

lido Pola

GRAZIE

Giugno 9, 2015 Posted by Approfondimenti 0 thoughts on “GRAZIE”

Consiglio Notturno NdF

Grazie, ho questa sola parola, la uso come uno scrigno per raccogliervi tutti i pensieri, i volti, le voci, i passi, che abbiamo fatto insieme nella Notte dei Filosofi. È una voce, come ogni parola che basta per dire quanto si disperde nella gioia di aver vissuto insieme un momento bellissimo. È stata una partecipazione di voci, inattesa, pensata, sì, ma impensabile nella misura del desiderio che si è presentato. Anche il disagio è stato vissuto come voluto dalla partecipazione, non per altra impreparazione ma per un desiderio troppo grande, A rifletterci, i desideri sono sempre più grandi e inattesi. L’altro è la mia impreparazione, gli altri ci trovano impreparati ogni volta portandoci il desiderio che pensavamo perduto.

Abbiamo vissuto delle ore sincere, dove ognuno è stato se stesso impersonando la propria passione, il teatro, la musica, il tempo, la giustizia, la voce, il corpo, l’arte, la fotografia, la filosofia. Nessuno doveva dimostrare di sapere, ma portare il sapore il quel che è la vocazione del proprio impegno, delle proprie relazioni. Chiunque svolge con passione di desiderio il proprio impegno di persona, sa di quell’idea che il desiderio sollecita. Ne porta il sapore, così chi si occupa di giustizia, da magistrato, sa della giustizia, la sente. Non può dire che cos’è in una definizione ma può raccontare di sé, della sua amicizia e conflitto, della sua sincerità. Le cose vere si possono solo raccontare, non se ne può dare una definizione. Le cose vere, come l’amore, la libertà, la scienza, come ogni relazione vera, si può solo raccontare, chiama in prima persona, s’impersona. Ecco perché abbiamo scelto quella forma per la Notte dei Filosofi, quella di impersonare un’idea, non parlare su e di, ma esserne chiamati di persona a parlarne. Ed è stato così. Masullo splendido, è stato il Tempo, Isa Danieli è stata la Città, Marco Zurzolo la Musica, Antonello Ardituro la Giustizia, Silvio Talamo la Voce, Angela Balzano ed Elisa Cotena il Corpo, Marisa Albanese l’Arte, Lukas Lucariello il Disegno, Luciano Ferrara la Fotografia, Carmen Vicinanza è stata il suo nome, la Vicinanza, Giovanna Callegari, Laura Cascio, Anna Serio sono state le dee, Marialuisa Vacca è stata il Sostegno, Simona Marino l’Impegno. Ognuno è stato il proprio desiderio, la sua passione, ognuno dei tantissimi che siamo stati a partecipare di un evento importante per la Città, di cui tutti sentiamo il bisogno.

Mi sono chiesto tante volte della filosofia, se la sua voce parli d’idee che restano tali, senza applicazione, o se nelle sue parole esprima quel che ancora non c’è, quello che non va e come dovrebbe invece andare ed essere il mondo, secondo quali relazioni, e quale sia poi l’arte di vivere insieme e l’abitare che custodisce il segreto irraggiungibile del vivente.

Penso che i filosofi siano sui confini della città. Platone li pensava come guardiani ma non credo che pensasse a gendarmi, ma a chi ha riguardo, come quando si dice di riguardarsi, di aver cura. Col tempo ho imparato che la pratica della filosofia è vedere quel che manca in quel che c’è perché quel che c’è sia veramente quel che è. Mi viene facile ripetere il giro della frase dicendo di vedere quel che manca alla mia città perché sia veramente com’è o cosa manca alla propria amicizia perché sia vera e quel che manca all’amore che portiamo a chi amiamo perché sia vero amore. È un compito. Il filosofo è come l’artista, ma quale professione non è arte quando è vissuta col desiderio di esprimerla come non è stata, e come sempre si è voluta e pensata. C’è un momento in cui il desiderio diventa bisogno, è quando penetra il proprio corpo fino a sporgersi a prendere respiro di parola e incontrarsi. La filosofia è questo bisogno del desiderio di un mondo come lo sentiamo.

Parlavo di Kant quella sera a chi mi era a fianco, ricordavo la sua critica del giudizio e di come riguardasse il sentimento del piacere e del dispiacere. Chi mi ascoltava diceva che era però un discorso ideale, che non risponde alla realtà così com’è. Dicevo che in fondo era lo stesso di Platone, anche di Nietzsche e di Heidegger e di Vico e di Giordano Bruno, solo con parole di tempi diversi perché l’applicazione del linguaggio e delle relazioni col tempo richiede altre espressioni. È come se uno mi dicesse che Bach e Mozart non siano ugualmente musicisti. Col tempo mi sono abituato a ripetere che la musica non si ascolta, è ascolto. Così non posso dire di ascoltare Mozart ma di come la sua musica mi mette in ascolto, mi dispone, così come Mozart o Bach mi fanno ascoltare la musica più segreta. Ecco, allora sono disposizioni anche le filosofie che mettono in ascolto del segreto di quel che si dice che sia “la” filosofia, che poi è solo “là” dove “la” viviamo. I filosofi stanno sui confini della città, guardano ciò che non va ma non per interpretare l’insoddisfazione e l’impotenza a fronte dell’esistente così com’è, ma per mostrare quel che è vero e nascosto, solo perché reso invisibile da quel che si vede secondo un ordine d’inclusione e d’esclusione, nascondendo il mondo dietro al mondo. Chi dice che il nascosto sarà lo stesso quando nel suo apparire, continuerà a pensare ancora a come potrà essere diverso da quello che c’è. I filosofi o sono antagonisti, come Nietzsche, o idealisti, ma anche Nietzsche lo era, come Platone, come Foucault, come Deleuze, come ognuno che incontra la filosofia.

È stupefacente riflettere come ancora permanga il desiderio della filosofia e il suo bisogno, perché la filosofia è desiderio di sapere come non abbiamo mai saputo fin qui nelle forme esistenti e tutto questo è un bisogno. L’abbiamo vissuto, cioè veduto dentro, perché il vissuto è quel che si è visto da dentro. L’abbiamo vissuto con La Notte dei Filosofi. La filosofia permane, anche a fronte di riforme della scuola in Europa che ne limitano l’insegnamento fino alla cancellazione, come anche per altre espressioni di arte e di letteratura che non hanno un immediato e riscontrabile interesse applicativo, ma esprimono quella funzione irrinunciabile, per cui soltanto si può dire pubblico un sapere e una scuola, quando riguarda la cultura, il comune, lo stare insieme, i legami sociali, per una società comune e una comunità sociale.

La notte del 30 di maggio è stata la manifestazione di un desiderio che è diventato bisogno fino a metterci in strada e affrontare anche difficoltà ammirando la sincerità di chi si aveva davanti e s’incontrava, senza interesse alcuno, senza un secondo fine, senza guadagno, senza ostentazioni di sapere e di apparire, semplicemente.

“Grazie” allora viene spontaneo dirlo che è una voce, semplice, non una parola, ma un volto cangiante in tutti quelli che si sono ritrovati nella Notte dei Filosofi. Vorrei che ognuno vedesse questo “grazie” rivolto di persona, di viso, diretto, immediato, sincero.

Chi avevo vicino mentre continuavo a parlare della “critica del giudizio” come l’esigenza che anche un sapere, nella forma come nei contenuti, procuri un sentimento di piacere o di dispiacere e che è il bello a suscitare il sentimento morale, ha obiettato dicendo come tutto questo è educativo ma non è concreto. Sì, certo, in quell’opera Kant promuove un’educazione sentimentale, lui che appariva tra i banchi di scuola e dell’accademia espressione di una dottrina fatta di tabelle, o come un notaio della ragione chiamata in tribunale.

Il fatto è che bisogna portarla fuori la filosofia, il fatto è che bisogna fare della città una scuola e non lasciare che i mali della città siano attribuiti solo alla scuola.

Filosofia fuori le mura è questo progetto, questa idea. Bisogna portare i filosofi per la città, sentirne il bisogno, alimentare il desiderio di una discussione che non sia l’accapigliarsi di ciò che si gradisce e tradisce, per ritrovare la riflessività interiore del bello. Anche l’artista, lo scultore, il pittore è inutile, non “produttivo”, ma è triste immaginare cosa e come saremo senza l’arte e la filosofia.

Perciò, la Notte dei Filosofi è stata solo un evento dell’impegno di Filosofia Fuori le Mura. Saranno annunciati a seguire appuntamenti nelle piazze e nelle vie della città a parlare di un filosofo, di un’opera, di un’idea, a ritrovarla, a ripensarla, a pensarci.

I confini della città sono fatti di voci. Una città arriva fin dove la voce ha parola, quando si spegne in un grido o resta attonita, la città finisce. Quando non ci sono sentimenti, neanche la voce risuona nelle parole come nelle note di un respiro di vicinanza.

Portare la filosofia sui confini della città, sui luoghi d’eccezione, in carcere, nelle scuole, nelle piazze, nelle case, e non tra filosofi dichiarati tali per professione, perché ogni professione ha la sua filosofia, opera per scelte, sentimenti, ragioni, contrarietà, desideri. Non bisogna averla “studiata” la filosofia per capirla, per sentirla, né i filosofi usano ricette e terminologie che non abbiano estratto dalla vita del giorno e della notte e perciò ritraducibili nel linguaggio comune, perché il compito per la filosofia è questa traduzione nel linguaggio comune, di parole in comune, per essere parola che accomuna, che circonda e tiene insieme, che riguarda e fa stare bene, che guarisce quel che diciamo essere normale e sano e ci fa male, la cura della filosofia è avere cura che si abbia cura di sé insieme con gli altri.

Allora continuiamo fino a ritrovarci al prossimo maggio con il percorso di un anno di filosofia nelle piazze.

Il prossimo incontro è a Piazza Municipio, che è stata messa a nuovo e sarà ancora più bello metterla in filosofia. Il prossimo incontro sarà sull’educazione al sentimento del piacere e del dispiacere. Poi ci sarà Camerota in settembre, tre giorni all’aperto in un villaggio, tra alberi e mare e filosofia, a parlare del corpo com’è in arte, in filosofia, in politica, a scuola, al cinema, come è il corpo della città, il corpo proprio, il corpo improprio, il corpo dell’altro, dell’altra, di altri, di chi viene e trova impreparati di fronte a un nuovo desiderio di vita e di mondo.

Dalla colpa alla responsabilità

Giugno 4, 2015 Posted by Carceri 0 thoughts on “Dalla colpa alla responsabilità”

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Dalla colpa alla responsabilita’
Il carcere deve essere un luogo di lavoro su se stessi, dentro se stessi, sui propri
legami di vita, sulle proprie scelte e decisioni.
di Giuseppe Ferraro

Il tempo non è uguale per tutti. C’è chi “ce ne mette di più e chi meno”. Si dice così “c’è chi ne impiega di più e chi meno”. A scuola si capisce presto. Ci sono quelli che apprendono velocemente una materia e chi ha bisogno di più tempo, magari poi lo stesso ne ha bisogno di meno per una diversa applicazione. “Dammi tempo”, “ho bisogno di più tempo”, “faccio subito”. Sono espressioni che conosciamo per averle riferite tante volte noi stessi. E quante volte i ragazzi, in casa, si prendono tempo o vanno di corsa. Il tempo non è un equivalente generale. Il denaro lo è, e per quanto si dica che il tempo è denaro, non è lo stesso quando si tratta di Sé, dei propri affetti, della conoscenza di se stessi, delle proprie scelte morali e decisioni di vita. Il tempo non è il denaro, anche se il denaro si misura sul tempo di  produzione. Ne indica il costo. La pena è un costo da pagare. Deve essere allora proporzionata al tempo che s’impiega per capire, per scontarla, per espiare, per passare dalla colpa alla responsabilità. Il carcere deve essere un luogo di lavoro su se stessi, dentro se stessi, sui propri legami di vita, sulle proprie scelte e decisioni. Il carcere deve poter essere un luogo d’istruzione della libertà.
Quanto tempo occorre a un uomo per capire se quel che ha operato è stato giusto o sbagliato? Quanto tempo occorre per rimediare? Non si può allora decidere il tempo della pena senza tener conto della persona. Siamo fatti di tempo, esprime la nostra singolarità. I sentimenti sono fatti tempo. Lo sappiamo quando riserviamo tutto il tempo a chi amiamo e quando non abbiamo tempo per chi ci è estraneo o che ci lascia indifferente. Il tempo è la materia dei sentimenti, e il lavoro su se stessi riguarda i propri legami. Lasciarsi o incontrarsi è cosa che riguarda il tempo proprio. Quanto allora costa un crimine e un misfatto, un errore o una follia, un torto o un imbroglio, un omicidio e un furto? Il codice stabilisce il prezzo in tempo che si ferma. Devi fermare il tuo, non dare il tuo. Bisogna rifletterci. La pena si paga a costo di tempo, ma non è il tempo che si dà, perché è quello che si toglie. Si misura in anni. E se provassimo a pensare al tempo che dà? E come si dà il tempo se non operando, rimediando come persona, come relazione, come legame, perché il tempo è questo che procura, opera, lega, relazione. Dare il proprio tempo significa dare se stessi nell’operare. Ed è curioso che la parola “ergastolo” indica dalla lingua greca un costo d’opera, una pena di lavoro.
Dare il proprio tempo significa lavorare su se stessi perché la propria dignità conquistata, ripresa, rimediata dia ragione e restituisca senso a quel che non ha senso. La giustizia è restituzione. Bisogna restituire il proprio tempo come proprio dell’altro al quale si è tolto il tempo di vita o di passione, di lavoro o di occasione, di dignità e di persona. In uno stato di diritto, la pena deve essere un diritto, quello di ripensare se stessi per passare dalla colpa alla responsabilità. Si è responsabili quando si risponde di sé, si dà responsabilità quando si dà restituzione. Una giustizia di responsabilità è di restituzione.
Non sarà mai come restituire quel che si è preso e tolto a chi si è defraudato o ucciso. Non si restituisce il maltolto senza che si sia diventato altro da quel che si è preso, né si può restituire vita a chi non è più in vita. La restituzione quale che sia è imperfetta. Si può dare solo nella forma imperfetta. Al verbo dell’imperfetto. Al tempo dell’imperfetto. Quello del racconto. Si deve raccontare la propria vita, si deve fare della propria vita il racconto di un percorso per una storia che comincia la propria vita da capo, a partire da quel che non si è stato per essere se stessi. La restituzione è nella collaborazione sociale di giustizia. Chi è stato ingiusto deve farsi racconto di giustizia, deve poter fare del proprio tempo il racconto del giusto. Si diventa giusti. E chi è stato contro la Giustizia deve farsi giusto, è condannato a essere giusto. Ed è una condanna che viene da dentro, se si danno le condizioni per esprimerla. Se invece sono ingiuste le condizioni per chi è stato contro la Giustizia, non c’è rimedio, non c’è restituzione, non c’è pena che rientri nel diritto di Giustizia.
In carcere il tempo stagna. Rafferma. La sicurezza si concepisce nel rimando del fare niente perché niente succeda. Si toglie tempo, si taglia in parti uguali, si cementa, il carcere dimentica. Anche quello che richiedi sul momento, si dimentica, si somministra l’oblio, perché tutto sia tranquillo, perché ci si abitui a fermare il tempo. L’arresto tante volte ho pensato che fosse l’arresto del tempo proprio. In carcere è recluso il tempo proprio, i propri sentimenti, i propri legami. Eppure il carcere è un luogo di libertà, ripetevo l’altro giorno, il carcere è il luogo, dove ci s’istruisce alla libertà. Può esserlo, può diventarlo, in certi casi è tale. Ci sono persone che fanno presto ad apprenderlo e ci sono di quelle che non lo apprenderanno mai.
Come sempre però nei casi in cui ne va dell’apprendere a prendere il “brutto voto” è dapprima chi insegna, chi istruisce, quando deve fare conto del proprio successo educativo o della propria sconfitta, quando non è riuscito a riportare dentro il cerchio dell’inclusione sociale chi ne è stato escluso perché aveva deviato da quel campo coltivato della società. Si chiama “socialità” il campo d’esercizio di una tale “istruzione” in carcere.
Giovanni mi scrive ogni giorno. Gli ho detto Giova’ non è che posso risponderti ogni volta, però tu continua a scrivere, perché chi scrive si iscrive nella grammatica del testo per essere leggibile. E la legge è tale perché legge, perché vuole che ci si esprima in maniera leggibile. Spesso quelli che sono reclusi per associazione non sanno scrivere, non sanno neppure cosa significa prescritto o iscritto, derubricato, declassato.
Giovanni mi scrive ogni giorno. Sono anni ormai. Venne al corso di etica che tenevo a Carinola e fu sorpreso del clima di amicizia che si respirava. Il corso funzionava già da anni e continua, altrove o per corrispondenza. Salvatore è a Catanzaro, e gli mancano quegli incontri, ne parla con tutti quelli che trova, li tiene a ripetizioni, fa supplenza. L’altro giorno mi ha scritto che ci sono persone in carcere che dopo tanti anni si chiedono ancora delle carte del processo, senza domandarsi del perché sono in prigione. Salvatore non è più quello che ho conosciuto all’inizio. Giuseppe poi ha fatto un percorso semplicemente ammirevole. Gavino ancora, la sua dolcezza, la sua delicatezza. Posso continuare. Sono in grado di dire con assoluta certezza e responsabilità i nomi di quelli che potrebbero ben essere dichiarati collaboratori sociali di giustizia, persone che possono dare un contributo non indifferente a combattere la guerra sociale di mafia, perché di un processo educativo si tratta. La libertà di un Paese si misura dalla qualità dei legami sociali. Di questi si ha bisogno e di questo si fa istruzione, e si deve, in carcere.
Giovanni mi scrive ogni giorno. Per quanto grosso fisicamente da far paura a vedersi, un gigante, è un timido di una vulnerabilità inquietante, un mammone, si direbbe, come Patrizio che parla della sua mamma e si commuove ogni volta al pensiero. Giovanni non parlava in pubblico e aveva problema ad aprirsi, semplicemente perché è persona d’intimità. Aveva timore che altri potessero non capire e come accade sempre in carcere devi mostrare agli altri la forza che non hai. Lui poi è un timido. Allora mi scrive. Gli ho detto che chi scrive si pone in uno stato interiore, in un tempo proprio. Continua a scrivere gli ripeto, perché chi scrive, parla dentro se stesso. Si parla. Ascolta. Ed è questo il passo che deve avere l’istruzione alla libertà.
Parlarsi. Avere un Sé ed essere se stesso come mai si è stato e come ti hanno lasciato e non ti hanno fatto diventare. In carcere ho capito che è libero chi riceve ascolto. Chi non è ascoltato non è libero.
Il carcere è una comunità reclusa, ma non può essere esclusa. La reclusione, se è data all’interno dell’inclusione, deve mantenere una tale funzione di sospensione del tempo proprio perché si ristabilisca un legame sociale perduto. La reclusione deve essere riparativa, il carcere deve poter essere un’officina, una bottega, una scuola. Nel linguaggio scolastico si diceva anche degli esami di riparazione. E non avrebbe certo dovuto essere una “condanna” o una “punizione”, ma un’aggiunta, un supplemento di tempo per adeguarsi ai tempi di conseguimento di un sapere parimenti come altri che svolgevano nella stessa età la stessa classe di studio.
Ripeto sempre che il grado di democrazia di un Paese si misura dallo stato delle sue carceri e delle sue scuole. Non può essere altrimenti, è stato così lungo tutto l’arco dello sviluppo della democrazia in Europa. Quando le carceri saranno scuole e quando le scuole saranno carceri, il grado democrazia di un Paese avrà raggiunto il suo punto più alto. Le carceri devono essere scuole di legalità. Non è pensabile, come invece accade, che si facciano incontri di legalità con magistrati e forze dell’ordine nelle scuole. È invece nelle carceri che si deve fare scuola di legalità, ciò significa che magistrati e forze dell’ordine, e non può essere altrimenti, hanno una funzione educativa sul piano sociale, devono rappresentare l’esempio di legalità e devono avere gli strumenti educativi, e non coercitivi, di legalità. Ben inteso in tale prospettiva, che la legalità è fatta di legami e che l’educazione ai legami sociali avviene in comune. Non è qualcosa che si possa dare individualmente se non nella partecipazione comune, come avviene in tutte le situazioni in cui è necessario porre rimedio a un’inclinazione riconosciuta come dipendenza. I nostri incontri di filosofia in carcere avvengono sempre in gruppo, si discute insieme, ci si confronta, si stabilisce un dialogo corale, una coralità dialogica di voci dove ognuno riprende quel che un altro prima ha indicato come posizione per seguire di stanza in stanza, di voce in voce il percorso che ci permette di arrivare alla soddisfazione di avvicinamento alla comprensione di quel che mettiamo in discussione, i sentimenti, i valori, la libertà, le relazioni, la comunicazione, la vita…
I risultati sono evidenti. Il confronto, il prendere parola, il mostrare la propria interiore fragilità, il proprio stato d’animo senza infingimenti, ma con onestà e dignità, perché poi è questa da conquistare come espressione della legalità, la propria dignità, quella che ti rende anche libero di essere e diventare quel che sei nella tua umanità. L’inviolabilità della vita e la dignità della vita sono i due percorsi sui quali l’Europa ha realizzato il suo cammino dell’istituzione penitenziaria all’interno dello sviluppo della democrazia di comunità. Siamo ancora su questo cammino, non tutte le carceri sono uguali e la diseguaglianza carceraria è ancora più sofferta di quella di cui è riflesso nella società.
Il carcere è certo il riflesso del disagio della civiltà, è certo il riflesso della diseguaglianza sociale, formative, comunicative, locali. Questo significa che proprio il carcere, perché luogo di reclusione dentro l’inclusione, deve poter esprimere quell’attenzione di rimedio sociale che non è solo del singolo detenuto, ma del sistema di detenzione che deve poter essere esso stesso di rimedio sociale. Spiegandomi meglio, significa che nel carcere è possibile “sperimentare”, proporre, indicare metodi, forme, percorsi educativi d’eccellenza rimediando a metodi, forme, sperimentazione educativa che hanno fallito o che non sono proponibili indifferentemente in ogni luogo e situazione ambientale. Il carcere è un luogo di sperimentazione di forme indirizzate a un’educazione sociale. Lo studio è la cosa più importante. Il carcere deve essere una scuola. Ciò che già è così, ma non in forma spontanea, improvvisata, lasciata al volontariato temporaneo e non sempre accolto e lasciato operare, mentre dovrebbe essere modulato, con percorsi formativi disciplinati secondo le esigenze personalizzate, ma mai da soli, ma indirizzate al singolo perché ognuno possa farlo proprio non per imposizione ma per scelta di partecipazione insieme con altri con i quali ci si confronta e si opera al fine di diventare dei collaboratori sociali di giustizia. Sappiamo bene che proprio chi trasgredisce le leggi le conosce meglio, sapendo quel che legittimano e quel che vietano, possono esprimerne perciò il senso e il valore meglio di altri e possono finanche indicare soluzioni e aggiustamenti di cui le stesse leggi hanno bisogno nell’evolversi del tempo.
La pena deve essere un diritto, si comprende ancora meglio in tale prospettiva. In uno Stato di Diritto, anche la pena deve essere un diritto, quello per chi ha sbagliato di rimediare al proprio errore aprendo un percorso che porti dalla colpa alla responsabilità. Accade invece, spesso, che il carcere fa diventare vittima chi ha commesso un reato, senza riuscire a vedere dentro di sé, a sentire, il male procurato a chi ha offeso e alle persone care che entrano nel cerchio di una pena soffrendo per colpe inattese e improprie.
Si dirà, che il carcere concepito in questo modo è solo una fantasia, un ideale, perché nella realtà c’è la condizione di reazione, la follia di ogni giorno, la tabella di consegna, il giro da compiere, i tempi da rispettare e che manca il personale, i servizi sono carenti, i soldi non si possono spendere se si hanno e non ci sono quando occorrono, allora ecco il volontariato, che magari crea anche problemi, perché non c’è personale che sostenga le ore della loro presenza, e di nuovo si ripete il rito di una sicurezza per cui non si fa niente perché non succeda niente.
Il nulla costa nulla. Il tempo allora rafferma. Si arresta. Ci si trova in arresto. Detenuto. Così si amalgama il cemento di parole, il caglio di voci che raffermano ogni avanzamento mentre ci sono persone splendide nel personale della sicurezza, nei comandi, nella semplicità di chi sa che potrebbe essere diverso, di chi tra gli agenti nasconde il proprio malessere in un riflesso rovesciato della detenzione dell’altro, perché nessun uomo che incrocia lo sguardo distratto di un altro ne resta indifferente. Anche chi uccide deve non guardare negli occhi la sua vittima, fosse anche un animale da sacrificare nelle feste comandate. Quando si ha di fronte una persona, quando si ha davanti una vita, la mano si deve tendere aperta nel desiderio di vivere e costruire mondo. La dignità edifica, il resto, senza, rovina. Il volto dell’altro affaccia sulla vita, non si può guardare senza essere presi e coinvolti come di un bene che è comune a tutti nella sua sacralità, nella sua inviolabilità che reclama dignità.
Non sarà l’automatismo dell’assegnazione di tempi, il riscontro di tabelle. Il tempo non è uguale per tutti, ognuno ha il suo tempo di apprendimento e di ripensamento. Il tempo è dato dagli avvenimenti; il tempo proprio è fatto d’incontri, di cose che colpiscono, di strade nuove che s’intravedono e s’intraprendono. C’è quella “scala a scendere”, esattamente come inversa a quella dei gradi della scuola e delle professioni di merito. Nel carcere tutto è capovolto, secondo una logica che ha un senso preciso. Il declassamento si svolge secondo una tale logica.
Non è un avanzamento di merito, non si sale una classe, si scende di grado di pericolosità. Si scende la scala per arrivare alla società, si scende dal ripostiglio, dal piano di reclusione stabilito. Le parole mantengono una saggezza che spesso perdiamo a pronunciarle nella quotidianità. La parola è invece uno scenario di azione, uno schermo sul quale si rappresentano azioni e valori. Il declassamento è importante. È una scena di piano.
C’è un criterio di declassamento. La sicurezza. Avanza l’esigenza di separare anche per istituti le “classi di pericolosità” da As1 As2 As3. Siamo a una nuova stagione delle condizioni del carcere in Italia. Ci si muove in più direzioni. Dalla sorveglianza dinamica che investe forme e metodi di detenzione impegnativi sul piano della conoscenza e della formazione per un avvicinamento alle richieste della Comunità Europea, fino ad arrivare, all’altro capo, a una detenzione speciale, ridefinendo la geografia delle carceri con luoghi dedicati all’alta sicurezza. Il declassamento bisogna intenderlo come un merito, spesso però le condizioni di declassamento rispecchiano un’esigenza economica al risparmio permettendo di detenere più di una persona nello stesso spazio. Il paradosso è che il regime di As1 consente un lavoro su sestessi, un contenimento di sé con maggiori possibilità di ripensamenti. Bisogna allora pensare al declassamento non per ragioni economiche di risparmio. Non sarà l’esigenza economica, dei costi della sicurezza ad abolire l’ergastolo in Italia, le ragioni dell’abolizione dell’ergastolo, ostativo e non, devono essere sociali, educativi, di dignità umana, di avanzamento della democrazia. Diversamente la logica del risparmio ricrea le condizioni di dispersione e di disagio che il carcere stesso è chiamato a risanare come istituzione se vuole essere un luogo d’istruzione della libertà. Non è difficile capire quel che è un discorso solo in apparenza paradossale. Il declassamento deve coincidere con maggiore attenzione al percorso formativo della persona. Deve perciò essere di garanzia di continuità del proprio cammino di libertà.
Separare alta e bassa sicurezza, può anche voler affermare un principio d’irrimediabilità di pena per chi rientrando in una topologia di criminalità associativa finisce con l’essere dimenticato per sempre. Murato. Senza continuità di percorsi intrapresi. I criteri devono essere altri, non economici, si spende meglio e meno per la sicurezza se la prospettiva è quella educativa. Posso fare i nomi. Conosco persone che meriterebbero immediatamente l’uscita dalla condizione di As1 ed entrare nel tempo della libertà di prova prodigandosi con impegno alla collaborazione sociale di giustizia. Posso fare i nomi, posso dare garanzia assoluta, posso offrire adozione, ospitalità, pensare a una comunità di collaboratori sociali di giustizia, persone che so con assoluta certezza che hanno acquisito una responsabilità che non può continuare a essere sprecata. Quelli che si definiscono come irrimediabili da un punto di vista sociale possono operare di  “collaborazione insociale di giustizia”, dando un segno diverso, opposto a chi invece può esprimere un bisogno sociale di libertà. Vanno allora ripensati i criteri, ma anche le condizioni di declassamento.
Vanno ripensate le geografiche carcerarie, così le forme e metodi della sicurezza, i tempi di detenzione, l’ordine del tempo, a partire dal principio più semplice: la sicurezza è la parola a garantirla, quando ci si parla, la regola è la relazione. Le regole senza relazioni sono vuote e repressive, le relazioni senza regole sono violente e cieche. Non c’è pena che non sia per un impegno, che non faccia dire “ne valeva la pena”. Quella che non è valsa per tale è una pena inutile, che non serve nemmeno a dimenticare. Le regole sono le relazioni che rendono possibili. La pena è un diritto. Lo studio è una pena, si dice anche in quel caso “diritto allo studio” ed è la voce che ha segnato lo sviluppo della democrazia in Italia e ancora invoca, bisognerà anche dire diritto alla pena, non solo per certezza che renda più sicuri nella testa chi la pena non la soffre, ma perché la pena ha la sua verità che nessuna certezza può capire se non misurando il tempo che si dà e si toglie, quello che è proprio della persona per riuscire a tornare e a diventare quel che ogni essere umano è capace di rappresentare in rappresentanza della dignità della vita propria e sociale.

La Notte dei Filosofi

Maggio 31, 2015 Posted by Eventi 0 thoughts on “La Notte dei Filosofi”
giuseppe-ferraro
intervista a Giuseppe Ferraro by Ilaria Nebulosi

NAPOLI – Questa sera a Napoli, in Piazza San Domenico Maggiore, si terrà la “Notte dei Filosofi”, una manifestazione che rientra nel Maggio dei Monumenti, incentrata su una tematica mai trattata prima d’ora: la filosofia. L’evento è stato organizzato dall’associazione “Filosofia fuori le mura”, promosso dall’Assessorato alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli, e mira a diffondere la filosofia proprio oltre ‘le mura’ accademiche.

L’associazione promuove iniziative filosofiche soprattutto tra i banchi di scuola e dietro le sbarre delle carceri, per coinvolgere i cittadini nella riflessione sull’esistenza, la ragione delle proprie azioni e scelte, e per incrementare la pratica di questa bellissima disciplina, della quale spesso non si coglie la vera essenza: trovare un legame tra l’uomo, la vita e il mondo. Al riguardo, abbiamo rivolto qualche domanda al Professor Giuseppe Ferraro, componente dell’Associazione.

Professore ci spiega il significato della filosofia oggi?

«Il sapere saggiante il legame più importante, quello che rende tale ogni altro come suo significante. L’amante che dice a chi ama: “sei tutta la mia vita”, rende il significato dell’altro come ragione del legame tra la vita e l’esistenza. L’altro, l’altra, è chi riempie di vita la mia esistenza. La libertà è fatta da legami. Nessuno è libero da solo. La propria libertà si misura dalla qualità dei propri legami, ci sono di quelli che imprigionano e di quelli che liberano. Anche la libertà di una Paese si misura dalla qualità dei legami sociali. Stare in filosofia oggi significa coprire di senso lo spazio pubblico dei legami sociali e dare stile ai propri legami personali. La filosofia è l’esercizio di una disciplina di relazioni. Filosofia è in ogni professione, in ogni luogo, quando si reclamano legami di libertà. La filosofia nella sua pratica è etica».

Come nasce l’idea della “Notte dei filosofi”?

«L’idea viene dal pensare a una manifestazione di filosofia a Napoli che non imiti forme e progetti culturali già presenti altrove in Italia. La Notte dei Filosofi non sarà come un festival di filosofia, in cui ognuno conferisce il suo sapere a chi ascoltando conserverà il proprio, ma attraverso la personificazione delle idee, la manifestazione si presenta come il percorso di un esercizio dell’impossibile, come desiderio che libera ogni possibilità al grado suo più alto».

Questa sera infatti, alle ore 20:00, un’esibizione musicale aprirà il viaggio nella filosofia che percorrerà la Via di San Domenico fino al Complesso Monumentale dove, ad accogliere i partecipanti, troveranno la musica e la città personificate. L’incontro, basato sull’antica tradizione della personificazione delle Idee, che risale a Socrate, sarà un vera e proprio iter filosofico in cui ogni voce, durante il cammino, parlerà direttamente al pubblico: si incontreranno il Tempo, la Giustizia, la Fotografia, il Corpo, la Politica e altri ancora, per ‘riflettere’ su loro stessi, sulla storia personale e sul loro stato attuale. Alla fine, nel Convento si incontrerà la Filosofia, che ‘parlerà’ delle sue vicende gioiose e tristi, della storia, dell’esistenza e del mondo. Il viaggio confluirà in un’assemblea filosofica, in cui tutte le Idee si riuniranno nella Sala del Capitolo in un connubio di saperi che s’intreccerà con le voci dei partecipanti.

«La Notte dei Filosofi nasce dall’idea che», continua il Professore Ferraro, «IL SAPERE È UN POSSESSO SENZA PROPRIETÀ, VA RESTITUITO A CHI LO HA AVUTO, PERDUTO O MAI AVUTO, ARRICCHENDO NEL CONFRONTO CHI LO POSSIEDE. IL SAPERE E’ COME L’AMORE, UN POSSESSO SENZA PROPRIETA’: VA DATO. L’idea è quella di una Città che si fa scuola e non che imputi alla scuola i suoi danni, ma che sia essa stessa scuola dei legami sociali».

Ci saranno altri incontri come questo in futuro?

«La manifestazione del 30 maggio è una prova generale, una demo, per una manifestazione che avrà un sua periodizzazione annuale con una dimensione di tempo e spazio più estesa alla città».

Il senso del filosofare?

«È vedere quel che manca in quel che c’è, perché ciò che c’è sia veramente quel che è, detto altrimenti, SIGNIFICA VEDERE QUEL CHE MANCA ALLA PROPRIA CITTÀ PERCHÉ SIA VERAMENTE LA CITTÀ CHE È, O ANCORA, SIGNIFICA VEDERE QUEL CHE MANCA ALLE NOSTRE RELAZIONI DI AMORE E DI AMICIZIA PERCHÉ SIANO VERO AMORE E AMICIZIA VERA. “Filosofia fuori le mura” tiene corsi aperti alla città perché, SE LA FILOSOFIA SIA MAI STATA FIN QUI UN PRIVILEGIO, È IL MOMENTO, QUESTO, CHE SIA UN DIRITTO PER OGNUNO DI CHIEDERE E DARE SENSO ALLA PROPRIA ESISTENZA.»

All’incontro di questa sera interverranno il Professor Giuseppe Ferraro, il filosofo Aldo Masullo, il musicista Marco Zurzolo, gli attori Marisa Albanese, Antonello Ardituro, Angela Balzano, Lello Esposito, Luciano Ferrara, Lukas Lucariello, Silvio Talamo e Isa Danieli, che presteranno il loro volto a questi ruoli, accompagnati da una suggestiva scenografia. L’ingresso è gratuito e aperto a tutti gli appassionati di filosofia.

La Notte dei Filosofi

Maggio 31, 2015 Posted by Eventi 0 thoughts on “La Notte dei Filosofi”
Giuseppe FerraroGiuseppe Ferraro

Questa sera a Napoli la “Notte dei filosofi”, intervista a Giuseppe Ferraro

NAPOLI – Questa sera a Napoli, in Piazza San Domenico Maggiore, si terrà la “Notte dei Filosofi”, una manifestazione che rientra nel Maggio dei Monumenti, incentrata su una tematica mai trattata prima d’ora: la filosofia. L’evento è stato organizzato dall’associazione “Filosofia fuori le mura”, promosso dall’Assessorato alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli, e mira a diffondere la filosofia proprio oltre ‘le mura’ accademiche.

L’associazione promuove iniziative filosofiche soprattutto tra i banchi di scuola e dietro le sbarre delle carceri, per coinvolgere i cittadini nella riflessione sull’esistenza, la ragione delle proprie azioni e scelte, e per incrementare la pratica di questa bellissima disciplina, della quale spesso non si coglie la vera essenza: trovare un legame tra l’uomo, la vita e il mondo. Al riguardo, abbiamo rivolto qualche domanda al Professor Giuseppe Ferraro, componente dell’Associazione.

Professore ci spiega il significato della filosofia oggi?

«Il sapere saggiante il legame più importante, quello che rende tale ogni altro come suo significante. L’amante che dice a chi ama: “sei tutta la mia vita”, rende il significato dell’altro come ragione del legame tra la vita e l’esistenza. L’altro, l’altra, è chi riempie di vita la mia esistenza. La libertà è fatta da legami. Nessuno è libero da solo. La propria libertà si misura dalla qualità dei propri legami, ci sono di quelli che imprigionano e di quelli che liberano. Anche la libertà di una Paese si misura dalla qualità dei legami sociali. Stare in filosofia oggi significa coprire di senso lo spazio pubblico dei legami sociali e dare stile ai propri legami personali. La filosofia è l’esercizio di una disciplina di relazioni. Filosofia è in ogni professione, in ogni luogo, quando si reclamano legami di libertà. La filosofia nella sua pratica è etica».

Come nasce l’idea della “Notte dei filosofi”?

«L’idea viene dal pensare a una manifestazione di filosofia a Napoli che non imiti forme e progetti culturali già presenti altrove in Italia. La Notte dei Filosofi non sarà come un festival di filosofia, in cui ognuno conferisce il suo sapere a chi ascoltando conserverà il proprio, ma attraverso la personificazione delle idee, la manifestazione si presenta come il percorso di un esercizio dell’impossibile, come desiderio che libera ogni possibilità al grado suo più alto».

Questa sera infatti, alle ore 20:00, un’esibizione musicale aprirà il viaggio nella filosofia che percorrerà la Via di San Domenico fino al Complesso Monumentale dove, ad accogliere i partecipanti, troveranno la musica e la città personificate. L’incontro, basato sull’antica tradizione della personificazione delle Idee, che risale a Socrate, sarà un vera e proprio iter filosofico in cui ogni voce, durante il cammino, parlerà direttamente al pubblico: si incontreranno il Tempo, la Giustizia, la Fotografia, il Corpo, la Politica e altri ancora, per ‘riflettere’ su loro stessi, sulla storia personale e sul loro stato attuale. Alla fine, nel Convento si incontrerà la Filosofia, che ‘parlerà’ delle sue vicende gioiose e tristi, della storia, dell’esistenza e del mondo. Il viaggio confluirà in un’assemblea filosofica, in cui tutte le Idee si riuniranno nella Sala del Capitolo in un connubio di saperi che s’intreccerà con le voci dei partecipanti.

«La Notte dei Filosofi nasce dall’idea che», continua il Professore Ferraro, «IL SAPERE È UN POSSESSO SENZA PROPRIETÀ, VA RESTITUITO A CHI LO HA AVUTO, PERDUTO O MAI AVUTO, ARRICCHENDO NEL CONFRONTO CHI LO POSSIEDE. IL SAPERE E’ COME L’AMORE, UN POSSESSO SENZA PROPRIETA’: VA DATO. L’idea è quella di una Città che si fa scuola e non che imputi alla scuola i suoi danni, ma che sia essa stessa scuola dei legami sociali».

Ci saranno altri incontri come questo in futuro?

«La manifestazione del 30 maggio è una prova generale, una demo, per una manifestazione che avrà un sua periodizzazione annuale con una dimensione di tempo e spazio più estesa alla città».

Il senso del filosofare?

«È vedere quel che manca in quel che c’è, perché ciò che c’è sia veramente quel che è, detto altrimenti, SIGNIFICA VEDERE QUEL CHE MANCA ALLA PROPRIA CITTÀ PERCHÉ SIA VERAMENTE LA CITTÀ CHE È, O ANCORA, SIGNIFICA VEDERE QUEL CHE MANCA ALLE NOSTRE RELAZIONI DI AMORE E DI AMICIZIA PERCHÉ SIANO VERO AMORE E AMICIZIA VERA. “Filosofia fuori le mura” tiene corsi aperti alla città perché, SE LA FILOSOFIA SIA MAI STATA FIN QUI UN PRIVILEGIO, È IL MOMENTO, QUESTO, CHE SIA UN DIRITTO PER OGNUNO DI CHIEDERE E DARE SENSO ALLA PROPRIA ESISTENZA.»

All’incontro di questa sera interverranno il Professor Giuseppe Ferraro, il filosofo Aldo Masullo, il musicista Marco Zurzolo, gli attori Marisa Albanese, Antonello Ardituro, Angela Balzano, Lello Esposito, Luciano Ferrara, Lukas Lucariello, Silvio Talamo e Isa Danieli, che presteranno il loro volto a questi ruoli, accompagnati da una suggestiva scenografia. L’ingresso è gratuito e aperto a tutti gli appassionati di filosofia.

La Notte dei Filosofi

Maggio 24, 2015 Posted by Eventi 0 thoughts on “La Notte dei Filosofi”

locandina jpeg

Complesso Monumentale San Domenico Maggiore / Napoli 30 Maggio 2015

Se una sera di maggio, a San Domenico, lungo la via del Decumano Maggiore incontrerai un banditore d’Idee, è là che comincia La Notte dei Filosofi. Il 30 maggio entrerai nel Complesso Monumentale di San Domenico e incontrai la Filosofia, ti parlerà di Sé, della sua gioia e delle sue traversie, della storia e del tempo, dei luoghi, dei confini, del mondo e della vita.

Ti guiderà fino alla porta della Giustizia che va incontro al Tempo.

Sarai condotto dalla piazza lungo la via San Domenico per arrivare al Cortile del Complesso Monumentale. Là troverai la Musica e la Città in persona, che ti dirà del suo stato, delle sue meraviglie e delle sue condizioni.

Di là vicino entrerai nella Biblioteca di San Tommaso e ascolterai il Tempo, la sua voce, la sua passione.

Ti si aprirà a seguire il varco del Chiostro e tra i suoi portici sentirai parlare la Voce.

Rivolgerai lo sguardo alla magnifica scala che porta al Complesso monumentale. Troverai le voci del Corpo Postumano.

T’inoltrerai lungo il corridoio delle celle domenicane, incontrerai la Fotografia, che ti racconterà le sue immagini, vedrai l’Arte e il suo studio nell’istante lasciato.

Sarai infine portato nella Sala del Cenacolo, dove la Filosofia ti parlerà di una risoluzione. Si aprirà in quella Sala il Consiglio di Notturno, quello che il filosofo dei Dialoghi indicò come l’organo preposto a prendere le decisioni per il Bene Comune della Città. Sarà un’assemblea di filosofia, una riunione di tutte le voci incontrate in quel momento.

La Notte dei Filosofi la prima manifestazione di filosofia della Città. Non sarà come un festival in cui ognuno conferisce il suo sapere a chi ascoltando conserverà il proprio. Sarà com’è nella tradizione letteraria più antica, ognuna delle personalità che s’incontreranno lungo il cammino “impersonerà” un’idea. Una personificazione e non una rappresentazione. Chi sa di Politica non parlerà allora “di” o “su” la politica, ma farà parlare la Politica, così sarà per la Giustizia, per il Tempo, per la Città, per la Fotografia, per la Filosofia, per il Corpo, per gli Spiriti. Il richiamo è alla personificazione delle Leggi di Socrate o della Psicoanalisi di Freud o della Pace di Erasmo da Rotterdam, come tante altre volte le Idee ci hanno parlato facendoci ascoltare ciò che è necessario perché l’impossibile sia possibile e l’ideale sia reale. La manifestazione è a cura della Scuola di Filosofia Fuori Le Mura e si presenta come il percorso di un esercizio dell’impossibile come desiderio che libera ogni possibilità al grado suo più alto.

A impersonare le Idee saranno personalità della cultura della Città, che già sono espressione con la loro testimonianza d’impegno civile: Marisa Albanese, Antonello Ardituro, Angela Balzano, Lello Esposito, Luciano Ferrara, Pino Ferraro, Lukas Lucariello, Silvio Talamo, Marco Zurzolo, Isa Danieli, Aldo Masullo.

L’evento si avvarrà di una scenografia e di un allestimento del percorso, insieme all’accompagnamento musicale di orchestranti e di attori teatrali. L’ingresso è libero.

I tempi previsti del percorso

20:00 la musica in piazza San Domenico

20:30 inizia il corteo che risale la via di San Domenico

21:00 arrivo all’ingresso del Convento con lettura del Manifesto di Filosofia

21:05 intervento di Marco Zurzolo al sassofono

21:30 Isa Daniele impersona la Città

21:45 Aldo Masullo nella Biblioteca di San Tommaso

22:00 la Giustizia con Antonello Ardituro nel Chiostro

22:15 Silvio Talamo impersona la Voce di Nietzsche

22:30 sulle scale inter vento del Corpo Postumano con Angela Balzano

22:45 Marisa Albanese intervento d’Arte

23:00 Luciano Ferrara impersona l’immagine

23:15 Lukas Lucariello scrive il disegno

23:30 Pino Ferraro e il Legame della filosofi

23;45 Assemblea di filosofia nella Sala del Capitolo

Mercoledì 6 maggio ore 18:00 / Feltrinelli / piazza dei Martiri

Aprile 29, 2015 Posted by Eventi 0 thoughts on “Mercoledì 6 maggio ore 18:00 / Feltrinelli / piazza dei Martiri”

6 maggio

lunedì 27 aprile, piazza San Domenico Maggiore, ore 21:00 — Erri de Luca / La Parola

Aprile 25, 2015 Posted by Eventi 0 thoughts on “lunedì 27 aprile, piazza San Domenico Maggiore, ore 21:00 — Erri de Luca / La Parola”

Il 27 aprile a San Domenico Maggiore, lunedì, il giorno d’inizio della settimana, quello del ciclo di lavoro, il giorno della quotidianità, non di festa. Era anche il giorno della busta paga per chi aveva un lavoro ed era un giorno di conflitto, si cercava di capire come continuare. Lunedì è il giorno della scuola che non finisce mai e della settimana che aspetta di finire o di cominciare per chi ci si mette d’impegno per cambiare. Lunedì 27 aprile in piazza San Domenico Maggiore, alle 21:00, un’ora non facile. Siamo in piazza con Erri de Luca, non al chiuso di una biblioteca o di un istituto o di una sede. All’aperto. Si comincia. L’impegno è della città che si fa scuola. Portare la parola della cultura all’aperto perché non resti chiusa o reclusa tra le mura. Il sapere è un possesso senza proprietà, va restituito a chi lo ha perduto o non lo ha avuto o non ne porta il sapore. È l’impegno di Filosofia Fuori Le Mura, perché il sapere non sia potere di proprietà. In piazza, dove abitualmente si tengono i discorsi elettorali o le fiere di mercato. In piazza per aprire. Per avere parola e non discorsi che speculano sulla realtà con letture che soddisfano il bisogno di avere una coscienza smarrita.

Il 27 aprile in piazza San Domenico Maggiore è la “prima” di anticipazione del La Notte dei Filosofi che si terrà il 30 Maggio. In questa città è mese simbolico di cambiamenti, di conquista e dell’inizio della Stagione. Il mese delle rose, del canto e dell’incanto. La Notte dei Filosofi non sarà una copia di festival di filosofia, dove si alternano conferenze che lasciano il sapere che si ha. Con La Notte dei Filosofi è la Città che si fa risonanza delle voci simboliche della Politica, della Giustizia, della Filosofia, del Tempo, del Corpo, degli Spiriti, voci impersonate dalle personalità più prestigiose di cui abbia vanto. La notte del 30 maggio attraverseremo il Complesso Monumentale di San Domenico, espressione del sapere e del confine culturale della Città, incontrando e dialogando insieme con le persone che fanno la cultura e l’arted ella Città, perché il Maggio dei Monumenti sia anche far risuonare le voci dentro memoria che libera.

Semmai la filosofia sia stata un privilegio è il momento che diventi un diritto, quello per ognuno di potersi chiedere del senso del proprio esistere e vivere, delle proprie scelte e azioni. Sarà come il diritto di un privilegio necessario.Filosofia Fuori Le Mura intende avanzare il diritto di un tale privilegio, espressione di un bisogno che sale di qualità nella sua realizzazione a misura del desiderio.

Nessuno è libero da solo, la libertà è fatta di legami. Il grado di libertà di ognuno si misura dalla qualità dei propri legami. Vale anche per un paese, per una città, la sua libertà si misura dalla qualità dei legami sociali, la sua legalità è ancora fatta di legami, prima ancora che giuridica, la legalità è affettiva e si dà di educazione ai sentimenti. Liberare il desiderio della città è fare della libertà la qualità dei legami sociali.

L’azione della filosofia non è quella di una pratica che si perde nell’esercizio solitario. La pratica della filosofia è vedere quel che manca in quello che c’è, perché ciò che sia veramente quello che è: vedere quello che manca alla nostra città perché sia veramente la nostra città. Vedere quel che manca alla nostra vita perché sia vera.

È una pratica che impegna in una politica senza dichiarazioni di promesse. È la pratica di una politica dell’intimità, dell’insieme. È l’ordine, l’ingiunzione, che viene dall’escluso, dai confini interni della città. La guerra è interna, è sociale, è civile, senza divise, perché le divisioni stanno dentro e si confondono. I confini della città non sono indicati da segnalazioni stradali. Sono confini interni. I confini di una città sono confini di voci. Una città arriva fin dove la voce ha parola, quando si perde in un grido o resta attonita, la città finisce. L’“ordine dell’escluso” viene dalla voce che non trova parola. Si è liberi quando si ha ascolto. Chi non ha ascolto non è libero. Bisogna parlare ascoltando, bisogna esprime una parola capace di ascoltare perché chi la sente possa ascoltare dentro di sé la risposta necessaria alla liberazione del desiderio di vivere.

Il 27 aprile, in piazza San Domenico Maggiore, alle ore 21:00, nel primo giorno di quotidianità, “feriale” e non di festa, Erri fa parlare la PAROLA. Ci dice della pratica di una parola che ascolta perché si possa sentire dentro liberare la voce del desiderio di vivere. La parola carica la voce per darle suono, aprirne il ritmo, farne respiro, risonanza di altre che s’incamminano in un dialogo corale, in cerchi senza confini che si allargano in onde sonore, che non finiscono e s’incontrano lungo uno spazio che diventa infinito a mano a mano, a voce a voce.

Stiamo vivendo una guerra senza divise, una guerra sociale disseminata di rione in rione, quartiere e quartiere, nessuna terra è più lontana, stiamo tutti sullo stesso salvagente nello spazio dell’universo, siamo sulla stessa imbarcazione, migranti per non si sa dove, migranti per restare, per arrivare fin qui dove siamo e come non stiamo, perché il mondo sia come non è. A comandare le linee di espulsione che chiamiamo di emigrazione, a pagare il biglietto della morte sono gli stessi che fanno deserto delle terre. Il mare non ha confini di qua e di là, ma sotto e sopra, superficie e profondità, il confine è di due elementi dell’acqua e dell’aria, insieme danno vita, quando uno esclude l’altro dà morte.

La Parola non può tacere. Chi sa parlare deve fare nomi e dare voce. La cultura non si può recludere. Né è più tempo d’intellettuali organici chiusi nelle sezioni a fare analisi politiche. La Parola deve dare voce in strada. La città è da farsi scuola. La filosofia deve invadere la città. Contro l’evasione scolastica ci sta solo l’“invasione scolastica” della città. Il sapere è un possesso senza proprietà va restituito apertamente.

Il 27 aprile in piazza San Domenico maggiore alle ore 21:00 inizia l’impegno di una città scuola, di una filosofia fuori le mura, di un’invasione della città per una cultura di sapere, inizia con il Maggio dei Monumenti, lungo il percorso definito dall’Assessorato alla Cultura.

Erri de Luca La Parola