Arrivo in ritardo a prendere parola sulla scena del funerale romano. Ancora una scena, ancora una fiction che si confonde alla realtà ovvero ancora la realtà che è più di una finzione. Il rischio è che tutto quanto si dice di orrore e di scalpore rischia di far parte della stessa finzione. Allora sfido l’equivoco. Rifiuto lo schema dei ben pensanti e dei protestatari dall’animo incontaminato che puntano l’indice facendosi da parte sul sistema di sorveglianza e punizione delle istituzioni. Proteste senza prospettive. Come le tante che si spendono contro i politici senza alcun progetto politico. Sfido l’equivoco in cui mi vado a cacciare. Continuo. Vedere quel funerale ricorda altri tempi, quando si vedevano per le strade carri trinati da cavalli, secondo precise distinzioni di classe e di potere, adesso di protervia. Si vedevano cortei per le strade. Allora, la mia amica tedesca si diceva sorpresa che ancora si facessero funerali di quel tipo. Le spiegavo, sorpreso io della sua meraviglia, che erano un fatto culturale, popolare, ricordando l’importanza che si dava alla morte, l’ultima scena, l’accompagnamento, il seguire, le esequie. Oggi siamo più europei. La morte si nasconde. Il principio è quello che ricorda Foucault: “far vivere e lasciar morire”. La morte non importa. La morte fa comunità. Nelle “grandi città” nemmeno ci sono più i manifesti, in Puglia ne ho invece visti ancora di grandi come per una manifestazione pubblica. E ci rifletto. Mi caccio in un equivoco. Continuo. Capisco e non comprendo. Intendo, ma non mi appartengono.
Quando ce la pigliamo con i funerali romani non gridiamo al mafioso, non solo, ma gridiamo contro una cultura, contro un modo d’intendere la comunità, che lasciamo gestire a chi è mafioso, facendo la stessa confusione che magari scappa a dire ‘ndraghetisti i Calabresi, camorristi i Napoletani e mafiosi i Siciliani e tutti quanti gli Italiani. Quella manifestazione è una precisa territorializzazione di confini tra un mondo e un altro. Ed è questo confine che occorre “invadere” adesso.
Se posso uscire dall’equivoco voglio dire che non si può chiamare “mafiosa” anche quello che non è propriamente tale, ma che la mafia assume come proprio. Quel sentimento di appartenenza che lasciato ai margini, finisce nella deriva di legami di illegalità. L’espressione di una cultura di comunità, arretrata quanto si voglia, inattuale, remota, quanto si vuole, ma che è propria della cultura dell’Europa del Mediterraneo, lasciata ai margini e resa perciò “remota” e “inaccettabile”, senza che la si comprende in altre forme di legami di legalità. Sono gli estranei. Ed eccoli, con le stesse facce, le donne in testa e a seguire lo sfarzo dell’ostentazione. Lo stesso che avviene nelle feste popolari, gestite solo dai “mafiosi” perché è finita l’epoca dell’antropologia sociologica e l’attenzione istituzionale a modificare forme e espressione. Qui è sulla morte e i suoi riti che bisogna anche riflettere, perché la morte è politica e non si può mettere fuori scena, non si può gridare all’osceno senza lasciare intendere di quale scena stiamo parlando e soffrendo noi stessi quando gridiamo contro i vertici che “non sapevano” e “non potevano non sapere”, perché di fatto quel'”accordo” passa per tutte le catene intermedie della comunicazione dal vertice alla base e viceversa. Siamo allora tutti mafiosi. I “guasti” si annidano nei rapporti di vicinanza. Nessuno ne è fuori, perché c’è quella contiguità che permette anche delle fughe immaginarie di chi dice di “conoscere” chi non ha mai visto, da una parte all’altra, quasi che i politici siano su un tale confine di connivenza sempre pronta. La mafia come organizzazione criminale è una cosa loro, la mafia come humus culturale è cosa a nostro malgrado. È questa “cultura” di contiguità e connivenza che occorre abbattere, sconfiggere, invadere con legami di legalità.
Il punto è che la mafia non si combatte solo le carceri, che devono essere chiamati luoghi di giustizia e devono essere tali. Il carcere però, mi aiuta ancora Foucault, non si deve analizzare per le sue insufficienze funzionali, perché proprio dalla sue disfunzione si comprende l’ordine sociale e di governo della popolazione entro cui sono inserite. Lo ripeto ormai da tempo: il grado di sviluppo della democrazia di una paese si misura dallo stato delle scie carceri e delle sue scuole, quando le carceri saranno scuole e quando le scuole non saranno carceri allora la democrazia avrà raggiunto il suo punto più alto.
Voglio dire che la lotta alla mafia si fa con la cultura e non con le fiction che le fanno da colonna sonora, è una lotta di cultura. Riguarda l’ambiente, il paesaggio, il modo di vedere e sentire. Non sarà certo un caso che i momenti più incisivi di lotta contro le mafie sono stati quelli in difesa della vita, dei territori, che sono diventati i soggetti sociali sui quali intendere un progetto politico di governo di autonomie. Occorre invadere i confine, arrivare con la parola là dove la voce resta sola. La parola, il racconto, la vicinanza, non la narrazione, televisiva e non, di gesta che rendono mitici quanti offendono il valore di ogni mito di comunità. Entrare in quei luoghi chiusi, territorializzati, le periferie, parlare a quella mamma del quartiere di San Ferdinando che si è vista il figlio morto per strada e che ha invocato già prima che accadesse di parlare con qualcuno perché non avvenisse. Mi sorprendo ogni volta, quando una persona detenuta, da ultimo un “casalese”, ancora giovane, mi dice “professo’ dovete conoscere mio figlio”.
Allora è la città che deve farsi scuola, dobbiamo portare il sapere, la cultura dove c’è una incrostazione confusa di non sapere che fa male e che dà la morte, mentre noi “lasciamo morire”. Loro danno la morte, mentre hanno cura della vita dei propri cari. Noi li lasciamo morire per farci la nostra vita. Da una parte è cultura tribale, dall’altra, dalla nostra, senza comunità. Lo vedo nei miei quartieri, quanti volti di giovani ammazzati diventano delle icone in mostra nelle bacheche di santi. La morte non vale niente. Per i mafiosi la vita degli altri non vale niente. Per noi la morte deve cominciare a prendere, a riprendere il significato di comunità. Allora sì, condanniamo quella scena, ma capiamo pure che abbiamo lasciato a quella scena una forma chiusa su se stessa di società. Dobbiamo capire senza comprendere e giustificare, intervenire, cambiare, invadere, fare sapere. Dobbiamo capire la morte, il suo valore simbolico di comunità, senza lasciarlo degenerare in forme di legami irriconoscibili e inaccettabili, non certo con carri di cavalli ed elicotteri, ma con un senso di comunità sociale e di società comune che deve trovare le sue forme di comunicazione di parola per non lasciare un tempo e un mondo senza restituzioni, per non lasciare alla finzione la realtà. La città deve farsi scuola. E non lasciare alla scuola, che “buona” non è, la responsabilità educativa che le manca perché manca alla Città. Dobbiamo arrivare in quei campi profughi che sono dalle nostre parti, nei quartieri delle periferie, nelle carceri dalle file di donne, vecchi e bambini nel giorno dei colloqui e sentirne le voci e parlare. I confini della città sono fatti di voci. Una città arriva fin dove la voce ha parola quando si spegne in un grido o resta attonita o non trova parola per spiegarsi e sentire, la città finisce, e noi siamo quella città, restiamo al centro, senza giungere e capire quei confini che non si comprende perché siano così. La nostra parte è la denuncia di un’economia bugiarda e di una illegalità diffusa. La nostra parte è di condanna. Poi arriva l’altra del capire senza comprendere, senza giustificare, ma per cambiare, per riportare, per restituire la città e il sapere a chi non lo ha avuto o lo ha perduto o mai saputo. Sono quelli che cadono dall’altra parte e vanno dietro ai funerali di famiglia allargata, scompaginare quell’esequie e dare seguito ad altro che sia eseguibile, senza esecuzioni sommarie. L’intimità della danza forse ci salverà, se la cultura non si chiude dentro i costi della Città, per ritrovare la comunità. Allora sarà scuola aperta.