Ricordo il sogno di Adorno. Lo lessi nel suo ultimo libro. Diceva che era ricorrente, sognava di essere, vivendo, il desiderio di vivere di quanti erano morti ad Auschwitz. Il ricordo è come il sogno che è ricordo ancora. Si confondo. La memoria è doppio fondo. In ogni ricordo ritorna quello che è accaduto insieme a quello che non è avvenuto in quello che accaduto. In ogni ricordo c’è il desiderio come del sogno si dice che è l’interpretazione del desiderio, la sua rappresentazione confusa. Gli antichi dicevano che il sogno veniva dagli Dei. La religione è l’ordine del desiderio che si traduce nella confessione del voler vivere. La guerra uccide il desiderio, cancella i sogni e il ricordo, come se non fosse accaduto nulla prima che con le armi si toglie la vita, che se non ci fosse mai stata Shoah.
Confesso che non capisco e non voglio nemmeno capire e spiegarmi. Devo confessarlo. Ci sono cose di cui non possiamo farci capaci, non possiamo contenere, capire. A comprenderle si manda in frantumi la capacità di misura dell’umano. È questo l’ordine di confessione del desiderio. È la capacità dell’immaginabile, il recipiente interiore. Si dice che l’utopia indichi nessun luogo, che la parola significa ciò che non ha luogo, cui non si può dar luogo, non si può mettere in essere. Si stabilisce così che l’essere ha luogo, è recinto. Senza luogo non c’è essere, dove non c’è luogo, non c’è nulla, neanche il nulla c’è, neanche il nulla può essere. Luogo è lo spazio del tempo. Ogni luogo è fatto di tempo, si racconta. La memoria è luogo. Utopia è luogo di cui non si ha memoria. Si può raccontare senza poter ricordare che sia mai accaduto. C’è dunque un ricordo di ciò che non accaduto. La sua memoria non è in nessun luogo che si possa indicare sulla carta.
C’è però un luogo che non è in nessun luogo. L’utopia ha luogo dentro ognuno. Il luogo interiore è in nessun luogo. Sono qui e non qui, non posso indicare un luogo dove trovarmi. Sono qui ora. Ognuno è nel luogo del presente, del proprio essere presente, del rispondere della propria presenza, del dire della propria essenza nell’assenza di questo e quel luogo. L’io è nel luogo del desiderio, uno confessa a se stesso la propria assenza, la mancanza d’essere e consistere. La preghiera dice la propria precarietà. L’essere è non. Lo stare ad essere come rivolti a quel che dà luogo alla vita. Ognuno è dell’altro, per un altro, con un altro. La religione dice del proprio rilegarsi, impaginando il tempo facendo della memoria un libro interiore, fatto voci, come le parole nel parlarsi interiormente sono note di voci che risuonano. Il desiderio è sempre dell’altro, parla dell’altro che si diventa e che si è stato e che non si è e mai diventato. Ognuno è il desiderio di un altro. È sempre l’altro a suscitarlo, il desiderio viene dall’altro. È dell’altro. Viene da chi non è mai stato prima, viene da un prima mai accaduto, da un altro che non si mai incontrato prima e che non mai smesso di venire. C’è un desiderio della memoria, uno ha ricordo di qualcosa che non è mai accaduta prima. La pace non c’è mai stata, eppure ne parliamo come di cosa che sentiamo. È come per le idee innate, è di una memoria innata e che ritorna come il sogno che si interpreta. Il desiderio ritorna alla mente, viene. L’altro che viene ritorna. Chiunque viene al mondo fa ritornare la vita. Si prega.
Oggi è il giorno della memoria. Ritorna il ricordo, il sogno, il desiderio di quello che non è avvenuto in quello che è accaduto. I campi di concentramento sono quelli in cui si concentra l’indifferenza, sono in un luogo lager di reclusione. Accade quando si è reclusi sotto minacce della vita. L’indifferente è chi non custodisce la vita nella sua esistenza, non si fa custode della vita nella sua vita, la vita dell’indifferente non è significante della vita. La sua vita non significa nulla, la sua vita non dà significato alla vita. L’indifferente tiene alla sua esistenza, non ha desiderio di vivere. L’indifferente è l’insensibile, annulla il sentire l’altro, non si fa luogo all’altro in sé, né ha luogo di sé in se stesso, ha desiderio, non si dispiace e non dà gioia di vivere. Quelli che dicono che non sapevano nascondo la vergogna della propria indifferenza. A questa vergono ognuno è esposto. Sappiamo tante di cui non abbiamo prove e nomi, però le sappiamo. Sappiamo di questa guerra come altre volte tutti sapevano e si dicevano che era meglio non sapere.
La violenza è quando non si sente e non si respira l’altro. È quando non si ospita quell’Altro significante di ogni altro, prende il nome al genitivo di ciò che è solo voce, senza nome che si possa pronunciare, perché è vano pronunciarlo. Diciamo “Dio” che nella grammatica del greco è il genitivo di Zeus, in latino Deus, diciamo della voce dell’alito, del vento, dello zefiro, del respiro della vita. Diciamo “Dio” nella declinazione del genitivo di ciò che non ha nome se non della voce sola, come è la vita, il vento. Zeus, Jahve, Allah, nomi di voce della vita, nome dell’ordine del desiderio di vivere.
L’eccidio degli Ebrei del Novecento c’era già stato nei secoli prima. C’era già stato l’esodo, c’era già stato il ritorno, c’era già stata la cacciata dal paradiso, dove la vita aveva luogo senza segni di confini, dove il corpo non era segnato. Dove non si segnavano i corpi, dove non c’erano tatuaggi numerici, dove non c’era nemmeno la memoria e il desiderio non aveva l’ordine della confessione di vivere, non era una promessa, non c’erano prestazioni.
Togliere all’altro il desiderio è come togliergli la voce di Dio, quale che sia il nome che lo pronunci, è togliergli la voce che lo pronuncia. Non capisco, non sono capace di capire. Non posso perdonare me stesso di esserne capace. Non posso, non devo, per la vita di cui ogni vita è desiderio. Ognuno è significante nella propria vita del desiderio della vita. Il desiderio è il senso di significato nascosto in ogni segno che risuona come nota a voce che la pronuncia.
Quante volte c’è stata una Shoah, quante volte accade che si voglia l’esclusiva della vita e del genitivo di un nome che indica il desiderio? Quante volte il desiderio diventa l’annullamento dell’altro che lo suscita? Quante volte al giorno deve essere il giorno del desiderio della memoria come desiderio della vita, come ordine del vivente di custodire il segreto della vita? Non si può perdonare, si può dare per dono solo l’imperdonabilità a se stessi di farsi capace, di capire, quello che non si deve capire, che deve restare fuori dalla confessione del desiderio della vita. Fuori dall’umano, nell’ira di un Dio lasciato solo.
Oggi, giorno della memoria, bisogna darle voce, farla parlare, ascoltarla, sentirla. Pregarla. Nella preghiera il desiderio diventa speranza, si affida all’avvenire, all’avvento, al vento, alla voce che si sente senza che si possa fermare, ma che si può raccontare. Si spera che non avvenga quello che è accaduto. La memoria non è solo di date e dati, non è solo l’archivio della storia, di quello che è stato visto ed è accaduto. Le date si segnano, bisogna insegnarle, tenerle dentro, passare dal segno al suono, esserne segnati, diventare ricordo, risuonarne. La parola diventa voce, come la nota è del suono. La parola è della voce che si pronuncia. Noi che impariamo a memoria dobbiamo ancora imparare la memoria. Noi che conserviamo banche di dati dobbiamo apprendere la memoria dove ad ogni nota corrisponde il suono della voce della vita che viene e che ritorna al mondo come non è mai stato prima. Oggi che è il giorno della memoria, ricordo e sogno il sogno di Adorno.
Giuseppe Ferraro