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GRAZIE

Giugno 9, 2015 Posted by Approfondimenti 0 thoughts on “GRAZIE”

Consiglio Notturno NdF

Grazie, ho questa sola parola, la uso come uno scrigno per raccogliervi tutti i pensieri, i volti, le voci, i passi, che abbiamo fatto insieme nella Notte dei Filosofi. È una voce, come ogni parola che basta per dire quanto si disperde nella gioia di aver vissuto insieme un momento bellissimo. È stata una partecipazione di voci, inattesa, pensata, sì, ma impensabile nella misura del desiderio che si è presentato. Anche il disagio è stato vissuto come voluto dalla partecipazione, non per altra impreparazione ma per un desiderio troppo grande, A rifletterci, i desideri sono sempre più grandi e inattesi. L’altro è la mia impreparazione, gli altri ci trovano impreparati ogni volta portandoci il desiderio che pensavamo perduto.

Abbiamo vissuto delle ore sincere, dove ognuno è stato se stesso impersonando la propria passione, il teatro, la musica, il tempo, la giustizia, la voce, il corpo, l’arte, la fotografia, la filosofia. Nessuno doveva dimostrare di sapere, ma portare il sapore il quel che è la vocazione del proprio impegno, delle proprie relazioni. Chiunque svolge con passione di desiderio il proprio impegno di persona, sa di quell’idea che il desiderio sollecita. Ne porta il sapore, così chi si occupa di giustizia, da magistrato, sa della giustizia, la sente. Non può dire che cos’è in una definizione ma può raccontare di sé, della sua amicizia e conflitto, della sua sincerità. Le cose vere si possono solo raccontare, non se ne può dare una definizione. Le cose vere, come l’amore, la libertà, la scienza, come ogni relazione vera, si può solo raccontare, chiama in prima persona, s’impersona. Ecco perché abbiamo scelto quella forma per la Notte dei Filosofi, quella di impersonare un’idea, non parlare su e di, ma esserne chiamati di persona a parlarne. Ed è stato così. Masullo splendido, è stato il Tempo, Isa Danieli è stata la Città, Marco Zurzolo la Musica, Antonello Ardituro la Giustizia, Silvio Talamo la Voce, Angela Balzano ed Elisa Cotena il Corpo, Marisa Albanese l’Arte, Lukas Lucariello il Disegno, Luciano Ferrara la Fotografia, Carmen Vicinanza è stata il suo nome, la Vicinanza, Giovanna Callegari, Laura Cascio, Anna Serio sono state le dee, Marialuisa Vacca è stata il Sostegno, Simona Marino l’Impegno. Ognuno è stato il proprio desiderio, la sua passione, ognuno dei tantissimi che siamo stati a partecipare di un evento importante per la Città, di cui tutti sentiamo il bisogno.

Mi sono chiesto tante volte della filosofia, se la sua voce parli d’idee che restano tali, senza applicazione, o se nelle sue parole esprima quel che ancora non c’è, quello che non va e come dovrebbe invece andare ed essere il mondo, secondo quali relazioni, e quale sia poi l’arte di vivere insieme e l’abitare che custodisce il segreto irraggiungibile del vivente.

Penso che i filosofi siano sui confini della città. Platone li pensava come guardiani ma non credo che pensasse a gendarmi, ma a chi ha riguardo, come quando si dice di riguardarsi, di aver cura. Col tempo ho imparato che la pratica della filosofia è vedere quel che manca in quel che c’è perché quel che c’è sia veramente quel che è. Mi viene facile ripetere il giro della frase dicendo di vedere quel che manca alla mia città perché sia veramente com’è o cosa manca alla propria amicizia perché sia vera e quel che manca all’amore che portiamo a chi amiamo perché sia vero amore. È un compito. Il filosofo è come l’artista, ma quale professione non è arte quando è vissuta col desiderio di esprimerla come non è stata, e come sempre si è voluta e pensata. C’è un momento in cui il desiderio diventa bisogno, è quando penetra il proprio corpo fino a sporgersi a prendere respiro di parola e incontrarsi. La filosofia è questo bisogno del desiderio di un mondo come lo sentiamo.

Parlavo di Kant quella sera a chi mi era a fianco, ricordavo la sua critica del giudizio e di come riguardasse il sentimento del piacere e del dispiacere. Chi mi ascoltava diceva che era però un discorso ideale, che non risponde alla realtà così com’è. Dicevo che in fondo era lo stesso di Platone, anche di Nietzsche e di Heidegger e di Vico e di Giordano Bruno, solo con parole di tempi diversi perché l’applicazione del linguaggio e delle relazioni col tempo richiede altre espressioni. È come se uno mi dicesse che Bach e Mozart non siano ugualmente musicisti. Col tempo mi sono abituato a ripetere che la musica non si ascolta, è ascolto. Così non posso dire di ascoltare Mozart ma di come la sua musica mi mette in ascolto, mi dispone, così come Mozart o Bach mi fanno ascoltare la musica più segreta. Ecco, allora sono disposizioni anche le filosofie che mettono in ascolto del segreto di quel che si dice che sia “la” filosofia, che poi è solo “là” dove “la” viviamo. I filosofi stanno sui confini della città, guardano ciò che non va ma non per interpretare l’insoddisfazione e l’impotenza a fronte dell’esistente così com’è, ma per mostrare quel che è vero e nascosto, solo perché reso invisibile da quel che si vede secondo un ordine d’inclusione e d’esclusione, nascondendo il mondo dietro al mondo. Chi dice che il nascosto sarà lo stesso quando nel suo apparire, continuerà a pensare ancora a come potrà essere diverso da quello che c’è. I filosofi o sono antagonisti, come Nietzsche, o idealisti, ma anche Nietzsche lo era, come Platone, come Foucault, come Deleuze, come ognuno che incontra la filosofia.

È stupefacente riflettere come ancora permanga il desiderio della filosofia e il suo bisogno, perché la filosofia è desiderio di sapere come non abbiamo mai saputo fin qui nelle forme esistenti e tutto questo è un bisogno. L’abbiamo vissuto, cioè veduto dentro, perché il vissuto è quel che si è visto da dentro. L’abbiamo vissuto con La Notte dei Filosofi. La filosofia permane, anche a fronte di riforme della scuola in Europa che ne limitano l’insegnamento fino alla cancellazione, come anche per altre espressioni di arte e di letteratura che non hanno un immediato e riscontrabile interesse applicativo, ma esprimono quella funzione irrinunciabile, per cui soltanto si può dire pubblico un sapere e una scuola, quando riguarda la cultura, il comune, lo stare insieme, i legami sociali, per una società comune e una comunità sociale.

La notte del 30 di maggio è stata la manifestazione di un desiderio che è diventato bisogno fino a metterci in strada e affrontare anche difficoltà ammirando la sincerità di chi si aveva davanti e s’incontrava, senza interesse alcuno, senza un secondo fine, senza guadagno, senza ostentazioni di sapere e di apparire, semplicemente.

“Grazie” allora viene spontaneo dirlo che è una voce, semplice, non una parola, ma un volto cangiante in tutti quelli che si sono ritrovati nella Notte dei Filosofi. Vorrei che ognuno vedesse questo “grazie” rivolto di persona, di viso, diretto, immediato, sincero.

Chi avevo vicino mentre continuavo a parlare della “critica del giudizio” come l’esigenza che anche un sapere, nella forma come nei contenuti, procuri un sentimento di piacere o di dispiacere e che è il bello a suscitare il sentimento morale, ha obiettato dicendo come tutto questo è educativo ma non è concreto. Sì, certo, in quell’opera Kant promuove un’educazione sentimentale, lui che appariva tra i banchi di scuola e dell’accademia espressione di una dottrina fatta di tabelle, o come un notaio della ragione chiamata in tribunale.

Il fatto è che bisogna portarla fuori la filosofia, il fatto è che bisogna fare della città una scuola e non lasciare che i mali della città siano attribuiti solo alla scuola.

Filosofia fuori le mura è questo progetto, questa idea. Bisogna portare i filosofi per la città, sentirne il bisogno, alimentare il desiderio di una discussione che non sia l’accapigliarsi di ciò che si gradisce e tradisce, per ritrovare la riflessività interiore del bello. Anche l’artista, lo scultore, il pittore è inutile, non “produttivo”, ma è triste immaginare cosa e come saremo senza l’arte e la filosofia.

Perciò, la Notte dei Filosofi è stata solo un evento dell’impegno di Filosofia Fuori le Mura. Saranno annunciati a seguire appuntamenti nelle piazze e nelle vie della città a parlare di un filosofo, di un’opera, di un’idea, a ritrovarla, a ripensarla, a pensarci.

I confini della città sono fatti di voci. Una città arriva fin dove la voce ha parola, quando si spegne in un grido o resta attonita, la città finisce. Quando non ci sono sentimenti, neanche la voce risuona nelle parole come nelle note di un respiro di vicinanza.

Portare la filosofia sui confini della città, sui luoghi d’eccezione, in carcere, nelle scuole, nelle piazze, nelle case, e non tra filosofi dichiarati tali per professione, perché ogni professione ha la sua filosofia, opera per scelte, sentimenti, ragioni, contrarietà, desideri. Non bisogna averla “studiata” la filosofia per capirla, per sentirla, né i filosofi usano ricette e terminologie che non abbiano estratto dalla vita del giorno e della notte e perciò ritraducibili nel linguaggio comune, perché il compito per la filosofia è questa traduzione nel linguaggio comune, di parole in comune, per essere parola che accomuna, che circonda e tiene insieme, che riguarda e fa stare bene, che guarisce quel che diciamo essere normale e sano e ci fa male, la cura della filosofia è avere cura che si abbia cura di sé insieme con gli altri.

Allora continuiamo fino a ritrovarci al prossimo maggio con il percorso di un anno di filosofia nelle piazze.

Il prossimo incontro è a Piazza Municipio, che è stata messa a nuovo e sarà ancora più bello metterla in filosofia. Il prossimo incontro sarà sull’educazione al sentimento del piacere e del dispiacere. Poi ci sarà Camerota in settembre, tre giorni all’aperto in un villaggio, tra alberi e mare e filosofia, a parlare del corpo com’è in arte, in filosofia, in politica, a scuola, al cinema, come è il corpo della città, il corpo proprio, il corpo improprio, il corpo dell’altro, dell’altra, di altri, di chi viene e trova impreparati di fronte a un nuovo desiderio di vita e di mondo.

Il Corpo in movimento

Febbraio 20, 2015 Posted by Approfondimenti 0 thoughts on “Il Corpo in movimento”

Le lezioni di Ferraro Trainer (www.ferrarotrainer.com)

 

 

Il dono della paura

Febbraio 8, 2015 Posted by Approfondimenti 0 thoughts on “Il dono della paura”

Giuseppe Ferraro

[Università degli Studi ‘Federico II’/Napoles/Itália]

Ho paura di non riuscire a dirvi le cose che ho preparato da giorni per questa conferenza. Ho paura di perderle e ho desiderio di esporle. Sono già caduto nel titolo di questo incontro: Paura e Desiderio. Arrivo subito alla conclusione, a quella che ho fissato nel corso di questi giorni. Bisogna donare la paura, ma appena qualche momento fa, quando sono entrato in questa stanza, ho capito che cosa volesse intendere quell’espressione che avevo colto in questi giorni: per essere veri bisogna donare la paura. Diversamente con la paura ci si maschera. Ecco per paura di perdere il cammino di questi giorni, l’ho scritto. Mi servo di mezzi. Mi maschero, ricorro ad artifici. Non dovete aver paura. Non leggerò. Vi dono la mia paura. Ho chiesto ad alcuni studenti di farmi compagnia al tavolo. Prenderanno la parola insieme con me. Saranno miei amici.

Paura e Desiderio

La paura è un’affezione, non è un affetto. Non è un sentimento. Non stabilisce legami. L’altro, l’altra, non sono più persone, la paura ne sbarra l’accesso, il contatto, sfuggono, si allontanano e ci perdono, perché ci perdiamo nel loro allontanamento. Al posto dell’altro, dell’altra, figura un’ombra, il buio, il vuoto del buio. La paura dell’ombra è la prima esperienza dell’alterità, senz’altro, dell’altro senza identità, dell’altro senza ragione. Senza passaggi che portino al proprio interiore essere presente, esistente e vivente. Inaccettabile. Lo si deve accettare. La paura apre l’abisso dell’ombra, dell’altro, apre l’abisso dentro. La paura prima, che ogni bambino conosce e che dimentica perché insostenibile, è la paura dell’ombra, della propria ombra, la paura di scoprire il proprio essere altro, senza volto. L’altro che ci si vede e si muove al nostro muoverci. Inizia così quel processo di messa in chiaro dell’ombra che diventa dapprima fantasma, il ricordo, il ritornante nel buio dell’io; poi si mettere in chiaro allo specchio, l’ombra diventa io, si rappresenta. Infine diventerà l’amico quello, chi ascolta le mie parole e che ascolto io stesso nelle sue parole, senza ripeterle nell’abisso dell’eco che delle parole proprie quando si è soli. Così l’ombra è l’eco oscuro del corpo proprio. Buio. Nulla. L’amico è chi invece infonde coraggio. Poi diciamo che la paura svolge allora un’importante funzione. Con la paura si apprende, ma cosa si apprende dalla paura che non sia anche un apprendimento che mette paura, che fa paura, e che ha perciò il pericolo nella sua espressione?!

La paura stabilisce un confine. Non un legame. Un confine territoriale, per un confine morale. Un confine etnico, per un confine etico. La paura svolge un’importante funzione educativa. Ha una funzione pedagogica, opera da leva. La paura del voto, dell’interrogazione, della condotta, della bravura degli altri. Ma non si può svolgere una pedagogia della paura. Non bisogna educare alla paura o per mezzo della paura, piuttosto bisogna educare la paura. Spingerla a farsi sentimento. A tradursi in prudenza, in timore, fino a risolversi, a sciogliersi con l’amore, che sta tra la paura e il desiderio. Dalla paura viene il timore, dal desiderio viene la speranza. Non c’è amore senza timore, non c’è speranza senza amore. La paura non si supera si trasforma da affezione diventa affetto. Ed è l’amore che produce una tale trasformazione.

Paura e desiderio sono due sponde del tutto simmetriche. Hanno lo stesso spettro emozionale. L’amore educa il desiderio, l’amore educa la paura. Educa la paura in timore e il desiderio in speranza. L’amore insegna l’attesa e la presenza, insegna a essere presente, perché chi nella speranza attende, prende anche cura, attende senza tempo ed è presente per questo. L’amore educa a stare tra l’evento e l’avvenuto, tra il passato e il futuro che viene dal presente che si racconta, s’immagina, proietta, sogna, fantastica, s’illude. E’ come noi amiamo che siamo anche qui, è come noi temiamo e attendiamo. Tutto questo ci viene dalla paura e dal desiderio, dal fondo di un’affezione contrastante e uguale, indistinguibile.

L’immagine che Leonardo da Vinci riferiva per dire della condizione di conoscenza della natura, si può trasferire dalla “caverna della natura” alla “caverna della propria natura”.

«… e tirato dalla mia bramosa voglia, vago di vedere la gran copia delle varie e strane forme fatte dalla artifiziosa natura, raggiratomi alquanto infra gli ombrosi scogli, pervenni all’entrata d’una gran caverna; dinanzi alla quale, restato alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa, piegato le mie reni in arco, e ferma la stanca mano sopra il ginocchio e colla destra mi feci tenebre alle abbassate e chiuse ciglia e spesso piegandomi in qua e in là per vedere se dentro vi discernessi alcuna cosa; e questo vietatomi per la grande oscurità che là entro era. E stato alquanto, subito salse in me due cose, paura e desiderio: paura per la minacciante e scura spilonca, desiderio per vedere se là entro fusse alcuna miracolosa cosa» (Scritti Letterari, pag. 184, Rizzoli, Milano 1980)

Quanto è diversa l’immagine della caverna di Leonardo da quella di Platone. Qui ci si trova fuori della caverna. Nel mito di Platone si esce fuori della caverna, ci si libera. Dentro ci sono ombre di corpi costruiti da uomini e da loro stessi portati lungo un muretto che prende luce dal fuoco. Fuori della caverna c’è il Sole, ed è al sole che la vista si rischiara. Bisogna uscire dalla caverna, dalle ombre che scambiamo per essere viventi e parlanti, mentre non sono che artifici umani.

Leonardo invece è là, fuori della caverna. Vi guarda dentro. Ne è attratto e spaventato, lo desidera e ne ha paura. Paura per la minaccia, desiderio del mirabile. Del non visto prima. Ciò che fa paura e si desidera per venirne in possesso e acquisire un nuovo sguardo. Per Platone è il sole che rende mirabile ogni cosa. Per Leonardo il mirabile è anche nel buio, siamo noi stessi a rischiararlo. Questo però è il punto ciò che conosciamo per paura e desiderio è anche una conoscenza desiderosa e pericolosa. Per Platone è l’eros che ci muove, e l’eros è tra il sapere e il non sapere, una mescolanza. Ed è proprio questa la conoscenza che viene dalla spinta dell’eros, la mescolanza, il misto. Con Leonardo, con il Moderno, lontano dal Greco, la mescolanza della conoscenza che alimentiamo e alla quale ci educhiamo è tra la paura e il desiderio, è desiderosa e pericolosa.

«Noi non sappiamo che cosa può un corpo», diceva Spinoza dando alla mente la funzione di trovare una causa adeguata e tradurre l’affezione in affetto, passando dalla passione all’azione, giungendo alla soggettivazione, all’essere soggetto, non senza rilevare che l’essere soggetto è un assoggettamento, che si riscatta e si libera solo come abbandono. Spinoza distingueva tra   l’affezione e l’affetto indicando quest’ultimo come l’affezione che trova, da parte della Mente, la sua causa adeguata o inadeguata. L’una per un affetto gioioso, l’altra per un affetto triste. L’affetto è perciò determinato, consaputo, vissuto con consapevolezza. L’affezione è piuttosto qualcosa che ci prende, è propria del corpo e della mente, ma di quel che della mente non sa del corpo e che la mente non sa di se stessa perché «l’essenza della Mente consiste nell’idea del corpo in azione», ma noi non sappiamo – la Mente non sa – che cosa può il Corpo. Pensiamo perciò di essere liberi nelle nostre azioni, ma accade al fondo della nostra chiarezza e distinzione di essere come sonnambuli o come ubriachi, o giovani, bambini, drogati. Al fondo della nostra libertà di dire e fare questa e quella cosa opera qualcosa di sconosciuto a noi stessi, alla nostra mente, ed è il corpo. Noi non sappiamo che cosa può un corpo.

Ed è questa la paura. Questo non sapere, questo non poter indicare una causa adeguata alla nostra affezione e di non riuscire perciò a tradurla in affetto, in sentimento, a trovarvi perciò un legame, a fare della paura stessa un legame e perciò a trasformarla in sentimento, perché non sia più paura. Semplice affezione. Ne va del nostro essere vero. Di ciò che siamo veramente e del come poter essere delle persone vere, degli individui, degli uomini in verità, che dicono la verità e sono veri, manifestando il proprio essere autentico.

Occorre donare la paura per essere veri. Questa è la conclusione cui sono giunto, dopo aver interrogato sul cammino di questa ricerca per avere a questa conferenza. Ho interrogato giovani e bambini, studenti, docenti, adulti, ho interrogato i libri che mi sono cari, ho preso e letto le loro pagine come fossero lettere pervenutemi da un tempo che è accanto al mio, al nostro adesso, vivente ed esistito.

Bisogna donare la propria paura per essere veri. Diversamente la paura produce mascheramenti. Strategie di menzogne, fino a recludere, confinare, separare, non aprire. Non ci sarà mai condivisione se non mettere insieme le nostre divisione, le nostre soglie e limiti. Non lo si può astrattamente. Occorre donare la paura. Non è da tutti, ma è da ognuno.

La paura genera superstizione. E’ una leva del potere. Sul piano sociale agisce come separatore e ingiunzione di dovere. Sarà ancora più evidente che non bisogna educare al dovere, ma al poter di cui il dovere è lo strumento, non il fine. Il fine del dovere è la potenza, non l’obbedienza. La potenza è il rovescio dell’obbedienza. La potenza è attiva, l’obbedienza è passiva, ed anche ingannevole. La potenza invece è pura manifestazione di presenza, di attesa, di attenzione.

Non dovete aver paura! O forse no, bisogna aver paura!? Può dunque la paura essere qualcosa che si può suscitare per urgenza, per necessità, per obbligo? Certo a scuola la paura è presente. Si fa uso della paura. Attraverso il voto, l’interrogazione, il giudizio. Adesso c’è la ripresa del voto in condotta. Dovrebbe far paura. Si dice però anche amare da paura. E sembrerebbe qualcosa di opposto alla paura della condotta. Certo è che la scuola ricorre alla paura per essere riconosciuta nella sua azione educativa. Si può affermare che la paura ha una funzione pedagogia, eppure non si può accettare una pedagogia della paura. Per questo si ha il facilitatore, per questo si ricorre a mezzi sedativi, a minimizzare le difficoltà. Forse è proprio il posto della paura ad essere difficile da indicare e stabilire per avviare un processo educativo, per apprendere. Non bisogna aver paura, ma forse dovremmo affermare che è piuttosto da educare la paura che non educare per mezzo della paura o educare alla paura. La questione passa di soglia in soglia dalla scuola alla società, dall’educazione alla politica dalla formazione alla professione, da sé agli altri. La paura è proprio della relazione, ma è come un momento arriva, non la si può decidere. La paura arriva quando non c’è relazione. Non la si può suscitare accade. Ed è un momento. E’ sempre al momento. La paura di fronte a ciò che accade, al non riuscire a dominare una situazione. A non trovare relazione tra ciò che avviene e ciò che lo determina, La causa. Ciò che se riesca ad individuare come origine. Oppure la paura di ciò che si è fatto. Ma allora la paura non trova più la causa come sua determinazione, la causa diventa la colpa. Sulla paura si sviluppa la coscienza della morale, non l’etica.

Oppure la paura di fronte a ciò che può succedere data una situazione, data un’azione. Ma non è più paura, è preoccupazione. La paura è un’altra. E’ sempre al presente. Sempre ora. Adesso. Tale però da sconvolgere il presente e l’adesso. E presto ci accorgiamo che tutto il nostro ragionare e organizzare la nostra la vita, sul piano istituzionale, sociale, personale, non è nient’altro che da presente, stabilire un adesso, un’ora senza lasciare libera la paura, dominandola. Così ci procuriamo la soggettività, così diventiamo soggetti agenti, così stabiliamo le nostre relazioni, avanziamo esorcizzando, eliminando, dominando la paura. Procuriamo anche finzioni di scena mostruosa, delittuosi, per non avere paura. Ma cosa è mai e da dove viene e dove ci porta la paura? Viene da altro, dall’altro, da ciò che è altro e che non si conosce. La prima paura, quella che dimentichiamo da bambini è la paura dell’ombra. Anche la paura del cibo, quando si passa dal seno allo svezzamento. Il rifiuto di ciò che non si conosce. La paura è un sistema di difesa. Ma da chi? da cosa? Chi e cosa ci fa paura? Esistere. Non esito. E’ questo. Esistere. La paura è l’affezione dell’esistenza. La paura esiste. Ex siste, si pone da qualcosa che non conosciamo. La paura viene all’esistenza dalla vita. Nella paura ci troviamo sulla soglia dell’esistenza e della vita, al confine, sul confine di esistenza e vita. Possiamo perderla, ma è anche questo perderla che suscita insieme alla paura il desiderio.

Ormai è per me un modo di presentarmi. Insegno filosofia dentro e fuori l’università. Insegno etica ai ragazzi che lasciano le medie superiori e affrontano il percorso formativo che li indirizza a specifica disciplina universitaria. Insegno tra i bambini delle scuole del disagio della mia città, della mia regione, insegno filosofia in carcere. Nessuna disciplina come la filosofia si spinge sui confini estremi della vita e dell’esistenza. Nessuna disciplina come filosofia si spinge sul confine del senso e del non senso. Nessuna disciplina ha a che fare come la filosofia con la paura e il desiderio. Con la paura senza ragione e senza perché, senza alcuna causa adeguata o determinata. La filosofia si spinge sull’abisso dell’esistenza, dove la paura diventa angoscia. I filosofi la conosco come paura di nulla, come paura che viene dal nulla. E’ questa la distinzione che la filosofia ha segnalato tra la paura come affezione della coscienza e l’angoscia come affezione dell’esistenza. Non è la stessa. Sulla paura come affezione della coscienza è nata la morale. Sull’angoscia come affezione dell’esistenza è nata l’ontologia, la domanda sull’essere. Qualcosa che gli antichi non hanno conosciuto, perché si sono interrogati sulla sostanza dell’essere, su ciò che ci mantiene l’esistenza nella vita, al mondo come commisurato allo splendore e al movimento degli astri, risposto sull’armonia dell’universo. L’ontologia si afferma invece come domanda sull’essere, sul senso dell’essere. Su come lo percepiamo e lo viviamo e percependolo come lo percepiamo e vivendolo come lo viviamo lo perdiamo, ci smarriamo. I Greci non hanno conosciuto l’angoscia. Non hanno saputo della paura del nulla. Non hanno conosciuto l’angoscia, sapevano del panico ed era la paura del tutto, “Pan”, la paura della Natura, della Physis. Conoscevano il panico, la paura di quando ci sente soli nella natura, noi conosciamo la paura di quando ci si sente soli al mondo. Ed è diverso. La caverna di Leonardo è diversa dalla caverna di Platone. L’uno cerca di entravi, ne attratto e la teme. L’altro cerca di uscirne, di venire al mondo. La caverna adesso è il nostro animo. Il dentro noi.

I filosofi conoscono la paura, la colgono come angoscia, parlano della paura della coscienza e della paura dell’esistenza. Non si riferiscono a un’analitica della psiche, si riferiscono a un’analitica dell’esistenza.

I greci non avevano bisogno di una morale, perché sorretti, come dice Nietzsche, da un’etica quale espressione del cosmo, sul quale potevano scrivere la propria estetica, la propria rilevanza artistica, noi invece costruiamo morali senza alcun fondamento etico. Confondiamo morale ed etica. Ci spingiamo a distinguere l’una dall’altra. Non ancora comprendiamo che l’una è dentro l’altra, ne è la pittura, l’interpretazione, la condotta personale. Estetica.

I filosofi conoscono la paura, l’angoscia, il non senso, per questo sono anche i più felici, per questo parlano della gioia e ogni libro di etica finisce in gioia. I filosofi sanno della felicità. Sanno andare oltre la paura, oltre l’inganno e l’illusione.

Vado sui confini della città, dove la voce non trova parola o resta muta, dove la voce non trova ascolta e ha paura, lacerandosi in un grido o chiudendosi in silenzio. Quando entro in carcere, quando varco tutti quei cancelli uno dietro l’altro, non saprei dire se è lo stesso del primo giorno sotto scuola, della porta dell’aula, dei banchi. Non so se sia lo stesso di quello che prova il ragazzo di quella scuola che ho trovato da solo, al corso di recupero o Luigi, il bambino all’ultimo banco, da solo. Non so è lo stesso per ragazzo e la ragazza di Giugliano che arriva all’Istituto Scolastico “de Nicola” al Vomero, in quella scuola che mi ha sorpreso, perché a ogni rampa di scala, a ingresso di piano c’è un cancello. E’ aperto. Spero, credo, immagino, che non sia mai stato chiuso, ma è là per essere chiuso e aperto, aperto e chiuso.

Quando siamo andati in carcere insieme, quando vi ho portato i miei studenti, c’è stata una ragazza che ha chiesto a quanti vivono l’ergastolo rinchiuso là dentro se avessero paura. Si, ha risposto uno, paura di uscire fuori. Paura di stare dentro. Orma è per diventato un modo, un metodo, una maniera di rispondere. Quando sono chiamato ad un colloquio come questo a discutere, come adesso, della paura, arrivo qui, al momento in cui mi trovo a parlare facendo prima il giro dei luoghi e delle persone, interrogando chi incontro sul mio cammino per chiedergli come in queste settimane, che cosa è la paura e di cosa si ha paura, da dove arriva e come si fugge. Interrogo i libri, interrogo i filosofi, leggo le pagine di ricerca, come fossero lettere che mi hanno inviato da un tempo, da un pensare. Lettere indirizzate a chi la fa proprie. Così ho riletto le lettere di Spinoza, le pagine dell’Etica, ho letto le lettere di Hegel, ho chiesto ai ragazzi dell’Istituto Galiani, ai bambini del primo circolo di Caserta, ai docenti, agli uomini e alle donne, ai detenuti. Vi riportano cosa mi hanno dato da pensare. Cosa ho appreso, non ciò che è la paura, ma cosa posso dire che sia da questo cammino e che oggi sarà qualcosa di diverso che si aggiunge dopo questo incontro. C’è pure che sto ragionando d’amore in un corso. C’è che lo scorso hanno qui ho parlato dell’imparare ad amare. Non posso parlare della paura senza richiamarmi all’amore e al desiderio.

L’oggetto del desiderio è oscuro. Anche la paura ha l’oscuro come proprio oggetto. Si dice del desiderio come affezione per ciò che manca. La paura da parte sua è quando ci sentiamo mancare, quando manchiamo. SI rivolge in colpa, da qui la coscienza. Trova una ragione e si comprende come a fare paura siamo noi stessi. Maria Cristina del “Galiani” questo ha risposto quando abbiamo parlato della paura. Ha detto: ho paura di scoprirmi; ho paura di scoprire qualcosa di me stessa; ho paura di non poter sostenere qualcosa che sono io stesso. La paura è propria del corpo. Del corpo proprio. Ed è questo sorprendente. Quando si ha paura è come la mente, ad usare l’espressione di Spinoza, si affannasse a trovare una ragione, una causa, per tranquillizzare il corpo. La paura non è mai della mente, chiamata invece a soccorre il corpo. Lo interpreta. Finisce anche ogni espressione della nostra mente è un’interpretazione del corpo ovvero è un’interpretazione della paura. Noi non sappiamo forse ancora di una mente che interpreta la nostra gioia. Sappiamo di quella interrata la paura e il desiderio, quasi dando legna da ardere all’uno e dando scampo per l’altra. Non sappiamo ancora di una mente che non sia chiamata ad applicarsi a desiderio e paura, ma non sappiamo neanche di un corpo che possa esprimere affezioni che non siano del desiderio e della paura. L’una speculare all’altra. Ciò accade perché le relazioni che procuriamo al nostro corpo lo lasciano oscillare tra l’una e l’altra affezione, paura e desiderio.

Fino a che punto è nostro il desiderio? Fino a che punto è nostra la paura? Fino a che punto siamo noi ad avere paura e a desiderare? Non sarà forse che siano le soglie, la stessa soglia della vita che si affaccia nell’esistenza e che incute paura all’esistenza e che chiede di essere vissuta nell’esistenza come desiderio? Come dobbiamo regolarci su questa soglia? Quale domanda possiamo rivolgere alla vita che bussa alla porta dell’esistenza? Quale domanda rivolgere all’esistenza stessa e che ripeta la domanda che la vita pone all’esistenza? Alla nostra esistenza.

Dobbiamo smettere di avere paura? O come cambiare la paura che è un’affezione in affetto? Esserne causa. Darle una causa. Averne ragione.

E’ necessario avere paura. Senza non c’è l’io. Senza si è senza difese. Ho conosciuto una bambina nella scuola di Caserta. E’ brasiliana. Ha l’insegnante di sostegno. Ha dodici anni. E’ in quarta, con bambini che di anni ne hanno nove. Non parla. Ha un sorriso tenue sulle labbra. Occhi grandi. Sorride. Qualunque cosa le chiedi e le dici. Non risponde. Mantiene il suo sorriso, arrendevole, sul quale ti devi arrendere. Non ho mai trovato chiusa una porta così socchiusa. Chiusa, perché dallo spiraglio sull’uscio non arriva luce. Non ha disturbi. Sa parlare italiano. E’ come “anoressica”, non parla. Non vuole parlare. Neppure è giusto dire “non vuole parlare”, perché neppure questo vuole. E’ con la sorella in Italia, a Caserta. Il fratello è in Brasile. La mamma, la famiglia è in Brasile. E’ una bambina adottata. Troppo grande per essere adottata e per potersi costituire una memoria che trovi intralcio su un’altra precedente memoria. Si difende così. Neppure più a paura. E’ come insensibile, lei che è così sensibile sostenendosi in quel sorriso. Non ha paura. Ha scritto che non ha paura. E’ stata come travolta dalla paura.

Un bambino di un rione assai difficile di Pozzuoli pure diceva di non avere paura. Non sentiva nulla. Il padre morto ammazzato, la madre in prigione. Chi non ha paura nemmeno più ha un io, nemmeno è sulla soglia che è tra la vita e l’esistenza, tra il desiderio e la paura di vivere e di esistere.

Bisogna imparare ad amare. C’eravamo lasciati lo scorso anno su questo fine. Leggevamo l’aforisma di Nietzsche. Si deve imparare ad amare. L’amore toglie la paura? La trasforma. Questo esercizio di trasformazione dei sentimenti è il solo esercizio d’amore. Bisogna imparare ad amare, ma l’amore non toglie la paura, la trasforma. La paura diventa timore. Un senza timore timorato. Il timore è l’espressione di una relazione di un legame. E’ Agostino che nel suo discorso sulla paura (Discorso 348) parla così dell’amore e del timore. Chi ama dio ha timore di dio. Timor, non metus, avrebbero precisato i latini. Timor. La radice della parola ci porta al greco. Il timore è il rispetto che ha per ciò che si stima, perciò che si venera. Il timore porta la paura a confrontarsi sulla verecondia, sul pudore. Sono queste tonalità di trasformazione della paura che spettano all’amore, all’imparare ad amare.

E tuttavia non basta. Bisogna educare la paura ed educare è un modo di amare. Significa stabilire una relazione che trasforma, una relazione di cammino, di formazione, di trasformazione, di desiderio.

Non bisogna educare con la paura, bisogna educare la paura. Ciò che significa bisogna educarsi alla propria solitudine. A stare da soli. Non isolati. A sentire. A sentirsi. A farsi strumento. A fare del corpo proprio uno strumento di melodia. C’è quel bellissimo aforisma di Nietzsche che parla dell’educazione come melodia quando la singolarità del proprio accento si unisce in armonia ad altri accenti. Il tempo interiore. A questo occorre che ci educhi educando la paura. Non per eliminarla, ma per trasformarla, farla andare incontro al desiderio e insieme consegnarsi all’educazione amorosa. A risuonare in se stessi e insieme. La parola “libera” dalla paura, ma solo se “libera” la paura, se la trasforma da affezione ad affetto, trasformandola in sentimento.

Bisogna donare la propria paura per essere veramente ciò che si è: vivente esistente. Vivendo esistendo. E non per esistere senza vita. Donare la propria paura si può solo abbandonandosi a chi si ama, amando.

Non dobbiamo aver paura o forse no, bisogna aver paura. Ma può la paura essere un bisogno o essere dovuta. A chi devo la mia paura e che ne è della paura che devo rispetto alla paura che ho, rispetto alla paura che mi viene. La puara che mi assale non sarà certo per qualcuno, non la devo a qualcuno. La devo a me stesso. A difendere nella mia esistenza la vita che sono nella vita che ho. Ad essere io. Senza paura si è anche senza io. Il contrario della paura non è il coraggio, il contrario della paura è l’insensibilità. Dentro la paura c’è nascosto un tu devi. Di nessuno. Della vita rivolta all’esistenza. Della vita che ingiunge alla nostra vita di conservarsi, di non perdersi. E non perdendo la nostra vita, assicuriamo l’esistenza della vita stessa nella nostra. C’è questo “devi”, “tu devi” che viene dall’impersonale ingiunzione della vita. Avviene sul nostro corpo ed è del nostro corpo. Un tu devi del corpo alla mente.

Il coraggio non c’è lo ha chi è senza paura, ma chi dona la propria paura a un altro. Stabilendo un legame. Facendo della paura un sentimento. Un affetto. Chi agisce con coraggio, la parola lo dice, agisce con il cuore, lo fa per un altro, per un’altra, sia anche una causa. Chi agisce con il cuore ed ha coraggio, dona la propria paura alla vita. Bisogna trasformare l’affezione in affetto. Dare mondo alla vita e mettere la vita al mondo. Bisogna imparare ad amare, perché l’amore trasforma la paura.

A scuola è così. Si va bene a scuola quando si stabiliscono dei legami, quando si sta bene. Bisogna ripeterlo: si va bene a scuola se si sta bene a scuola. Non si può educare per mezzo della paura, con la paura. Bisogna educare la paura. Stabilire dei legami. L’idea che nella scuola si debba avere “competenza” e “solidarietà” suona come un’ipocrisia, perché sono cose che si oppongono. A meno di non pensarle come si legge nell’Agone Omerico di Nietzsche, dove ognuno dà il meglio di sé non per se stesso, ma per il bene comune, ed è un altro discorso, non meno pericoloso tuttavia, se annienta l’altro che non dà quanto è stato dato da altri. La misura è dare quanto si può, tutto il possibile, la misura è dare l’impossibile che quanto è dato è reso possibile. La misura è rendere possibile l’impossibile, quando si tratta del benessere di ognuno per la felicità di tutti, quando si tratta perciò della comunità sociale di una società comune. E’ questa la misura. E da una tale misura non si può avere la solidarietà, ma il contrario. Si va bene a scuola se si sta bene a scuola. Si va bene e si sta bene, se si educa la paura e non se si educa con la paura.

Aprile 2010

La storia interiore

Gennaio 30, 2015 Posted by Approfondimenti 0 thoughts on “La storia interiore”

Le cose sono andate come sono adesso. La Storia è il racconto che il presente fa del suo Stato. La storia è la narrazione che indica le condizioni e le giustificazioni di come si è costituita una condizione sociale e una forma di governo. Quando si dà un rivolgimento sociale, un mutamento violento delle condizioni, quando si trasforma lo stato delle cose esistenti, cambia anche la narrazione del passato. La storia che incontra la sua verità cambia il presente. La verità si viene sempre a sapere, non è mai saputa. La verità sfugge al sapere che cerca di trattenerla. S’incontra, si viene a sapere, cambiando il racconto di quel che è stato e saputo. Se raccontiamo l’Unità d’Italia per noi delle terre indicate come “meridione” quella storia è stata come la sentiamo, come viviamo adesso. Vogliamo perciò cambiarla, raccontarla diversamente, ciò che è possibile solo cambiando il nostro presente. La storia si racconta a voce, fa parte del proprio corpo, dei propri gesti, dei costumi, degli oggetti che usiamo, delle relazioni. La libertà di un Paese si misura al grado della qualità dei legami sociali. Non posso ricordare senza desiderare. C’è un rapporto tra il desiderio e il ricordo come tra il futuro e il passato. Il tempo è la contesa del presente, si divide, si spartisce. “Temnein” in greco significa “dividere”. Il tempo è la divisione del presente. La divisione dell’attimo. Si fa in due. Curioso è che la lingua latina abbia ereditata la parola “tempo” dal greco, da cui anche “tempio” che è il luogo di confine e divisione tra l’umano e il divino, tra la terra e il cielo. Curioso, perché i Greci intendevano il tempo con altre espressioni, dicendo “Chronos”, “Aion”, “Kairos”, “Exfaines”, indicando in ognuna una modalità di relazione tra l’esistenza e la vita, tra “Fusis” e “Kosmos”. Il tempo ci divide. Ed è come ci dividiamo il tempo che stabiliamo anche le nostre relazioni e legami. I sentimenti sono fatti di tempo. I sentimenti ci dividono. Non posso ricordare senza desiderare. Il desiderio è il ricordo di quel che non è avvenuto in quel che è accaduto. Il desiderio è del presente che reclama al ricordo del passato di raccontare come sarebbe stato. Il desiderio divide in due il ricordo, riporta il passato al futuro.

Non si può insegnare la storia senza il desiderio del presente, non si può apprendere quel che è stato nella ripetizione di una memoria che non si sente sul corpo proprio. In questo tempo, che si dice di precarietà, non ci manca il futuro. Manca il racconto del presente, rimasto senza desiderio. Il futuro è una strana espressione, indica il “fu” in una forma “preformativa”. Indica un passato remoto in avvenire. Il futuro è il racconto che faremo di questo presente come passato. È quello che racconteremo di adesso, di come lo passiamo. Non ci manca il futuro, è questo preesente che non è raccontabile. Ci manca il racconto, ci manca, sì, così, la storia. Questo presente che non è raccontabile. È senza il desiderio del suo racconto. A scuola ci hanno insegnato il “futuro anteriore”. Col tempo ho capito il “futuro interiore”. Il passato e il futuro, diceva Agostino non ci sono, si deve piuttosto dire “presente/passato”, “presente/presente”, “presente/futuro”. Il futuro non c’è, manca, solo per questo il desiderio si può dire “mancanza”, solo perché il desiderio è il futuro interiore. Quel che ci manca ci sta dentro, diversamente non potremmo nominarlo. La mancanza è l’interiorità, è l’intimità, per questo l’amante può dire “mi manchi” mentre parla a chi ama.

La storia è il racconto che il presente fa del suo passato col desiderio del raccontarsi e passare diversamente. Siamo una generazione senza storia, si potrebbe anche chiosare. Il conflitto tra generazioni non è com’è stato. Questo si dovrebbe allora “insegnare” come storia, il racconto di sé, del sentimento che viene a sentire e capire quel che è stato e quel che ci sta intorno. La storia è politica, quando il presente si fa storia, raccontandosi. È però cambiata la storia, non più un solo racconto. La politica ci ha cambiato, dovremmo allora cambiare la politica per raccontare un’altra storia.

Scrivevo di questo nel “giorno della memoria”. Il ricordo non è senza il desiderio che il passato ha del suo futuro. Adesso, al presente. Il ricordo deve valere per noi come il racconto del nostro stato d’animo adesso per quello che vediamo, viviamo, sentiamo del mondo che c’è così come ancora non è, raccogliendo nel ricordo il desiderio di un’altra storia. La storia s’insegna adesso non più con un solo linguaggio e sono molte le storie. I luoghi, i racconti. Le testimonianze. Dovremmo provare, facendo storia, a raccontarci insieme, come si faceva la sera da bambini, quando si ascoltava e si raccontava. La scuola può essere quel momento, giusto perché la scuola è un modo di tessere e apprendere quello proprio, il tempo interiore. La propria storia.

Il metodo che penso debba valere è del dispositivo “Decamerone”, “il racconto dei racconti”, “lu cunto de li conti”. Il “metodo” adesso è questo, ne verrebbe anche un modo di stare insieme. Senza, non vale raccontare la storia così come si sono costituite le cose, bisogna raccontare anche il desiderio nascosto nel ricordo. Ogni cosa che accade porta il desiderio del suo avvenire, di come viene, e di come si “addiventa”. Ogni cosa che accade porta il desiderio come ogni stella che cade, ed è un segreto, bisogna tacere, perché si avveri. Ecco, questo è da disimparare. Il desiderio non deve essere segreto. C’è un rapporto tra mancanza e intimità, raccolto nel segreto. Il desiderio non è mancanza se non perché è interiore e resta segreto. Mancanza, intimità, segreto cospirano. Ogni desiderio è la cospirazione di quel che accade per ciò che avviene. Bisogna liberare la cospirazione in un respiro comune, manifestarlo. C’è un rapporto tra intimità e clandestinità. Non si dichiara, non si racconta, si nasconde. L’intimità è sotto copertura. Eppure l’intimità non è mai dell’essere solo. L’intimità si dà insieme. Non c’è senza lo stare insieme a un altro, a un’altra. L’intimità non è senza amore. Abbandono. L’intimità è senza identità. Bisogna che non sia più clandestina. Bisogna che ci sia una politica dell’intimità. Non perché l’intimità sia pubblica, ma perché sia politica.

Si può insegnare storia non solo per dire come non è stata, ma per dire come sentiamo il presente che viviamo. Non posso dire dello sterminio dei campi di concentramento nazisti senza sentire quel che vedo  a ripeterlo adesso, senza il desiderio di un mondo così come ancora non è. Non posso ricordare senza desiderare.

Insegnerò storia nel prossimo corso, lo farò in una classe particolare, tra ragazze che disiderano una vita diversa. Come racconterò loro la storia? Le inviterò a non separarla dalla propria storia. Il corpo della storia è il proprio. Sono le relazioni, i luoghi. Si può raccontarla come la viviamo, come ci vediamo nelle foto di altri, nei quadri, nei gesti riflessi nelle forme delle cose. Ricordo ancora quel giorno, fui accompagnato nelle stanze di una reggia non ancora aperte a museo. Le sale che si aprivano al passaggio non erano lustrate e astratte, scintillanti di gloria perduta, restavano i gesti, gli echi di voci. I passi. Il “museo” dovrebbe essere la casa dei racconti. La casa delle muse. Quel giorno sono entrato in stanze, dove ho visto i giocattoli dei bambini, i bagni, le cose lasciate. Erano ancora come abitate, come lasciate da poco. Sulle porte c’era l’unto delle mani che le avevano aperte nel tempo. È strano come siano poi gli specchi a ribellarsi ai musei, sottraendosi a quella riduzione del fermo del tempo. Gli specchi invecchiano. Non trattengono i volti che vi si sono affacciati, i movimenti, i gesti, i sorrisi, il compiacimento e la tristezza di un momento, di una figura. Non la trattengono, ma ne portano come le rughe, invecchiano, con quelle loro macchie, come le porte unte dalle mani, come i giocattoli lasciati sul pavimento, come le foto. Bisogna raccontarla la storia. E non separala dalla pedagogia, non asportarla dalla via dalla filosofia, non separarla dal diritto e dalla geometria, non riporla fuori dalla percezione di come siamo adesso. Il tempo è lo specchio opaco in cui continuiamo a rifletterci in tanti volti. Dovremo attraversare lo specchio della storia.

Penso ancora al “Decamerone” come a un metodo. La storia si racconta nella modificazione della lingua, dei modi, dei luoghi, riflessa nelle foto, nei quadri, sugli atlanti di un tempo, sui documenti, sulle lettere, sui costumi, sulle maniere, sul cibo, sulle voci, sui legami, sui sentimenti, sul corpo proprio. La storia del mio Meridione e della Legalità è anche nello scarto di una lingua orale e una lingua scritta, tra quella che è leggibile e quella che non è ascoltata. Non racconterò mai più la storia del Meridione d’Italia e della sua questione, ma quella dell’Italia del Meridione, fuori quetione, liberato dalla clandestinità del segreto della sua intimità. Racconterò la storia del Meridione interiore. Non racconterò l’Unità d’Italia, ma l’Unione di chi abita e parla questa lingua, nel mondo che viviamo insieme. L’Italia del Meridione sarà il Paese come lo esprime la vocazione dei luoghi nelle voci di chi li abita, sarà il desiderio che il Meridine ha dell’Italia, del proprio autonomo contiributo all’Unione. Non più unità geografica, ma unione di di autonomie che si condividono le proprie voci, che si partecipano. La storia è politica e noi abbiamo bisogno del desiderio di una politica dell’intimità, perché non sia più clandestina la gioia di vivere.

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Il divieto della libertà

Gennaio 22, 2015 Posted by Approfondimenti 0 thoughts on “Il divieto della libertà”

Nessuno è libero da solo. La libertà è fatta di legami, ci sono quelli che imprigionano e quelli che liberano. Chi ama è libero, si abbandona. Chi odia non è libero, si ossessiona. Chi ama fa della passione un sentimento di libertà. Il desiderio non si soddisfa come un bisogno. Il desiderio si libera dando qualità al proprio bisogno di vivere. C’è un limite. Ed è ancora il legame a indicarlo. A un amico si può dire tutto fino a quel cosa e come non gli fa male senza rimedio. Il sapere della libertà è sentire. Ed è un diritto non scritto e non scrivibile. È la condizione stessa del diritto scritto, fa scrivere, ma non si scrive. Riguarda l’etica, non si rinchiude in un codice giuridico o deontologico di professione. Riguarda la persona. Per questo è libertà. Il limite è il legame. Il divieto della libertà è nella relazione. Sta nel dovere morale verso se stessi e gli altri. La libertà è comune. Anche l’intimità è un insieme interiore. Non c’è intimità che non sia insieme, nascosto e svelato. Il divieto della libertà è interiore. I Greci della filosofia, si dice, che non abbiano conosciuto i sentimenti. Ci hanno parlato delle virtù segnando quel rimando del Vero, del Bello e del Bene. A misura del carattere. La scuola dei sentimenti è nata con l’Illuminismo, quando si è dato lume alla ragione, indicando l’uscita dallo stato di minorità (Kant) nel processo educativo (Rousseau, Voltaire), in quel tirarsi da, venir fuori dell’“e-ducere” da una condizione selvaggia o di passione sola. I sentimenti si educano. Le passioni si hanno, le emozioni si danno. La libertà si educa. Quando leggo della “rieducazione” per le carceri, faccio fatica a capire. Non penso si debba intendere la scuola della formazione che ripropone la scena del trauma che ha portato all’evasione e alla devianza chi adesso è recluso. Penso alla libertà. Nessuno può apprenderla per iscritto, non si può imparare a memoria, perché la libertà è liberare la memoria che ci fa apprendere. Si conosce nei legami. Le condizioni spiegano le cose, sono poi le relazioni che cambiano condizioni e situazioni. La libertà è come l’arte e la filosofia. Si scrivono senza scriverle. Ci si iscrive nell’arte e nella filosofia. Si è in filosofia, non si fa filosofia. Devi avvertirla dentro. Sentirti insieme. Nessuno è libero da solo. La filosofia è allora educazione alla libertà. L’Europa non è senza la comunità. La libertà è comune. Mi dispiace, io non sono Charlie, fin da quel momento sono stato l’uomo nascosto nell’angolo della tipografia assediata, ero chi faceva la spesa al supermercato, chi era in strada a Parigi quel giorno. Sono stato e sono le bambine usate come mine e fatte esplodere per ammazzare persone che incontro per strada. I martiri non si fanno uccidere per uccidere, i martiri sono quelli che si fanno uccidere per non uccidere. Sono uno che si dispiace. Non sono Charlie o chiunque altro dica quel che vuole da solo. Anche l’ironia ha il suo limite, se è libera. Il divieto della libertà è il dispiacere. Lo stesso che rende capaci di essere felici. Le scene di questo inizio di anno ci riportano a riflettere come il grado di libertà di un Paese si misuri dalla qualità dei propri legami sociali. La libertà è comune, rende comuni. Gli antichi ci hanno lasciato il Vero, il Bello, il Bene, noi vi abbiamo aggiunto la Libertà che li mette in circolo, perché la libertà è un bene, è bella, rende veri. Ci tiene insieme, nell’intima utopia di un diritto che non si esaurisce in un codice, ma rende possibile ogni diritto e ogni scritto. E non per una certezza d’identificazione di quello che si è, ma per quello si può diventare insieme. Anche l’anima è fatta di molte voci. È politica. Corale. La libertà rimanda al libro. Chi legge tanti libri è tanto più libero. Non è così sul piano giuridico. “Libero” era il figlio riconosciuto legalmente, legato alla famiglia. Libero era lo schiavo quando gli si assegnava il nome della famiglia che serviva. Un’identità di proprietà. Il libro era quello dei nomi, dell’anagrafe. Era libero chi vi era iscritto. Non è libero chi è clandestino, senza documenti, senza riconoscimento, senza nome identità. Si può perdere la proprietà dell’identità quando si leggono molti libri e ci iscrive come cittadini di quella città che Ingeborg Bachmann diceva della letteratura dove i nomi delle strade sono quelle di chi ne criteri di passi interiori. Un libro si apre come una porta. Si può trovare un’identità senza proprietà. Erri De Luca lo dice alla finestra del suo libro quando ricorda che affacciandosi vedeva tutto quello che non accadeva e che gli succedeva dentro, “sabotando” ogni acquiescenza all’esistente. Aveva appena chiuso il libro che leggeva e apriva la finestra di quel che gli avveniva dentro a liberarlo. Il dispiacere, penso, che sia il dispiacere a indicare la via della gioia. Nessuno è libero da solo, non si può dire e scrivere quello che si vuole. La libertà è fatta di legami. La libertà è comune. Si sceglie anche una comunità. Le regole senza relazioni sono repressive, cieche. Le relazioni senza regole sono selvagge, violente. Regole e relazioni si fronteggiano fin quando non fanno sentire i legami che liberano le une nelle le altre. La Val di Susa è certo un esempio di uno scarto. Su quella valle si fronteggiano ancora adesso una “comunità” e una “compagnia” che reclama la beffa di un risarcimento per un’opera che non si farà, intendando un “processo d’interesse”. Erri è andato a scriversi dentro un tale scarto tra comunità e compagnia, tra regole e relazioni. Il libro dura, non finisce nella cronaca del giornale, ha un domani, resta aperto dentro, più del giorno dopo, è letteratura, si continua a leggervi il futuro. Per questo le parole di Erri non sono le battute del parlamentare o dell’ironia di un giornale. È diverso. Io non sono Erri, ma sto dalla sua parte. Bisogna leggere tanti più libri per essere liberi. Sentire l’altro che non si conosce, non per farlo diventare uguale o imitarlo. L’empatia è l’esercizio del buon pensante, la “compatia”, e non il compatimento, è forse l’esercizio del pensare bene. Il male è banale, diceva Hannah Arendt, il bene è gratuito allora. Il male si fa, il bene si dà. La libertà è abbandono, un legarsi che è uno sciogliersi, com’è il languore che viene difronte alla fragilità della vita di un bambino. La mia libertà è quello che sento nel dispiacere che mi prende e mi spinge a essere felice, come diceva quell’Illuminista critico, quando ripeteva che non si può separare il fine della propria realizzazione dal fine della felicità degli altri. La libertà è un sentimento. Il suo divieto è il dispiacere. Il suo limite è l’amicizia. L’Europa deve ripensare la sua libertà. La propria identità. Deve ripensare anche quel che fin qui si è chiamata inclusione buona per indicare l’esclusione e la reclusione. Bisogna ripensare i nostri legami. La libertà è fatta di legami, nessuno è libero da solo. Non si contratta la libertà. Il mondo libero non è fatto di spie o di vite di scambio. Quando leggo che contro il terorismo si premia col permesso di soggiorno chi fa delazione capisco che si nega la relazione. E continuo a pensare che è la qualità dei legami sociali che misura il grado di libertà di Paese. I sentimenti si educano. La libertà si educa Sono i legami che ci fanno sentire e liberare.

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La felicità e i legami di libertà

Ottobre 9, 2014 Posted by Approfondimenti 0 thoughts on “La felicità e i legami di libertà”

L’Arte della Felicità compie 10 anni. Entra nella fase dell’adolescenza, la più inquieta, incerta e vera. L’intervento che propongo quest’anno riguarda i legami di separazione. Ogni legame ne è espressione, tiene insieme i separati. Sarà allora da intendere una tale manutenzione, come tenersi per mano, come intendere il gesto della parola come mano che accompagna attraversando un cammino. L’arte della felicità è la stessa del legarsi, del tenersi nelle proprie separazioni, lacerazioni, frammenti. È anche come separasi senza lasciarsi o, che è lo stesso, come lasciarsi senza separarsi. Nessuno è libero da solo: La libertà è fatta di legami. Il grado della di ognuno libertà si misura dalla qualità dei propri legami.

Istituto Italiano Studi Filosofici, 2 ottobre 2014

La felicità e i legami di libertà

Dunque la felicità è un’arte?! Ci ritroviamo ogni anno all’appuntamento di questa manifestazione che avanza a passi di eventi straordinari, con conferenze e azioni che occupano la città, L’arte della felicità appunto. Confesso che è il solo appuntamento al quale arrivo con appunti scritti, che non leggerò, sia bene chiaro, non ne sarò capace, si parla a chi ci si rivolge e che nel suo ascolto suggerisce vie e indicazioni per una strada che si fa insieme. Devo perciò ringraziare Francesca Mauro e Luciano Stella che danno in questi giorni con questa loro manifestazione, un respiro di felicità alla città che ne ha bisogno, ancora di più in un momento in cui viene presa d’assalto d’assalto la sua Amministrazione.

Dunque la felicità è un’arte?! È una domanda ed è un’esclamazione. Non posso distinguere un tono dall’altro. Resto sospeso tra l’esitazione e la convinzione che sia così. Ogni domanda è un’esitazione di risposta. Chi pone una domanda è sempre sul punto di dare una risposta, aspettando che l’altro al quale si rivolge l’accolga e concordi con quel che si ha bisogno di sapere. Ogni domanda è rivolta dapprima a sé, per poi rivolgersi a un altro e ritornare in se stessi a convincersi di quel che s’intendeva o cambiare prospettiva di pensiero. In genere non si è mai pienamente d’accordo con le risposte che vengono dagli altri, si accolgono con stupore o con il verso pensoso del rimuginare, Uhm.

Quindi ancora: la felicità è un’arte?! Diciamo che è l’esclamazione di una domanda o l’arresto improvviso della domanda su se stessa, dovuto alla sorpresa dell’interrogarsi sulla felicità come arte.

Di quale arte allora si parlerà? Si può dire dell’arte del costruire, del dipingere, del navigare, dello scolpire … l’arte rimanda a un sapere e alla sua applicazione, perciò l’arte della felicità è di chi sa cosa è la felicità, conosce le istruzioni di base, i fondamentali, e i modi in cui si realizza quel sapere.

 La facilità del fare e la felicità dell’operare

Noi siamo al tempo delle “app”, anche l’arte è catturata nell’agevolazione delle “app”. Confesso che quando si comincia a usare l’espressione “app”, non capivo che cosa s’intendesse, ne mi permettevo di chiederlo perché si dava per scontato saperlo, e dare per scontato significa che sei non sei fuori tempo, che non stai fuori del mondo com’è attuale adesso. Allora non chiedevo, restavo ai margini del mondo. Poi ho capito, “app” sta per “applicazione”. Magari ci sono pure di quelli “attuali” che non sanno di questo passaggio. Chi lo riconosce può anche lamentare una tale riduzione, che non è solo un’abbreviazione semantica, perché l’“applicazione” che ha tanti significati d’impegno proprio a scoprire, guardare, osservare, esaminare, operare e dare il proprio tempo.

Quale sarà dunque l’“app”, l’agevolazione della felicità. Qui però si afferma subito per via una distinzione. L’“app” facilita. Riguarda il fare. L’arte invece riguarda l’operare. Non possiamo scambiarli. L’arte del medico non è semplicemente fare medicina. Anzi, non basta sapere la medicina, ma bisogna che si sappia “di” medicina, che se ne porti il sapore, la si deve tenere addosso la medicina, viverla, essere medico. Ho conosciuto tanti che laureati in medicina sono invece registi, fotografi, insegnanti. Anche all’università si dice “faccio medicina”, “faccio filosofia”, “faccio ingegneria”, sostenendo gli esami in materia, ma poi certo non si è medico o ingegnere, nemmeno una volta raggiunta la laurea. Bisognerà sostenere altre verifiche e anche allora ci sarà sempre un passaggio nuovo da sostenere. Ci sono poi di quelli che sono medici pur non avendo conseguito il titolo, perché la teneva dentro la medicina già prima come desiderio e attenzione, come studio e passione. L’arte viene quando altri diranno che è uno è proprio un “artista” nel suo mestiere. L’arte reclama la singolarità dell’opera. Anche l’arte della navigazione reclama un artista. L’arte si distingue dal mestiere proprio perché non è un fare abituale, non è banale. Si dice anche di cose che sono fatte a opera d’arte, cioè rispettando perfettamente lo stile di quell’arte come la si attende in opera. Artista è chi esprime uno stile di quell’arte. Dunque anche la felicità come arte dovrà riferirsi all’opera e allo stile, ad un’espressione di sé. Si dice anche dell’attore, che è un’artista e non più semplicemente un interprete di ruoli. Si dice nella nostra città di una persona che è un artista nel suo campo, per dire di un’unicità. L’attore è un artista quando interpreta un personaggio in maniera del tutto singolare, al punto da non lasciar distinguere se stesso da ciò che interpreta ed esprime, né si può confondere con altri. L’artista è solo. Vive anche una strana solitudine. Ci sarà perciò anche la solitudine di chi è felice, vedremo come sarà, se si può dire la solitudine del felice.

Chi è felice è dunque solo? Certo, è felice chi non confonde se stesso con altri ed è indistinguibile da se stesso, chi fa della propria vita un’opera d’arte. Felice è chi avanza nella banalità del quotidiano con un passo danzante dell’animo, chi è strano o come sono per strada le ragazze innamorate che avanzano sorridenti e illuminate in volto o come lo sono i ragazzi innamorati che si abbandonano a gesti stravaganti e goffi quando l’animo in pieno scompone i movimenti del corpo.

L’arte di se stesso

“Impara l’arte e mettila da parte”, si diceva un tempo, come mi faceva ricordare ieri un’amica. Impara l’arte e mettila da parte, perché ti servirà in tempi di difficoltà, quando ci sarà una crisi, quando il bisogno supererà le condizioni di agio. “Impara l’arte e mettila da parte”, si diceva. Ed è un’espressione che suscita qualche irritazione, perché è come ammonire di fare qualcosa che non ti serve adesso, che è senza alcun valore quando tutto va bene, quando stai bene. Devi però impararla ed è quasi una minaccia per i tempi di difficoltà che arriveranno. Quell’arte servirà perciò a badare a se stessi, da soli. Basterà a renderci autonomi, indipendenti, capaci di fare quello che pochi o nessuno saprà. L’arte rimanda a un’autodeterminazione, a un’autodisciplina, rimanda a se stessi, a saper essere se stessi. Ed è felici chi sa essere se stesso?

Ripeto: la facilità del fare non è la felicità dell’operare. Fare le cose facili non basta a dare felicità. L’arte rivela lo scarto tra il fare e il dare. Io non sarò felice quando farò me stesso, ma quando darò me stesso. È una distinzione che riguarda il bene e il male. Ne discutevamo giusto in carcere, a Sulmona. Si parlava del bene. E c’era chi diceva che faceva del bene agli altri, attivandosi a dare aiuto a chi ne aveva bisogno. In carcere si arriva a conoscere il grado zero della condizione umana. In carcere si vive nelle condizioni del male. L’umanità in carcere è perduta. È dentro il carcere ci finisce chi l’umanità propria l’ha smarrita, perduta o mai avuta. Si cerca allora di comportarsi bene e si cerca di fare bene con impegno per ciò che si è perduto e ritrovato, come un cammino che comincia a fare a ritroso, compulsivo, stando sempre allo stesso punto che ha segnato per sempre la propria vita.

Allora, quel giorno, mi è venuto da mettere al centro del nostro dialogo la distinzione tra bene e male. Il bene non si fa, il bene si dà. È il male che si fa. Se si fa il bene c’è qualcosa che porta chi lo riceve a sentirsi nel bisogno, nella difficoltà, e chi lo fa ha una ragione per farlo, nascosta o chiara a se steso, seppure non detta. Il bene non è qualcosa che si fa, si possono fare bene le cose, ma non sempre è bene quello che si fa. Anche il male si può fare bene, ma non è certo bene farlo. È un dialogo difficile questo, perché arriva a un’affermazione decisiva: il male si fa, il bene si dà.

La gratuità del bene

Il male si fa, ci facciamo male e chi fa, comunque attraversa il male. Anche l’amore non si fa, l’amore si dà. Quando si fa l’amore s’intende il rapporto sessuale, si può fare bene o male, ma quel “bene” è avverbiale, non è valoriale. La facilità del fare non è la felicità dell’operare. Fare bene l’amore rende soddisfatto chi pensa di riuscirci, ma dare amore rende innamorato chi lo riceve e chi lo dà. Il dare è proprio dell’operare, il fare è proprio del definire.

Ci facciamo male, il fare come tale passa per le rive del male. Qualunque cosa si faccia, ci sarà del male da spiegare. Il male è banale, anche chi semplicemente lo sospetta in altri è banale. Hannah Arendet lo ha indicato in maniera lapidaria parlando della “banalità del male”. Il male è banale, quotidiano. Banale è quello che fanno tutti e che tutti possono fare. Non c’è nulla d’eccezionale. Diversamente dal bene. Alla banalità del male si oppone la gratuità del bene.

C’è un rapporto tra la gratuità e l’arte. Quell’“impara l’arte e mettila da parte” suggerisce come l’arte sia qualcosa di non utile da subito o d’inutile per sempre. La felicità cade sul versante dell’eccedente. Non si vive di felicità, ma quando si è felici, la vita è più vita. Ecco, siamo su questo giro di gratuito, inutile ed eccedente. L’opera d’arte contiene il gratuito, l’inutile, eccedente. L’arte supera il mestiere, eccede. Non si vive di arte, ma quando la vita è arte diventa un’altra. Non è certo utile l’arte, anzi, non è per nulla necessaria, ma l’opera che ne viene è quel di cui non si può fare a meno. A voler raccogliere come vertice estremo dell’inutile, dell’eccedente e del gratuito è la bellezza.

Col tempo ho imparato che le cose inutili sono importanti, quelle utili sono necessarie, tanto più se rendono possibili quelle importanti. Il rapporto è tra bisogno e desiderio. Il desiderio è inutile, eccede, è anche gratuito. È il desiderio che misura la qualità del soddisfacimento del bisogno. Il desiderio non si soddisfa. Il desiderio si libera. Esprime la libertà. E se, come ripeto spesso, la libertà è fatta di legami e che il grado di libertà di ognuno, come anche di un paese, è dato dalla qualità dei legami personali e sociali, ci saranno legami che imprigionano e legami invece che liberano. Ci sono legami che liberano il proprio desiderio di vivere e sono questi i legami di libertà. Il desiderio non è senza l’altro che lo suscita. Alla fine è l’altro che desiderio Desidero il desiderio dell’altro. Desidero il suo desiderio. Desidero il desiderio attraverso l’altro. La vita, questo desidera la vita. Il desiderio non è più che il sintomo riportato al mondo dell’istinto, fattosi voglia e diventato desiderio, per dirsi amore. Amo il tuo desiderio di vita, quello che susciti in me amandoti, quello che mi fai sentire dentro, sull’animo, “epithumia” come si legge del desiderio nel Filebo.

Non desiderio altro che te, sei tu che mi rendi felice. Nessuno è libero da solo. La libertà è fatta di legami. Anche la felicità è fatta di legami, nessuno è felice da solo, per quanto la libertà ci renda solo, per quanto la felicità ci mette nella solitudine in gioia, la stessa che è dell’artista e della persona libera. Si desidera l’altro per il desiderio che ci suscita il suo desiderare. Ci contagia la vita. Ci porta alla vita nella vita che abbiamo. Il suo farci sentire l’eccedenza della vita che vibra, pulsa e batte in noi come respiro. Alla fine è così: respiriamo le persone, ci sono di quelle che ci tolgo il respiro, che ci soffocano e ci sono di quelle che ci liberano il respiro, ci fanno respirare a pieno animo, sono le stesse che accendono il desiderio e che amiamo. L’arte, la libertà, il legame, la felicità ha a che fare con questo desiderio. Ed è l’eccedente, l’inutile, il gratuito, l’arte.

La scienza felice

Si dice che la felicità dura un momento. Sarà allora come apprendere l’arte del momento, l’arte dell’attimo che rende felici. La lezione di Nietzsche parrebbe un buon viatico a raggiungerla. Contro ogni pessimismo Nietzsche faceva valere il nichilismo come stravolgimento di tutti i valori. All’inizio del suo Zarathustra poneva le tre metamorfosi, del cammello, del leone e del bambino. Il cammello sopporta ogni peso e ogni male, lo carica sulla propria coscienza. Il leone è lo spirito della libertà che tuttavia non riesce ad imporre con proprio coraggio la sua volontà. Il bambino è il “sì” alla terra, il “sì” alla vita. Il bambino non è più animale e non è ancora uomo. I bambini sono i più vicini all’inizio della vita, sanno della gratuità del bene. Il bambino è chi non ha nulla da donare ed è egli stesso un dono. È da qui che inizia il cammino di Zarathustra verso un’interpretazione del sapere che non sia quello consumato del già stato e così deve essere, ma quello che permette di ritrovare il proprio gesto, presente e fungente nell’attimo dell’eternità, senza tempo di durata concesso alla gravità come al fato. La propria volontà è quel che ha deciso lo stesso che non si può rimuovere. Il bambino di Zarathustra è lo stesso bambino di Eraclito che gioca ai dadi e fa svolgere le vicende del mondo a caso.

Nietzsche arriva al suo Zarathustra dopo aver scritto “La scienza felice”, die fröhlische Wissenschaft, richiamando nel sottotitolo la scienza dei cantori provenzali, la “gaia scienza”, che nella traduzione italiana è diventato poi il titolo dell’opera di Nietzsche, facendo perdere quel senso esplicito di “scienza felice”. Bisognerà forse interrogare le sue pagine per capire come la felicità possa essere un sapere o come modificare il nostro sapere per essere felici.

Nietzsche ha inaugurato un percorso ripreso da Heidegger come Foucault e da buona parte della letteratura che cerca di trovare rimedio a una forma di sapere corrente, cercando di decostruirlo o di archiviarlo per giungere ad un pensare che non sia sottomesso ai codici d’istruzione corrente richiamandosi piuttosto all’impensato del sapere.

L’arte è invocata non a caso da Heidegger come da Foucault a trovare vie differenti dal sapere corrente, per usare la pratica di Derrida che si muove anch’egli lungo questa via. L’arte della felicità è l’arte della filosofia, la sua applicazione. La felicità è il fine dell’etica, per quanto si tratta di un’etica posta al di fuori della tradizione dei valori ai quali è stata fin qui consegnata come a dei principi da seguire e perciò prescrittivi per un sapere che arriva dopo come l’esame di un misfatto e la sua costruzione.

Cerco di tenere il percorso di questa riflessione che scrivo qui in forma di appunti ma che è una meditazione che si compone nel silenzio della voce propria. Anche di chi potrà forse leggere queste note.

L’artista è tale quando il suo non è un fare, ma un operare. L’artista non produce, genera. Non riproduce. È un’artista nella singolarità del suo essere quel che è. Nella singolarità del suo stile. L’artista mette in opera. Genera l’opera, che è tale quando sfugge alle sue mani. L’opera d’arte abbandona presto il suo autore, si legge ne “La Genealogia della Morale” di Nietzsche. L’opera d’arte abbandona presto i suo autore. L’artista resta incredulo davanti alla sua opera. Non saprebbe riprodurla. Contende l’arte con la materia che lavora e che si lascia guidare o fa ostacolo alle sue mani e ai suoi pensieri, procurando inattese e improvvise deviazioni. L’artista è chi si compromette con la vita, come in amore gli amanti si contendono il primato di chi ama di più l’altro, lungo quell’inseguimento dell’“io di più” C’è una strana solitudine in chi ama veramente. La solitudine della gioia. Il non riuscire a dire quello che prova, facendo l’esperienza dell’inciampo della parola che non riesce a dare suono alle emozioni del corpo proprio. L’artista resta incredulo davanti alla sua opera, è singolare, non può riprodurla. Prova a dominarla dicendoci non soddisfatto della sua realizzazione. Mente. È così, certo, ma non è vero. L’artista si trova di fronte alla sua opera come a qualcosa che non sa ripetere, non la sa fare.

Il non artista può farlo, perché si affida a quel modello, non riesce a liberare il desiderio che pure trattiene in sé dell’arte. Chi riproduce scambia il proprio desiderio dell’opera, lo scambia, lo sbiadisce, sostituendo il pericolo dell’incerto avanzare che ogni desiderio apre alla quiete riproduzione del già fatto. Chi copia perde il suo desiderio nell’altro, non desidera l’altro che è del desiderio nell’altro che lo suscita. Il desiderio si libera. S’incontra nell’altro, anche nell’opera che gli si fa innanzi come impropria, sua e non di sé. Chi sa riprodurre, non conosce il sapere del desiderio.

È il testo a denunciarlo, è la materia, sono i colori e i toni a manifestare il furto d’opera. Eppure noi viviamo in un tempo del “copia e incolla”, dove finanche i documenti di amministrazioni e compiti si riproducono da altri spegnendo il desiderio della singolarità del proprio esprimersi, perdendo, in nome della facilità del fare, la felicità dell’operare. Noi scambiamo il facile con il felice, anche l’amore facile viene scambiato per quello felice. Non siamo autori di noi stessi, non generiamo noi stessi quello che siamo. Bisogna porre anche qui l’attenzione sulla questione della cosiddetta mancanza di futuro, del conflitto tra generazioni e delle identità di genere. Il genere si dà nella singolarità della persona che lo esprime. Il genere uomo è nella singolarità della sua espressione individuale che trova conferma della sua generalità. Lo steso per una donna come di ogni altra identità di genere che è tale nella singolarità di chi l’esprime. Voglio pensare, nella felicità di chi l’esprime.

Proprio e improprio

Dunque la felicità è un’arte, quella di fare di se stessi un’opera. La singolarità di un genere. Il punto adesso è questo, se l’opera d’arte abbandona presto il suo autore, gli si dà come impossibile, anche a diventare di sé un’opera ci si trova abbandonati da se stessi. L’artista fa quello che per altri è impossibile, ma nel momento in cui opera l’impossibile lo rende possibilità nell’eccezionalità della propria singolarità. Bisogna riflettere sulla singolarità dell’artista che non è individualismo o egoismo, anzi sono queste le malattie dell’artista quando non è più in grado di generare. Ci sono di quelli che compiuta un’opera non riesco più ad operare, si fermano, restano nell’incapacità di dare vita a una nuova opera, e spesso perché non riesco a liberarsi del suo abbandono, ne fanno una proprietà, ne restano prigionieri per proprietà di ciò che non vuole essere proprio. È una lotta interiore, difficile.

La singolarità è un’eccezione tale che rende impropri a se stessi. Se l’opera abbandona il proprio autore, anche la singolarità di se stesso abbandona il proprio sé. Mettiamo il caso di un’artista del gioco del calcio come Maradona, la sua opera non è più di sé, ma di ognuno, di tutti, dell’ammirazione che ne viene nell’assoluta singolarità della sua espressione. Singolarità e gratuità si corrispondono. Si ritrovano nella gratuità del bene e nella singolarità dell’opera.

Che importa del signor Nietzsche si legge nella prefazione alla Scienza felice di Nietzsche. Non importa il signor Nietzsche, importa l’opera, quella che si esalta, in noi stessi alla sua lettura. Nietzsche è il nome di un’opera. Un corpo scritto e vivente in ogni lettura che lo fa vivere in un altro. Chi legge comprendendo il testo avverte questo corpo a corpo con il testo. È troppo banale, cioè fa male, distinguere il sentimento dal sintomo, come il segno dal significante. I sentimenti sono espressione del corpo che è nell’anima. Questa inversione, il corpo nell’anima, dovremmo cominciare a capire per giungere all’arte della felicità. Chi è felice sente il proprio corpo come nell’anima.

Il proprio e l’improprio, allora. Il corpo ed io. Il mio corpo e io che non lo vedo ma che mi sento vivere in esso. Es denkt, si legge in “Al di là del bene e del male”, es denkt, non io penso e non ich denke, non io penso. Il corpo è l’es. Almeno è il corpo il campo e il testo su cui “si” scrive. “corpo” non è che il significante di “esso” che è significante di qualcosa d’impersonale. Per paradosso posso scrivere che “es” è personale dell’impersonale, il proprio dell’improprio. L’es è il pronome personale dell’impersonale “si”. Tutto si da in questa identificazione del proprio dell’improprio. Ci muoviamo in questa significazione costante quando cerchiamo di sapere, fino al punto in cui si arriva a questo crocevia e ci si trova tra l’“es” e il “si”, tra il corpo proprio che è improprio che siamo e abbiamo. Voglio anticipare subito un passaggio: è felice chi arriva a unire l’es e il “si” nel “sì” esclamativo della gioia. C’è da riflettere in chi dice “Sì”. Di sicuro chi è felice dice “Sì” senza che sia rivolto a questa o quella cosa, ma “si dà” veramente, interamente, in quel momento. Accade anche in quel “ha detto sì” dicendo della persona che accettato di custodire il proprio desiderio d’amore. Lo si dice anche di un figlio. “Sì”, pronunciato in un grido prolungato dai ragazzi è l’espressione della gioia del desiderio liberato quando accade quel che si pensava non potesse succedere. È il “sì” fiero di vita.

Attenzione, l’opera d’arte è questa compromissione di corpo a corpo, quello interiore e quello esteriore, se si vuole dire così, da una faccia alla altra, quella della vita e del mondo. Il corpo è giuridico, identificativo, significante, ma corpo io sono come tutto è corpo che si muove e si agita ed è vita. Corpo io sono come vivente. Il corpo è proprio solo quando è morto, rispose una ragazza quando richiedevo di rispondere in aula alla domanda di quando il corpo è proprio. Ed è così, il corpo è proprio solo quando è morto, diventa simplice significante, si riduce a nome, cognome e data. Allora è solo proprio, non è più proprio e improprio. Ha perduto il rapporto con la vita che è nell’improprio della sconosciutezza, della riduzione a mondo. Penso in questi casi all’opera del mio Husserl che ha provato a intendere la riduzione fenomenologica non come la riduzione della vita la mondo coi suoi significati, ma una riconduzione del mondo alla vita. Resterà sempre un mio maestro per questo. Il suo fu il tentativo di attingere al mondo della vita, al mondo nella vita.

Il corpo è proprio solo quanto è morto, solo quando resta solo. Anche un amore muore quando resta solo proprio, senza l’improprio che viene dall’altra, dall’altro.

Perduto, abbandonato. Come opera. Non sapremo mai abbastanza dell’opera della vita se siamo noi a generarla o se siamo noi stessi a esserne generati, essendo opera di un artista che abbiamo abbandonato. Usiamo dire “creazione” riferendoci al mondo come creato da parte di un dio. La creazione la diciamo ugualmente per l’arte. Se dunque l’opera d’arte abbandona il suo autore, anche il creato ha abbandonato dio, il mondo è degli uomini che ne fanno parte e che devono essere, a propria volta, artisti, interpreti, di questa creazione. Bisogna ritornare al divino. Si ritorna al divino quando “si” crea. L’opera è quel che non ci aspettava che venisse e che quando viene è quello di cui non si può fare a meno. “Opus” in latino indica le cose necessarie. E ancora indichiamo con “opus” romano quell’ordine di costruzione di mura a reticolo che hanno insieme la forza del sostenere e la bellezza dell’operare. “Opus est” ci hanno insegnato a scuola: “è necessario” era la traduzione.

Certo l’uomo crea dio a propria immagine, ma prima c’è stata quest’altra creazione, la gratuità della vita di cui siamo, e il nostro “creare” artistico deve tenere conto di questa creazione, restituirla con la propria, in un corpo a corpo, in un vita a vita, la propria che si ha e l’impropria che si è.

Il vero e l’intero

L’arte della felicità è la filosofia. Quella che chiede di un altro sapere, che sta in mezzo, affacciato sull’abisso che si apre tra il mondo e la vita.

Il sapere che pratichiamo è postumo, arriva dopo, come sul luogo del delitto arriva dopo l’ispezione giudiziaria che certifica l’accaduto, dopo il fatto. Questa riduzione del vero al fatto curva il sapere alla certezza, gli perdere la verità. Non è sapere vero. Perché sia tale diceva il buon Hegel deve essere intero. Il vero è l’intero. Già, come essere interamente se stessi, come essere intero in un intero di cui si è parte e in cui si perde la parte, l’esserne parte, per ricavare un’appartenenza che è giuridica. Il corpo, il corpo proprio è un elemento d’identificazione giuridica o è qualcosa di non identificabile se non come vita. Accidenti questo è il punto di volta. L’altro, il corpo che mi viene incontro, tu che abbraccio, sei la vita che abbraccio e vedo, una vita nella vita, che abbraccio e sento di essere parte e di volerti interamente per volermi interamente, per vivere, per essere felice. Bisogno smettere di essere un corpo e diventare vita. Anche morire è vivere, muore il corpo si legge nel Filebo, non la vita che viene in un altro corpo ed è in altri corpi ed è qui che siamo.

Possedere

In carcere non vedo corpi d’identificazione, vedo una vita e un’altra e ancora una vita nella vita ridotta senza esistenza e che aspetta un altro mondo, un altro sapere, non perduto, che non arrivi dopo la battuta, dopo che si è perduto. I significati sono il nostro ritardo sulle cose, arrivano dopo. L’amore vero lo sappiamo quando è perduto. Allora come sapere veramente senza, sapendo, perdere che vogliamo trattenere? Non trattenerlo. Un sapere che non trattiene. Un sapere che si restituisce. Voglio ricordare Gugliemo di Scampia. Ci siamo risentiti dopo anni passati dal nostro corso di Scampia. Mi ha cercato, mi ha detto che si mi riconosceva come persona per quello che avevo detto in quel corso, che il sapere è un possesso senza proprietà, non va tenuto per sé, stretto o esibito, va restituito a chi non lo ha avuto o lo ha perduto.

A Scampia mi sono trovato non senza irritazione, corrucciato e indignato, quando ho letto quella frase sul muro delle due palazzine poste all’uscita della stazione della metropolitana e che fanno da colonne alla fine di palazzine del primo viale. Si legge, su una in italiano e sull’altra in inglese, che “basta crederci e trovi un mare di bene a Scampia”, “basta”, ma “bisogna” crederci perché di certo non c’è il “mare” e nemmeno il bene è da crederci, se non c’è. Più avanti sul colonnato del vialone detto della Resistenza si trova l’altra frase “se la felicità non vedi, cercala dentro”. Lo trovo offensivo per chi è costretto a vivere tra cementi e vialoni di controllo e di cronaca non felice. Il fatto è che poi mi trova a riflettere che la storia della felicità è anche quella della solitudine e del rifugio in se stessi. Il fine dell’etica in fondo è ritornare in se stessi, mettersi a riparo nel proprio Ethos, Sé. E l’etica viene all’attenzione, così la felicità, in tempo di crisi di benessere, che quando c’è pochi ne parlano o ne sentono l’esigenza.

Mi sono chiesto perché i filosofi insistessero sulla “conoscenza di sé” e sulla “cura di se stesso”. La stessa irritazione mi si è presentata quando ho preso a leggere per quest’occasione un libro di Shopenhauer. Non è un filosofo che rientra nelle mie preferenze di studio. Il testo è sulla saggezza della vita e inizia a parlare della felicità. Individua tre distinzione l’essere, l’avere, l’apparire. Afferma che la felicità si ha solo in se stessi. In fondo è la distinzione di sempre che attraversa la storia della felicità come dell’etica a partire dalla fine della filosofia come costruzione di mondo e di vita che si propone sul piano dell’organizzazione sociale e personale della vita comune. Nessuno è libero da solo. La libertà è fatta di legami. Anche la felicità è fatta di legami, nessuno è felice da solo.

Posso intendere allora quella distinzione tra essere, avere, apparire, tra ciò che uno è, tra ciò che uno è e quello che rappresenta, solo in ragione del mio, del di me, dell’altro. Penso alla distinzione dell’essere proprio, dell’essere per altro, dell’essere di altro o per altri. L’avere è l’espressione della proprietà, il rappresentare lo è del ruolo, il proprio è dell’in sé. Vale qui la distinzione che vale per l’amore come possesso senza proprietà. Così il sapere è un possesso senza proprietà. Tu sei mia non di me. Sei mia come neppure tu sai di essere, non sei però di me come una proprietà. Sei mia come non sai di essere. Sei la mia sconosciuta come tu non sai e non conosci come sei in me. L’amore porta questo filtro di sconociutezza che rileva il proprio e l’improprio del sé in se stesso. Siamo vita e abbiamo vita, la vita che siamo è impropria, vita come dei viventi tutti. Abbiamo vita come la propria, delle nostre scelte e progetti, è la propria esistenza. La distinzione tra vita ed esistenza è presente in tutte le lingue europee.

Tu sei la mia sconosciuta, come la vita è sconosciuta nella mia esistenza. Quante volte chi si ama dice all’altra all’altro, tu non mi conosci proprio. Tu sei la mia sconosciuta, chi va venire all’animo, sull’anima, epithumia, il desiderio.

Il vero e il velo

Come allora diventa quello che si è. Questa la domanda di Nietzche. Wie man wird was man ist, come si diventa quello che si è. Sarà questo il principio dell’arte della felicità, come essere opera, come diventare opera d’arte. Come dunque riuscire a diventare quello che si è. Cosa? È chiaro adesso: come riuscire a diventare sconosciuti a se stessi. Come amare veramente chi si ama senza farne una proprietà, senza varcare la banalità dell’appropriazione e della violenza. Come mantenere questa sconosciutezza. Come nel legame mantenere la separazione. Come amandoti non sai tu stessa come sei in me che ti amo. Mia, in me, non di me. Non so chi sei tu in te, tua. L’amore vero porta una tale sconosciutezza, perché sfugge al sapere che codifica cose e significati. Il vero amore pone un velo tra gli amanti. La verità è relazione. Non è, come si dice, dietro il velo. Il vero è il velo. Il vero fa velo di ciò che si vuole sapere. Fa velo, protegge nel non poter sapere quel che si vuole sapere. C’è un rapporto tra il desiderio e la verità. L’una si fa relazione dell’altro. È il modo in cui si esprime il desiderio, che si può dire di “volere veramente” qualcosa. Il desiderio non si soddisfa, si libera. Non si fa postumo, non resta soddisfatto, non è come il sapere che giunge dopo e si fa postumo di ciò che sa, catturandolo e imprigionando in un significato. Il desiderio si libera, stabilisce un rapporto di libertà, chi desidera libera il proprio desiderio nell’altro, stabilisce una relazione di libertà e di vita. Una libertà vera. Un sapere vero. Lo stesso che io so di chi amo veramente come mai potrà sapere chi sia e che sento chi amo. Il vero è il velo. La verità si viene sempre a sapere, quando però è saputa sfugge al sapere che la cattura. La verità in prigione rende liberi nell’innocenza. Ed è innocenza la verità. Non certo quella oggettiva o relativa, ma la propria, quella intima, facendo etimo del proprio sentire, viene dal thumos, dall’animo. L’anima è il corpo rovesciato, com’è da dentro. Non si vede e sfugge ad ogni autopsia, sfugge al proprio sguardo. Sfugge al sapere. La verità non è mai certa. L’amore vero è senza certezza alcuna, anche l’amicizia vera è senza certezza, anche la propria verità. Anche l’essere proprio. Non si lascia sapere, sfugge, diviene, si dice anche. Quella domanda di come diventare quel che si è ritorna nel domandarsi come essere vero.

L’artista sa del proprio non sapere come avviene la creazione dell’opera. Sa che l’opera d’arte, che viene alle sue mani, l’abbandona. È sua, non di sé. Chi ama veramente sa di questo scarto tra il possesso e la proprietà. Sa del desiderio e della solitudine del desiderio come della solitudine del felice. L’artista è amante. Il vero artista è il vero amante.

Il velo del vero rende sconosciuto chi si ama. Non so come sei, quel che dico amore vero e quel che è vero di ogni relazione, di ciò che provo veramente in ogni relazione non quel che la relazione è come cosa significata. Nessuno sa come ti amo veramente, neppure tu amo lo saprai mai. Non si può mai sapere, perché sempre viene sempre al sapere che procede su corpi di significati, che ferma, ratifica, archivia. I significati si giustificano alla trasmissione, poi pero vanno rivissuti per essere compresi. Il sapere si trasmette, la verità invece si prova. Il sapere è certo quel che è stato provato, è saputo, ma poi si prova a propria volta e non si può sapere quel che si viene a sapere. Così Platone parlava nel Sofista dell’essere, dicendo che quelli che ci hanno preceduto e che gli hanno dato un significato, non si sono poi preoccupati di noi che seguivamo e che non riusciamo a sapere la verità di quel che hanno saputo. In quel dialogo si legge che dobbiamo “provarlo” noi direttamente. Dobbiamo farne esperienza, si potrebbe dire, se non fosse che il termine usato da Platone è “paschein”, dobbiamo averne passione. Patirlo no, se non come sentirne la passione, provarlo, sentirlo. Senza farne una proprietà, senza cadere nella raccolta di quel che altri hanno saputo e lasciato. Noi dobbiamo certo raccogliere quel che è caduto nel sapere di quanto ci hanno preceduto, siamo sulle loro tracce, ma continuiamo poi un cammino, lasciando a nostra volta altre tracce di sapere, altri segni scritti, che altri capiranno veramente solo facendoli propri. In un possesso senza proprietà. Innamorati. In amore e in verità, in amicizia e verità. In relazione di verità. Non sarà come squarciare il velo. Il vero è il velo. Mi viene da pensare anche al Cristo velato, è una scultura, come sapete, si trova in questa città. Il Cristo è però velato non da un velo visibile, perché il velo del vero non è che si possa prendere tra le mani e dire ecco è fatto di questa materia. La materia del vero è il sentire e i sentimenti sono fatti di tempo. Quel velo è invisibile, il Cristo è velato del suo operato, è la sua opera il velo del vero del suo essere quel che è.

Il bene che rivela la bellezza

Quale dunque i velo del vero? Entra adesso nella composizione dell’opera dell’artista e della creazione dell’amante. La verità dell’opera, la verità della creazione, l’artista è amante e l’amante è artista. Il desiderio, il vero, il velo è lo stesso. Che cosa muove e vuole l’amante e l’artista? Si può rispondere: la bellezza. La felicità stessa è bella. La bellezza è felice. Ci stiamo allora meglio avvicinando all’arte della felicità. La stessa della bellezza, dell’artista e dell’amante. Forse chi è felice ama e crea, è un artista e un amante insieme. La bellezza dunque. Non c’è niente di più separato da noi che la bellezza. Separa. La bellezza è separazione. Il bello non che il tremendo al suo inizio si legge nella seconda Elegia di Rilke. Giusto all’inizio. Il bello non che il tremendo al suo inizio. La bellezza separa. La bellezza è divina. Si stacca, si separa da tutto il resto, diventa irraggiungibile al proprio sguardo che la mira. La bellezza è un pazzia, disse Lorenzo nel corso di bambini in filosofia. La bellezza è una pazzia, dura fin quando la trattieni. Poi sfugge, come la verità. Stanca addirittura, si può affermare. Eppure è la bellezza che suscita il desiderio e l’audacia di soddisfarlo. Chi la cattura e ne fa una proprietà ne resta prigioniero e perde la libertà. L’artista può diventare vittima della bellezza dell’opera quando la vuole tutta per sé. Così l’amante, resta prigioniero della bellezza di chi ama quando la pretende come sua proprietà.

Platone, ancora, nel Simposio dice della bellezza come esposizione dell’educazione amorosa. C’è però quel passaggio assai inquieto quando Diotima chiede a Socrate a che gli uomini desiderano la bellezza. Per averla per sé, risponde Socrate. Diotima però incalza, gli chiede ancora perché, a che pro gli uomini desiderano la bellezza per sé. Qui Socrate resta basito. Non sa rispondere. Lo confessa. Diotima allora dice di rispondergli sostituendo la domanda. Invece della bellezza può rispondere del bene. A che gli uomini desiderano il bene. Ecco, Socrate su questo sa rispondere, aprendo il varco al passaggio che arriva a fare strada all’educazione amoroso. Il bene è conservare la vita, generare. Qui posso aggiungere come noi che siamo mortali siamo capaci di parole eterne. Ecco noi che sia finiti possiamo generare e conservare a questo modo la vita, secondo un’immagine mobile dell’eternità, come si leggerà nel Timeo.

Diotima vela così l’arcano del bello. La bellezza è divina, il bene è umano. La bellezza sfiorisce senza il bene. Al punto che il bene rivela la bellezza custodendola. Noi dobbiamo pensare che chi ama svela nel bene il bello invisibile di ciò e di chi ama. La bellezza si rivela nel bene. Si vela del vero del bene. Pensate a quelle città in Europa che hanno una sola cosa bella e che ci costruiscono intorno tanta attenzione e tanto bene che la rivela quella bellezza, le danno velo, la rendono anche intoccabile. Pensate invece alla nostra città che di bellezza ne ha tanta, bellezza divina, bellezza natura, ma che intorno non le si costruisce il bene, non la si custodisce, la si violenta e perde.

Il bene è gratuito, dicevo, il male è banale. Alla banalità del male si oppone la gratuità del bene. Il male si fa, il bene si dà. Bisogna darsi nel bene. Il bene è un dono che lega al bellezza, che lo rende appunto gratuito. È il nodo del dono. Un legame di libertà. Il bene è il legame della bellezza. È separata la bellezza. Se dico di amarti sei bella e sei sconosciuta non riuscirò mai a sanare e soddisfare il desiderio, sarò pero libero, continuerò a desiderarti, desidero la vita che il tuo desiderio mi suscita riempendo di vita la mia esistenza. Il desiderio non è — come si dice — “mancanza”, se non quando si svuota l’esistenza che quando ama si riempi di vita nel bene di chi si ama. L’arte della felicità è quest’arte del bene che custodisce il bello, dando velo di vero a quel che si verrà sempre a sapere e non sarà mai saputo, come la vita. La felicità è come la libertà che viene dal desiderio. Nessuno è libero da solo, la libertà è fatta di legami. Anche chi è felice non lo è da solo, la felicità è fatta di legami. Quello più importante di cui ogni altro è significante è il legame tra il mondo e la vita. Quello tra la vita che si ha e la vita che si è. La vita è bella quando l’esistenza nel bene la rende tale. La vita è bella quando il mondo la rende bella, quando il mondo è buono ed è bene vivere.

L’arte della felicità è la stessa della libertà. È la stessa che rende l’artista amante e l’amante artista. Libera il desiderio nel vero del velo che dice di un sapere che non arriva dopo, ma che vive nella sconosciutezza della vita. Sul sacrario della vita, sul confine tra il mondo e la vita. Alla fine si può chiudere dicendo che l‘arte della felicità è mettere al mondo la vita e dare vita al mondo. La felicità non si deve raggiungere, bisogna preservarla. È la vita.

Disattendere i poteri

Settembre 17, 2014 Posted by Approfondimenti 0 thoughts on “Disattendere i poteri”

2011.01.16 Genova

Intervento di Giuseppe Ferraro al Convegno “Disattendere i poteri – Pratiche in movimento – Sguardi filosofici” tenuto a Genova il 16 gennaio 2011 al Palazzo Ducale su iniziativa di Comunità San Benedetto al Porto di Genova in collaborazione con Centro di Ricerca sull’Indagine Filosofica.

Convegno, Genova 2011

Il luogo comune della prossimità

Settembre 17, 2014 Posted by Approfondimenti 0 thoughts on “Il luogo comune della prossimità”

Desiderio e bisogno

Le cose inutili sono quelle importanti, quelle utili sono necessarie, tanto più tali se rendono possibili quelle importanti. E come nel rapporto tra necessità e libertà. Noi in fondo ci occupiamo delle cose per le quali non c’è tempo, non c’è finanziamento, non c’è cura. Chi opera nel volontariato cammina sul ghiaccio della indifferenza. Lo apre. Incontra le persone nella singolarità del loro mondo. Chi fa volontariato tesse nodi di doni, unisce mondi differenti, genera le mappe del bene comune. Le cose utili, certo, sono necessarie, ma senza l’inutile carezza vera di una mano, senza la voce di una parola vera, la necessità è un rifiuto della libertà.

Non si può dire di un uomo che è reale se non ha un ideale di umanità. Sarà come cosa che cade, che accade, non sarà come chi vive per esistere in un mondo felice. La parola è la mano che si dà nella cura della vicinanza, dove c’è sofferenza provata, vissuta, inferta e subita. La parola avvicina, fa mondo, restituisce vita.

Le cose utili rispondono al bisogno, quelle inutili al desiderio, ma è solo questo, il desiderio, che stabilisce il grado di qualità della soddisfazione di un bisogno. Quando allora necessario diventa il desiderio, anche il bisogno diventa importante. Chi fa volontariato conosce questo passaggio, lo vive. Pratica un’economia interiore. Le cose che arrivano dalla volontà, vengono dal sogno di cui la vita ha bisogno per esistere felice. È come stiamo al mondo che è il mondo sta bene o male, felice o infelice. Siamo in mondo dove la crisi si coniuga al crimine, lasciando la critica resta senza ragione. La realtà è fatta di sentimenti, che poi sono le risonanze del nostro starci accanto. È come si è vicini che si è nel mondo che abitiamo. La prossimità è vicinanza.

Essere in prossimità significa trovarsi vicini a una metà, in raggiungimento del fine. Lo si intravede, si avvicina. Si può così essere in prossimità dell’arrivo di un viaggio. In prossimità del ritorno. Si è prossimi a quello che si sente. La prossimità è un sentimento rivolto a quel che si avvicina, che non si conosce, che sia ha dentro, si aspetta e non si sa come verrà, ci stupirà, ci darà più di quel che abbiamo pensato venisse, talora meno, solo per dare nuova spinta a raggiungerlo. Arriva dentro. Si ha quel che si da e quel. Be si riceve è un dono inatteso. La prossimità si coniuga allo sconosciuto, al non ancora venuto. Prossimo è il vicino, colui al un ti avvicini, ti cammina a fianco ed è prossimo, quando si rivela nella voce, quando ci si parla.

Toccare, risuonare

La mia esperienza è con i detenuti. Posso dire che è la stessa di ognuno che fa volontariato. Quando mi dicono che cosa fai portando la filosofia in carcere, dicono che ci tocchiamo, diciamo cose che ci toccano. Lo spiego meglio facendo la distinzione delle cose vere e delle cose certe. Da bambini, a scuola c’è un momento in cui s’impara ad imparare. Non è più il dettato o la copia e la lettura che c’insegnano. Arriva un momento che segna il passaggio dell’educazione a scuola. È quando la maestra ci spiega la differenza delle cose astratte e concrete. Nemmeno la maestra riesce a trovare modo ed esempio per la spiegazione di quella differenza. Quando poi si va a casa a completare il compito su quella distinzione, anche i genitori perdevano la linea di definizione. La maestra allora spiegava che le cose concrete sono quelle che si toccano e che le cose astratte sono quelle che non si toccano. Da bambino persi il cielo quel giorno. Altri rimasero e altri rimarranno increduli a dovere capire che ci sono cose che non si toccano, imparano forse la nostalgia o chiameranno dopo con questo sentimento l’intoccabile. I bambini toccano tutto. È difficile per loro intendere quella spiegazione. Poi ecco che magari qualche giorno dopo, quella stessa settimana, i genitori gli diranno che andranno a casa dei nonni e là non si tocca nulla. Il bambino capirà ancora meno la distinzione per una casa astratta. In realtà quella spiegazione è l’educazione alla proprietà. Quello che è tuo puoi toccarlo, quello che non è tuo non devi toccarlo.

Da grandi poi si comprende quell’altra distinzione, tra le cose certe e le cose vere. Quelle certe di toccano, quelle vere ti toccano. Così quando diciamo dell’amore vero e della vera amicizia, così quando diciamo del capire veramente qualcosa, del vivere veramente qualcosa. Capiamo che in quel “vero” è il proprio, il risuonare di quel che ci tocca e ci viene in contro. La prossimità è già una parola che risuona, è risonanza. Quando mi chiedono cosa facciamo tenendo corsi di filosofia coi detenuti, rispondo che ci tocchiamo, risuoniamo di quel che vero, lo sentiamo, la comprendiamo come nessun altro potrebbe capire, perché l’assoluto è singolare. A chi chiedesse a un giovane che è nel volontariato che cosa fa nella sua pratica, potrebbe sentirsi la risposta di quel “lo tocca”. Quando vedo la notte chi porta calore al barbone, chi lascia la coperta e il cibo a chi è caduto dall’altra parte del mondo, capisco che lo fa perché gli tocca, scambia la sua felicità interiore con la sofferenza dell’altro, lo rende felice prendendosi la sua sofferenza, ma come per valore la sofferenza vissuta e la felicità data non si scambiano di posto, ma si mischiano all’incontro. Il dolore è ancora amore. Chi non ama nemmeno prova dolore per ciò che si smarrisce e perde cadendo via dal mondo. Chi opera di volontariato acquisisce una memoria di ricordi, sono nodi di doni. Chi dona sente ritirarsi all’istante la sua mano, perché il dono è come ciò che non gli appartiene, è dell’altro, avuto altrove, una restituzione di quel che è come di nessuno e di ognuno, la vita intera, semplice, pura, la vita di nessuno, viene da dietro il mondo, reclama di esistere, viene fuori, cerca nel mondo la custodia, il suo riparo, l’etica dovette essere questo un tempo ed è solo questo ancora, dare mondo alla vita.

 Vistiti di prossimità

La prossimità si vive addosso. Ne senti la gioia quando è la prossimità di una festa, ne senti l’ansia quando è la prossimità di un esame, anche il sentirsi ad agio o inebriato quando la vicinanza è al mare o al montagna che si preferisce. La prossimità è la sensibilità. La senti addosso. Non è una misura di spazio o di tempo che possa essere calcolata con strumenti e passi, la prossimità è dello spazio e del tempo interiore, cammina dentro gli spazi infiniti dell’animo. La prossimità è l’altro che la attiva, indica sempre quel che tocca di uno a un altro, di sé e dell’altro. Senza si resta soli, quando si sente dentro non porta confusione. Fa sentire sé dall’altro, non essere l’altro. La prossimità è il “quasi” di ogni relazione che dice della distanza invisibile e della differenza impercettibile dall’altro. Così un padre potrà essere “quasi” amico del figlio, ma “senza” essere amico perdendo la funzione paterna. Così, la maestra è “quasi” madre del bambino, ma non può essergli madre senza perdere la sua azione insegnante. Così anche un amico è “quasi” fratello e senza esserlo. Il “quasi” si dà allora nel “come”, nell’essere “come” l’altro, “con” l’altro. “Comis” in latino si dice dell’essere “cortese”, gioioso”, in altre lingue latine indica l’essere “impegnato”. Ed è l’essere “come” l’altro un impegno di se stessi. La prossimità in questo modo dice dell’empatia. Del sentirsi come l’altro, vicino. Non lo stesso, ma “quasi”. L’empatia non potrà mai dire di sé e dell’altro come uno, ma di una singolarità accanto a un’altra. La prossimità è come diceva il filosofo, Nietzsche, il nostro starci accanto cogliendo una differenza, quella ci permette di non confondere, quella che ci permette di capire l’altro da dentro, come quel che viene, come quel che inventa il nostro essere come siamo. L’altro inventa il mio animo, mi viene incontro, mi tocca dentro, mi fa sentire come sono, quasi come sento e sono. Io Altro. Proprio e improprio. Questo scarto interiore è la prossimità.

 Legami di separazione

In questo scarto colgo una separazione e un legame. Lego me stesso all’altro, legandomi a quel che sento proprio e non è proprio, resta improprio. Qualcosa che capisco dentro me stesso quando dialogo, quando cerco un legame dentro me stesso, sentendo una separazione, dentro. Siamo vita e abbiamo vita. Questa la separazione che ogni legame mantiene e fa sentire. Siamo vita come viventi e abbiamo vita come esistenti. La vita che siamo ci è impropria, è la stessa di ogni altro vivente. La che abbiamo invece è nostro, propria, sono le nostre scelte, i progetti, le cose che ci procuriamo. Ci sono due forme di cura che si avvicendano in questa separazione. Ogni lingua europea la sostiene, il greco dice “zoe” e “bios”. In italiano si dice “vita” ed “esistenza”. Non sempre stanno insieme, se non per un legame, per la persona che amiamo, per la quale diciamo “sei tutta la mia vita” e che ci “riempie” l’esistenza di vita e senza sentiamo che resta vuota. La felicità è l’esistenza piena di vita. La sentiamo in ogni legame che ci restituisce la vita e il mondo insieme. Ogni legame è significante di quello più importante che lega la vita all’esistenza. Ne fa sentire la prossimità. Sono i legami di prossimità che significano quello più importante di esistenza e vita in ognuno. Ogni legame dice di una separazione. Ogni prossimità dice della presenza dell’altro, di un’altra, di altro. Così come si è prossimi a un altro mondo nella prossimità di un altro che viene, di un’altra.

Nodi di doni, l’esistenza e la vita

 Ogni legame dice della separazione che mantiene. Legarsi è mantenere la separazione. Senza, arriva la confusione cui segue la delusione. Ogni legame mantiene la separazione, la tiene. Legarsi è dare manutenzione al rapporto di esistenza e vita, del mondo e della vita. Tenerli insieme è la prossimità dell’altro che viene, dell’altra che viene ed è, perché ogni essere è venuto al mondo, al nostro mondo. L’essere ha nel venire il suo cammino, la sua origine smarrita che si ritrova sono nell’altro che l’accoglie.

C’è la gratuità nel dono. C’è gratuità in ogni legame che si nodo di dono. Si lega restando sciolto. Sono i legami di libertà. Nessuno è libero da solo. La libertà è fatta di legami. Il grado della propria libertà è dato dalla qualità dei propri legami. Anche un paese, come l’Italia, è libero al grado della qualità dei legami sociali. Quanto maggiore è la qualità dei legami sociali tanto maggiore è la libertà di un paese. Il grado di democrazia si misura dai legami di libertà.

L’umano è gratuità nella prossimità. Un gesto che si dice “umano” è anche gratuito, senza interesse alcuno. La gratuità è nell’emergenza. L’umano emerge. Si dà nell’emergenza del bene. L’emergenza è il pericolo, lo stato in cui si rompe il legame tra la vita e l’esistenza. Allora l’umano emerge, perché il bene che si dà è nell’emergenza, quel che emerge. Il bene si dà, il male si fa. Nel darsi del bene non c’è un fare strumentale. Viene. Si sente dentro. Viene da dentro, come l’altro viene da fuori. Chi è nella vita e chi nel mondo non è dato identificare se non in un’identificazione che scambia l’uno e l’altro, come ogni amante è amato e ogni amato e amante. Può accade che ci sia una rottura, che l’amato non sia amante e che l’amante non sia amato. Allora bisogna essere l’uno e l’altro nel pieno dell’amore che si prova per l’altro. Essere amato dell’amore che si porta all’altro, perché chi ama è amato dall’amore che gli viene per l’altro dall’altro che lo fa venire in se stessi. Anche la terra lambita dall’onda del mare non è mare, ma sa del sale dell’acqua che la bagna, ne è impregnata.

La prossimità dice di tutto questo. Dice della gratuita, perché l’umano è gratuito, come l’amore è gratuito. Si fa dono della vita. È inutile, perché è importante e rende necessario quel che è utile. La prossimità è l’uso dell’umano. L’uso di sé nell’altro e dell’altro in se stessi. Non c’è utile senza l’altro, non c’è inutile senza sé. È quando allora ci si sente “inutili” che bisogna essere se stessi, andare dall’altro, venire a sé dall’altro, perché lo Stesso che compie il Sé è il ritorno che l’io fa dentro come “se stesso”. Si ritorna sempre dall’altro, dall’altra. Da chi viene.

Basta un gesto, non sapremo nemmeno cosa varrà per un altro. Non lo sapremo mai. L’altro è il nostro non sapere di quel che sappiamo, l’altro è la nostra solitudine. La prossimità conosce questa solitudine. Chi è nel volontariato la conosce più di altri. La nostra volontà è sola, quando è volontà di vivere.

Economia della prossimità

Senza questa premessa la prossimità diventa una misura, un calcolo sbagliato. Bisogna pensarla come l’economia della volontà di vivere, come economia del desiderio che dà qualità al bisogno. L’organizzazione del bene è l’espressione di un’economia che risponde al crimine della crisi. L’impresa sociale risponde al crimine della crisi di una cancellazione dello stato sociale. La spending review, la revisione di spesa di questi anni ha sostituito l’espressione del welfare, dello stato sociale. Invece di una revisione di spesa rappresenta un taglio di spesa, un prosciugamento progressivo della funzione sociale dello stato, dell’assistenza come della prossimità ai cittadini. Lo Stato è lontano, distante. L’istituzionale e il sociale sono lontani. La misura maggiore è della scuola per la quale la distanza del curriculo istituzionale è distante dalla vita sociale. Ed è una distanza resa ancora maggiore quando si vuole che la scuola sia legata al lavoro. Ciò significa che nella crisi dell’economia post industriale si vuole fare della scuola una fabbrica, come già accade per l’università e per gli studi che devono espressione d’innovazione essi stessi inseguendo un futuro che si allontana e un presente che è assente. Sono i giovani che non hanno futuro a mantenere nel presente il legame tra il mondo e la vita. Allora ecco le imprese sociali. Sono quelle che prendono il posto dello stato sociale e devono potersi moltiplicare sui territori facendo economia di comunità ciò che s’intende anche dicendo economia di prossimità.

Le associazioni di volontariato rispondono ha questa esigenza di mancanza dello stato sociale, ma non posso sostituirlo, non posso farlo. Deve poter essere altro proprio in ragione di una economia della prossimità che è il contrario di una economia della proprietà. Non è questione di dispendio, si tratta di un’operosità diversa. Fuori della proprietà e fuori dalla produzione, fuori dalla formazione. L’economia della prossimità è generativa. È quella che genera legame, quello più importante di portare la vita al mondo e dare mondo alla vita.

Comunità sociale e società comune

Lo Stato, da troppi anni ormai, non è lo Stato Nazione. Non è data Una Comunità d’appartenenza in cui riconoscersi per nascita. È cambiata la stessa portata della relazione di comunità e società. Lo Stato ha a che fare con più comunità, deve garantire adesso la società delle comunità. Il “male” delle nostre terre, l’Italia del Meridione, può diventare il “bene” da ritrovare. La cultura dell’Italia del Meridione è fatta di comunità che non sempre trovano espressione di società, perdendosi in forme “associazioni” devianti. Questo “male” deve cambiarsi nel bene. Lo Stato è chiamato a garantire il rapporto tra società e comunità, questa la sua funzione istituzionale. La crisi è di una distanza tra società e comunità. Il volontariato, quello che si chiama terzo settore è chiamato a mettere in rapporto società e comunità. È chiamato a istituire imprese sociali di comunità. Le associazioni di volontariato devono diventare delle comunità esse stesse, in una prossimità costante di società e comunità, senza confondere l’una con l’altra, facendosi prossime di altre imprese sociali comuni.

Il compito è di attivare una società comune in una comunità sociale. È un’economia interiore per una comunità interiore di cui sola è capace la prossimità di generare. Si tratta di un’altra economia quella che non distingue l’utile dall’inutile perché non sia distinto il bene come materiale d’uso e proprietà dal bene come valore di prossimità senza proprietà. La distinzione non è tra materiale e immateriale, perché una tale distinzione nell’uso che se ne è dato ha reso l’immateriale ancora più materiale, facendo del desiderio un prodotto da acquistare in rete.

L’economia della prossimità è senza proprietà. Il suo principio è la restituzione. Bisogna restituire come dell’altro quel che si sente propriamente di sé. È la restituzione della vita. È un’economia non produttiva, ma generativa di una società comune per una comunità sociale.

 Il disagio della volontà, governare l’esistenza

Non vivere secondo le attese, ma secondo gli incontri. La comunità sociale è l’esposizione di una comunità interiore. Il volontariato in Italia ha sostituito non solo lo stato sociale che si è prosciugato nel corso degli anni, ma ha sostituito anche la contestazione politica e l’agire conseguente che reclamava dalle istituzioni ciò che esse già non potevano più promettere. Si trattava di agire per un’attesa che si sapeva già delusa, per cui l’agire politica si chiudeva su se stesso. Il terzo settore è stato il canale che si è voluto offrire all’agire politico sociale e spontaneo. La diffusione dell’associazionismo per un verso ha richiamato su un piano istituzionale dal basso, venuto dall’emergenza che si è strutturato come servizio non governativo ovvero non istituzionale ma sociale. Accanto a questo è rimasto il volontariato di movimento che si diffuso per luoghi e non per associazioni, identificandosi nei locali occupati piuttosto che nelle associazioni strutturate. La dimensione politica è presente e assente in un caso come nell’altro. Ciò che risponde ad una nuova forma politica di partecipazione diretta. Se la prossimità indica l’essere vicini ad un mondo diverso dentro quello esistente, anche la politica ne partecipa e diventa politica della prossimità. Ancora una volta politica di prossimità a una società comune per una comunità sociale. Tante comunità sociali per una società comune.

Se vale il “postliminio”, la ripresa in modo diverso della dimensione politica di partecipazione, al fondo è la condizione esistenziale di volontarietà che la sostiene. Una condizione esistenziale che trova nella precarietà la propria dannazione e la leva della propria esposizione. Chi è nel volontariato deve lottare contro se stesso e contro l’indifferenza della ordinaria quotidianità. Da una parte la contrarietà interiore e dall’altra la condizione reale. Di nuovo bisogna intendere è reale solo l’uomo che ha un ideale, diversamente non può chiamarsi vera l’umanità che ci si attribuisce.

Il disagio della volontà e nell’accettazione della sua impresa. Accettazione di sé e accoglienza dell’altro stanno insieme, l’una rende l’altra possibile in uno scambio di incontro inatteso. La possibilità che ne viene è la possibilità dell’impossibile, di ciò che non si poteva prevedere e calcolare. Le cose vere sono così. Sono impossibili. Bisogna fare l’impossibile perché siamo siano possibili. A sostegno viene quella che si dice “self reliance”, quella fiducia di relazione a sé, che è impossibile senza la prossimità, senza l’altro, l’altra della prossimità.

La volontà buona non è tale per ciò che essa fa e ottiene, … ma solo per il volere, in se stessa;… anche se il suo maggior sforzo non approdasse a nulla ed essa restasse una pura e semplice buona volontà […], essa brillerebbe di luce propria come un gioiello, come qualcosa che ha in sé il suo pieno valore. L’utilità e l’inutilità non possono né accrescere né diminuire questo valore. (I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi)

Il dolore

Febbraio 5, 2014 Posted by Approfondimenti 0 thoughts on “Il dolore”

Forse è come per l’amore. A farne un discorso non bisogna essere innamorati, né trovarsi sotto l’eccitazione dell’alcool, ubriachi, come lo sono gli innamorati quando si parlano d’amore. Questa condizione Platone pose a principio del Simposio. A fare discorsi d’amore bisogna essere sobri. Forse è così anche per il dolore. Si può tenerne un discorso solo se non si è addolorati. Dopo, quando è finito o quando sia stato solo vissuto nell’esperienza dell’altro.

Il rimando poi all’amore non appaia così strano. L’amore è il contrario del dolore, non il piacere, che pure vi si rimanda. Si può anche affermare che l’amore si oppone al dolore e l’accompagna. Il piacere anche ne è intricato ed è piuttosto una sensazione, il dolore invece è l’una e l’altro, indica una sensazione ed è un sentimento. Certo l’amore è piuttosto una passione e solo nelle relazioni dative si precisa nella molteplicità degli affetti che vanno dall’amicizia all’amor proprio. Il dolore non è una passione, eppure si patisce. Al punto che si può anche affermare che sia una flessione della passione.

I Greci distinguevano tra algia, lupeh, ponos e pathos. Precisavano il dolore fisico, la sofferenza, la pena e la passione. Anche il tedesco distingue tra Weh, Schmerz e Leiden. L’italiano indica l’aver male e il patire, il soffrire, lasciando al dolore di dire tutto quanto, il male e la sofferenza. I Greci facevano risalire il pathos e i pathemata al paschein. Strana espressione questa che dal greco fa rimbalzare all’ebraico, almeno nell’assonanza, e avvicina il dolore alla pasqua, cioè al passaggio. Dire perciò pasqua di passione significa ripetere questo nesso tra il passare e la passione. Quasi che la passione non sia un subire, ma un passare intransitivo e perciò interiore.

Il dolore è proprio del passare, di ciò che passa, di ciò che si passa, quasi uno stare tra, parte a parte, tra il bene e il male, dentro la via, nell’immanenza del Bene e del Male. Un trascorrere sospeso. Si può voler bene nel dolore e si può dare dolore anche a voler bene. Lo si conferma quando si risponde all’altro “si, mi ami, ma non sai amare”. Con l’espressione non si allude certo ad un sapere amare come ad un percorso preciso di pratiche ed espressioni, si allude invece ad un sapere che non fa male. Quando si ripete “mi ami, ma non mi sai amare” s’intende “il tuo amare mi fa male, mi da dolore”.

E’ curioso constatare come il dolore indichi una sensazione e un sentimento. Segno che quel passaggio di cui è esperienza si possa indicare come passaggio dai sensi ai sentimenti, dal corpo all’anima, verrebbe da dire, una sensazione dentro la sensazione, perciò sentimento e, ancora, un sentimento dentro un sentimento. Comunque è un passare che passa dentro. Il dolore è immanente. Dice di quel che rimane, che si tiene mantiene dentro. Che immane, si manifesta dentro. Un passare interiore. Un mutamento che si mantiene, conservandosi. Un passare che resta. Rimane. Ne resta traccia. E per i sentimenti, è noto, le tracce sono piuttosto solchi, tratturi dell’animo, di cui i segni del corpo sono un’espressione.

Il dolore ha a che fare più direttamente con i segni. Si dice anche di qualcuno che è “segnato dal dolore” quando si vuole indicare una persona che abbia, appunto, attraversato un momento difficile, chi ha sofferto. I segni si può anche dire sono indici di dolore, incidono. La gioia no, non lascia segni, la gioia toglie ogni segno. Non insegna nulla. Il dolore invece insegna. Cosa che vale per la sensazione quanto per il sentimento. Il dolore insegna a sentire. Fa sapere.

Ed è questo forse l’altro aspetto del passare. Sapere. Lo si acquisisce con dolore. Pensiamo al dolore dell’educazione, al dolore dell’imparare. Pensiamo anche a quel detto “meglio non sapere”. Meglio non far conoscere. Perché far sapere o sapere è tradire e tradirsi, contraddirsi, perché sapere fa male. A riferirne ci si accorge che il rapporto tra dolore e sapere è davvero strano, non certo lineare nella comprensione del suo rimando. Il sapere si tiene lontano dal dolore, lo supera, lo vince, lo prova, lo tiene a distanza, lo cancella, lo elimina, eppure è là, per quanto si voglia non saperne. Saper essere è nella tradizione della cultura maschile lo stesso del saper vincere il dolore, nel saperlo sopportare. Nel saperlo non manifestare. Così scopriamo subito che è qui nascosta una questione che sa di rimozione e che attiene allo sviluppo e alla strutturazione della coscienza, almeno di quel che si intende per “saper essere”. Il rapporto tra sapere e dolore è tale che il sapere tiene a distanza il dolore, lo spiega, lo giustifica, se ne da ragione, lo supera, lo sublima, lo elimina. Viene perciò immediato chiedersi se ci possa essere un rapporto tra sapere e dolore che non sia di eliminazione e superamento, qualcosa che chiama subito in questione l’ordine del discorso, non solo, ma anche l’ordine delle relazione che ne dipendono.

Sarà allora “meglio non sapere” o un sapere che abbia nel dolore il proprio limite e non un superamento da conquistare?

Si fa subito innanzi in questo caso l’inganno e il tradimento, l’illusione, quel continuo scartare il dolore su cui si definiscono le relazioni a sé e all’altro. Sempre condotte sul piano di una deviazione che arriva fino alla devianza, che passa dal piano psichico al piano giuridico. Il tradimento è ancora accompagnato dal dolore. La verità, si dice, è dolorosa. Cerchiamo allora di prendere il senso più da vicino. Cerchiamo di capire anche perché il sapere sia talvolta, non sempre doloroso, e sempre porta ad un passaggio, ad uno spostamento. Sarà anche per questo che ci si assesta su un sapere codificato, sarà anche per questo che ci si chiude in un “non voler sapere”, in un “non voler sentire ragioni” per restare chiusi nel proprio sapere, per “non voler sapere altro”, per “non volerne sapere dell’altro”. Di non accettare altro. Ed è ancora più strano questo passare del sapere che è come un andare avanti che procede a ritroso o come un salire che è un discendere. Approfondire è andare più addentro. Più si apprende e più ci s’incaverna o si va a fondo. Il problema è po’ risalire o capire se c’è un’apertura di luce oltre, un altro fondo, un’altra caverna. Sarà vero quel che diceva il filosofo della trasvalutazione dei valori quando ripeteva che dietro una caverna c’è ancora un’altra caverna e così a seguire. Si potrà anche affermare che ogni caverna o andare a fondo è strutturata dal sapere in modo tale per cui è nel modo di sapere che si compone il fondo e la caverna su cu arriviamo e stiamo.

Ci sono due passaggi, questa volta letterari, nel Sophista di Platone. Entrambi rimandano ad un passare che è un apprendere e un mutare. Lo si trova all’inizio, credo che sia il passo, più ripetuto nella letteratura filosofica, là dove si legge che gli antichi, quelli che ci hanno preceduto non hanno avuto rispetto per noi che seguivamo, perché non ci hanno spiegato che cosa intendessero veramente quando parlavano dell’essere e quando lo richiamavano usando espressioni che ci appaiono immaginose. Nel testo si legge che questo significa che dobbiamo imparare da noi stessi che cosa sia essere, dobbiamo sperimentarlo, dobbiamo provarlo, dobbiamo passarci noi stessi, dobbiamo “paschein”. Platone è ancora più espressivo quando nomina il pathos del filosofo di fronte all’essere quando si tratta di indicarlo con un precisa definizione. Alla fine più che la definizione sarà il luogo che per esso viene raggiunto dal filosofo distinguendolo dal sofista. E quel luogo sarà caratterizzato dal “lampron”, dallo splendore e sarà una regione, una “chora”, più che un luogo definito. Una terra.

Viene da chiedersi se non sia questa il dolore del filosofo, il sentimento che s’accompagna al passaggio del suo sapere, che non sarà mai una scoperta quanto piuttosto un venire allo scoperto. Non sarà mai l’identificazione di una cosa, ma quella identificazioni per cui la cosa e l’identificarla si annullano scoprendo il dolore del vivente come tale. Il malessere, il dolore dell’essere.

IL Sophista di Platone è tra i dialoghi quello in cui forse ricorre con più insistenza il richiamo al dolore e alla ricerca di una via “eneu toon pthematoon” in cui sia possibile riuscire a sapere di per sé i nomi delle cose e i rapporti degli enti fuori da quelle favole raccontate da altri a noi come a dei bambini. Crescere è doloro. E ancora siamo rimandati a un passare, a un sapere che è un passare da una cosa a altra cosa nel mentre siamo noi stessi a passare da un essere ad un altro essere, da una condizione ad un’altra. Questa correlazione tra passare e sapere è tale da porre di per se stessa la domanda sul saper passare.

Stare nel passaggio, essere di passaggio. E non ritornare. I filosofi, questo è straordinario, hanno cercato un ritorno impossibile. Lo hanno trovato là dove proprio poteva esserci. Lo hanno trovato nello stare. Hanno pensato il ritorno del momento, dell’attimo, di ciò che del tempo è l’espressione, lo hanno rinvenuto nel passare. Questa straordinaria meraviglia della filosofia è l’espressione di un ritornare là dove mai si è stati prima, un ritornare di ciò che non ritorna mai. In tal senso il ritorno è il familiare, il familiarizzare, l’abitare l’essere, abitarlo nella casa del tempo.

Non c’è maggior dolore del tempo che passa e che passando corrompe, delude, spegne, fa morire, allontana. Mi sono chiesto tante volte quale fosse del tempo il suo passare. Mi sono chiesto tante volte come noi passiamo il tempo. E come possa alleviare, se mai possibile, il dolore che rimane del suo passare.

I modi per dire il passare sono tanti.

Percorre un tratto o lo spazio che separa due luoghi.

Transitare, muoversi, viaggiare, soggiornare, andare oltre, superare, eccedere, trasferire, mutare, essere promosso,, trascorre.

Trasferire, strofinare, accettare, promuovere.

Morire.

Passare è anche morire. Ma come passa poi il tempo che pure a passarlo si dice trascorrerlo, correrlo attraverso. Chiedere ancora di come passare il tempo significherà anche trovare come passare, doppiarlo, stargli avanti, superarlo.

Viene sempre in mente Nietzsche, presente fin dalle prime battute di questo discorso che ha preso per titolo il dolore nel bene e nel male. Non si può pensare a Nietzsche di “Al di là del bene e del male” anche al di là del dolore, al di là del tempo, al di là del sentimento del dolore e del sapere e di là del passare.

In fondo il dolore è dentro il bene e dentro il male. Sta tra l’uno e l’altro il suo trascorrere e passare. E’ il tempo, ed è fatto di tempo. Non passa mai il dolore eppure passa solo col tempo e col tempo anche finisce. Il dolore mette allo scoperto, come una ferita l’essere finito. «Tutto ciò che è finito, – ha scritto Leopardi – ultimo, desta dolore, ma insieme le parole che indicano il finito per sempre sono poeticissime e  provocano un sentimento piacevole nello stesso dolore».

In fondo le parole stanno al tempo come il sentire alla sua grammatica. Le parole sono il grammo del tempo, danno peso al suo fluire. Gli danno un ritmo interiore, tramano il suo passare. Ed è per questo che Leopardi poteva anche scrivere che il dolore «anche quello più profondissimo e ostinatissimo è vinto, consolato dal tempo».

La cura del dolore è la consolazione. E certo si potrà affermare che consolare sia dare corso al tempo, sia conciliare il tempo e la parola, come a far scorrere il tempo nello scorrere del dire. Consolare è anche intrattenere, promuovere una sorta di trattamento del tempo di fermarlo e farlo scorrere insieme. All’infinito. In un infinito intrattenersi, che non è un intrattenersi all’infinito, ma nell’infinito, in quel che non finisce. Come si potrebbe affermare che pensasse Blanchot. Le parole che consolano sono poi quelle che stanno vicino. Non importa cosa dicono, importa il loro fluire. Stanno dentro al bene e dentro male, fanno bene e fanno male. Chi soffre e ha vicino colui che lo consola sa che sta fingendo e finge di non saperlo. Sa che è inutile. E perciò ne apprende l’importanza.

Affligge certo saperlo e insieme anche allevia, perché le parole non dicono nulla, quando il dolore è estremo, fanno compagnia, stanno vicino. Chiunque lo ha provato nelle sere dimesse della vita quotidiana e affaccendata, quasi non le ricordiamo e non se le ricorda chi ne soffriva. Attendeva. Nel dolore si attende, si aspetta che finisca. Ma è un attendere nulla, puro attendere, semplice svuotamento dell’attenzione spinta nella distrazione della parola che ti fa stare vicino a chi parla e dice parole finite ma ridondanti, parla e dice la sua voce. Parla e dice della vita, del vivente, del voler vivere di nessuna vita che non sia la semplice vita. Allora ci si sente uomini e animali. Si è animali nella consapevolezza del passare e del non appartenere a quel passare, solo di esserci dentro, nel bene e nel male. L’animale non lo avrà mai ricordato. Perché l’animale è ancora natura, ne fa parte. La sua esistenza coincide con la vita. L’uomo invece se la rappresenta e per ciò stesso se ne separa. Così l’esistenza di ognuno si separa dalla vita e cerca di viver/la. Sarà il dolore a separare la vita propria della vita impropria, la vita che si ha come esistenti dalla vita che si è come viventi :Quando l’una è piena dell’altra, si è felici. Sarà allora questa congiunzione da operare o piuttosto da tenere. Il dolore ci separa. Da tutto il resto e in noi stessi ed il fatto di un tale separarsi.

Eppure ce lo nascondiamo. Leopardi e Nietzsche hanno ripetuto, in modo del tutto differente, come si sia dato questo progressivo nascondere del dolore, come cioè nel primitivo e nell’antico il dolore trovasse la manifestazione che non trova adesso. Forse perché prevaleva il manifestare, mentre poi col moderno prevale il dichiarare. E chi vorrebbe dichiarare il proprio dolore senza venirne offeso dalla sua stessa ammissione, davanti ad altri. I Greci, o quel che dei Greci immaginiamo sia stato, ebbero questo manifestare. Ebbero i fenomeni, non le rappresentazioni. La tragedia non rappresentava. Indicava il dolore come manifestazione stessa del divino e come veniva anche restituito al divino, al suo enigma. Al nascosto. E noi che siamo in un mondo dove tutto appare siamo senza la manifestazione del dolore. Vediamo tutto, i corpi, vediamo lo strazio, nomiamo la disabilità o il diversamente abile per nascondere il dolore. Noi che viviamo in una società che nasconde il lutto e non sa essere neppure malinconica. Vediamo tutto senza manifestare nulla. Meno che mai il dolore.

Eppure sarebbe questo un limite per la ragione che ha smarrito il proprio limite illuministico che si rappresentava nell’esperienza. Non riusciamo più a distingue il possibile e l’impossibile, anzi, sappiamo che il possibile è ciò che può accadere, ma l’impossibile, lo sappiamo, è quel che accade. Non c’è limite. Solo il dolore può farsi limite. La sua manifestazione. Il suo diritto.

Lo comprendiamo in qualche modo nella conoscenza e nell’educazione. Quel dolore, che è ancora un passaggio dal sapere a non, che è l’educarsi stesso al saper passare, il conoscere stesso a saper passare, quel dolore lo conosciamo e lo proviamo, come un compito, una fatica, che finita produce i suoi effetti.

Quale gioia allora potrà opporsi al dolore che non gli appartenga? Quale gioia e quale amore che non sia, che non resti nel bene e nel male che procura?

Cosa possiamo chiedere alla filosofia? Quale passaggio? Quale trasformazione? Ed è per una tale richiesta che la filosofia si avvicina e si allontana dalla medicina. Chi cura è dentro la malattia. Non fuori di essa, né avrà la malattia ad oggetto della sua osservazione, né mai saprà distinguere il bene e il male come due parti separati. Questo farà la differenza di guarigione filosofica. Essere in vita. Non sanare o salvare. Essere in vita nella vita.

«Nessun dolore potrà indurmi a una falsa testimonianza contro la vita», ha scritto Nietzsche. Si può affermare che l’abbia scritto a firma del suo non pessimismo, del suo nichilismo attivo, come si dice o, semplicemente, a firma della sua testimonianza per la vita.

Quella “interpretazione del corpo” come la chiamava produce un suo annullamento, per una idealizzazione, per un ammonimento morale, per un agire stoico. «Non ci sentiamo abbastanza male per doverci sentire male alla maniera stoica» ripeteva nel mentre premetteva le sue istruzioni di una nuova salute o di una gaia scienza, di una scienza felice.

«… abbastanza spesso mi sono chiesto se la filosofia, in un calcolo complessivo, non sia stata fino ad oggi soltanto una interpretazione del corpo e un fraintendimento del corpo. Dietro i supremi giudizi di valore, da cui fino ad oggi è stata guidata la storia del pensiero, sono nascosti fraintendimenti della condizione corporea sia da parte di individui che di classi e di razze intere.»

Qui il corpo non è semplicemente il corpo, è una vita immanente alla vita. Semplice vita. Ne porta i segni del passare e su di essi scriviamo ancora facendone un corpo scritto di una memoria che la vita non avrà mai, perché rinasce somigliando, non ricordando. Il corpo porta la memoria nella somiglianza. Così la vita somiglia alla vita, una vita somiglia a un’altra vita. Senza per questo ricordarla, ma risuonandone. Nella voce.

«Sono ancora in attesa che un filosofo medico, nel senso eccezionale della parola, – inteso al problema della salute collettiva di un popolo, di un’epoca, di una razza, dell’umanità – abbia in futuro il coraggio di portare al culmine il mio sospetto e di osare questa affermazione: in ogni filosofare non si è trattato per nulla, fino ad oggi, di “verità”, ma di qualcos’altro, come salute, avvenire, sviluppo, potenza, vita…»

Ma forse, si potrà anche affermare, che per avvenire e sviluppo e potenza non si è trattato propriamente della vita, ma della propria vita, di un individuo, di un popolo, di una razza. Sarà perciò da continuare ad ascoltare le parole di Nietzsche ancora di più dove insiste sul sospetto. Ed essere anche noi sospettosi delle sue parole, non delle sue parole, piuttosto sospettosi della nostra vita, cioè della nostra esistenza. Nietzsche è stato chiaro quando ha affermato che è il dolore che ci rende sospettosi. «Il grande dolore soltanto è l’estremo liberatore dello spirito, in quanto esso è il maestro del grande sospetto» e la sua azione è quella di trasformare ogni U, scriveva, in una X, nella penultima lettera dell’alfabeto. La penultima, perché ne rimanga sempre ancora una come ultima. Un resto, che dice la vita stessa che resta.

Si può essere malati di dolore, ci si può ammalare di dolore.

Eppure c’è un rapporto tra vergogna e dolore, c’è un rapporto irrisolto. Perché togliere il dolore?

Se non si può parlare, se non si può scrivere il dolore, se chi ha dolore non può dirlo, che cosa noi diciamo vicini al dolore. Questa funzione di vicinanza della parola, questa funzione di soglia, mette la parola tra il mondo e la vita. Tra la vita che si ha e la vita che si è.

(trascrizione dell’intervento presso l’Istituto Italiano degli Studi Filosofici)

Partitura di gruppo sui testi di Nietzsche – II

Ottobre 19, 2013 Posted by Approfondimenti 0 thoughts on “Partitura di gruppo sui testi di Nietzsche – II”

La potenza di ciascuno potrebbe consistere nell’essere in grado di agire in funzione del desiderio, non di soddisfarlo, ma di ottenerne sempre uno nuovo che possa sfociare tanto nella tristezza quanto nella letizia. Insieme, troverebbero un equilibrio vitale, senza il quale la mente non riuscirebbe a “riscoprire” soluzioni creative. Il desiderio che nasce dalla letizia, a parità di condizioni, è più forte che non il desiderio che nasce dalla tristezza. La dimostrazione mi convince, ma spesso la mia esperienza mi ha detto altro. Gruppo di alcolisti anomali. Gestisce l’intensità sulla linea della memoria del corpo. Cosa può fare per stare presso se stesso. Senza memoria e senza desiderio. La memoria del corpo è la felicità del desiderio disambiguato dall’oggetto e che non fa oggetto l’oggetto. Il connubio spinoziano tra mente e corpo è qualcosa che, a mio parere, si ha paura di raggiungere; la razionalità è qualcosa che blocca l’uomo e gli impedisce l’ascolto del proprio corpo. Tale connubio si allontanerà esponenzialmente, almeno questo credo, poiché la scissione tra mente e corpo è un caposaldo della nostra esistenza e l’inglobare informazioni a livello razionale, piuttosto che entrare in contatto, di pancia, con ciò che accade intorno a noi, è sempre più comune. Ho bisogno di comprendere se per corroborare il mio essere è necessario influenzare l’altrui essere imponendo la propria ragione, oppure è meglio farsi inglobare da altri esseri che reputo utili. Conservare se stessi o conservare gli altri? E’ una negazione o forse un antidoto alla pulsione di morte. Il passaggio dall’impotenza alla potenza implica una conoscenza di sé e del proprio corpo. Il desiderio non nasce dalla mancanza, ma è perseveranza del proprio essere. E’ volontà di potenza. E forse il passaggio dalla tristezza alla letizia, dall’impotenza alla potenza, non è possibile senza il commercio con le cose esterne, senza le relazioni. Eppure è così difficile pensare che ci sia un’unica energia, che l’autodistruzione non sia una tendenza, che non sia “ragione” poiché contrasta la natura umana. Vorrei accogliere e liberare la capacità più profonda di vita e di gioia, che avverto ancora impastata in tanti pensieri, desideri vincolati a obiettivi sociali. Manca – per me – la letizia come stato profondo, non solo legata a cose e persone. Manca la drammaticità del passaggio dall’impotenza alle esperienze e affetti di letizia. Mi è venuto in mente per tutto il discorso un pensiero che volutamente, proprio perché volevo scriverlo, non ho detto: noi non riusciamo a capire il nostro corpo. Non è la prima volta che ci penso, l’ho pensato quando cercavo la causa della mia tristezza. “ Non riesco a capire il mio corpo”. E questo forse è l’esercizio fondamentale di cui parla Spinoza, l’utile, la convenienza alla propria natura, al proprio corpo, al proprio appartenersi ed esserci nel mondo. Non bisogna dimenticare cosa può il nostro corpo.