Desiderio e bisogno
Le cose inutili sono quelle importanti, quelle utili sono necessarie, tanto più tali se rendono possibili quelle importanti. E come nel rapporto tra necessità e libertà. Noi in fondo ci occupiamo delle cose per le quali non c’è tempo, non c’è finanziamento, non c’è cura. Chi opera nel volontariato cammina sul ghiaccio della indifferenza. Lo apre. Incontra le persone nella singolarità del loro mondo. Chi fa volontariato tesse nodi di doni, unisce mondi differenti, genera le mappe del bene comune. Le cose utili, certo, sono necessarie, ma senza l’inutile carezza vera di una mano, senza la voce di una parola vera, la necessità è un rifiuto della libertà.
Non si può dire di un uomo che è reale se non ha un ideale di umanità. Sarà come cosa che cade, che accade, non sarà come chi vive per esistere in un mondo felice. La parola è la mano che si dà nella cura della vicinanza, dove c’è sofferenza provata, vissuta, inferta e subita. La parola avvicina, fa mondo, restituisce vita.
Le cose utili rispondono al bisogno, quelle inutili al desiderio, ma è solo questo, il desiderio, che stabilisce il grado di qualità della soddisfazione di un bisogno. Quando allora necessario diventa il desiderio, anche il bisogno diventa importante. Chi fa volontariato conosce questo passaggio, lo vive. Pratica un’economia interiore. Le cose che arrivano dalla volontà, vengono dal sogno di cui la vita ha bisogno per esistere felice. È come stiamo al mondo che è il mondo sta bene o male, felice o infelice. Siamo in mondo dove la crisi si coniuga al crimine, lasciando la critica resta senza ragione. La realtà è fatta di sentimenti, che poi sono le risonanze del nostro starci accanto. È come si è vicini che si è nel mondo che abitiamo. La prossimità è vicinanza.
Essere in prossimità significa trovarsi vicini a una metà, in raggiungimento del fine. Lo si intravede, si avvicina. Si può così essere in prossimità dell’arrivo di un viaggio. In prossimità del ritorno. Si è prossimi a quello che si sente. La prossimità è un sentimento rivolto a quel che si avvicina, che non si conosce, che sia ha dentro, si aspetta e non si sa come verrà, ci stupirà, ci darà più di quel che abbiamo pensato venisse, talora meno, solo per dare nuova spinta a raggiungerlo. Arriva dentro. Si ha quel che si da e quel. Be si riceve è un dono inatteso. La prossimità si coniuga allo sconosciuto, al non ancora venuto. Prossimo è il vicino, colui al un ti avvicini, ti cammina a fianco ed è prossimo, quando si rivela nella voce, quando ci si parla.
Toccare, risuonare
La mia esperienza è con i detenuti. Posso dire che è la stessa di ognuno che fa volontariato. Quando mi dicono che cosa fai portando la filosofia in carcere, dicono che ci tocchiamo, diciamo cose che ci toccano. Lo spiego meglio facendo la distinzione delle cose vere e delle cose certe. Da bambini, a scuola c’è un momento in cui s’impara ad imparare. Non è più il dettato o la copia e la lettura che c’insegnano. Arriva un momento che segna il passaggio dell’educazione a scuola. È quando la maestra ci spiega la differenza delle cose astratte e concrete. Nemmeno la maestra riesce a trovare modo ed esempio per la spiegazione di quella differenza. Quando poi si va a casa a completare il compito su quella distinzione, anche i genitori perdevano la linea di definizione. La maestra allora spiegava che le cose concrete sono quelle che si toccano e che le cose astratte sono quelle che non si toccano. Da bambino persi il cielo quel giorno. Altri rimasero e altri rimarranno increduli a dovere capire che ci sono cose che non si toccano, imparano forse la nostalgia o chiameranno dopo con questo sentimento l’intoccabile. I bambini toccano tutto. È difficile per loro intendere quella spiegazione. Poi ecco che magari qualche giorno dopo, quella stessa settimana, i genitori gli diranno che andranno a casa dei nonni e là non si tocca nulla. Il bambino capirà ancora meno la distinzione per una casa astratta. In realtà quella spiegazione è l’educazione alla proprietà. Quello che è tuo puoi toccarlo, quello che non è tuo non devi toccarlo.
Da grandi poi si comprende quell’altra distinzione, tra le cose certe e le cose vere. Quelle certe di toccano, quelle vere ti toccano. Così quando diciamo dell’amore vero e della vera amicizia, così quando diciamo del capire veramente qualcosa, del vivere veramente qualcosa. Capiamo che in quel “vero” è il proprio, il risuonare di quel che ci tocca e ci viene in contro. La prossimità è già una parola che risuona, è risonanza. Quando mi chiedono cosa facciamo tenendo corsi di filosofia coi detenuti, rispondo che ci tocchiamo, risuoniamo di quel che vero, lo sentiamo, la comprendiamo come nessun altro potrebbe capire, perché l’assoluto è singolare. A chi chiedesse a un giovane che è nel volontariato che cosa fa nella sua pratica, potrebbe sentirsi la risposta di quel “lo tocca”. Quando vedo la notte chi porta calore al barbone, chi lascia la coperta e il cibo a chi è caduto dall’altra parte del mondo, capisco che lo fa perché gli tocca, scambia la sua felicità interiore con la sofferenza dell’altro, lo rende felice prendendosi la sua sofferenza, ma come per valore la sofferenza vissuta e la felicità data non si scambiano di posto, ma si mischiano all’incontro. Il dolore è ancora amore. Chi non ama nemmeno prova dolore per ciò che si smarrisce e perde cadendo via dal mondo. Chi opera di volontariato acquisisce una memoria di ricordi, sono nodi di doni. Chi dona sente ritirarsi all’istante la sua mano, perché il dono è come ciò che non gli appartiene, è dell’altro, avuto altrove, una restituzione di quel che è come di nessuno e di ognuno, la vita intera, semplice, pura, la vita di nessuno, viene da dietro il mondo, reclama di esistere, viene fuori, cerca nel mondo la custodia, il suo riparo, l’etica dovette essere questo un tempo ed è solo questo ancora, dare mondo alla vita.
Vistiti di prossimità
La prossimità si vive addosso. Ne senti la gioia quando è la prossimità di una festa, ne senti l’ansia quando è la prossimità di un esame, anche il sentirsi ad agio o inebriato quando la vicinanza è al mare o al montagna che si preferisce. La prossimità è la sensibilità. La senti addosso. Non è una misura di spazio o di tempo che possa essere calcolata con strumenti e passi, la prossimità è dello spazio e del tempo interiore, cammina dentro gli spazi infiniti dell’animo. La prossimità è l’altro che la attiva, indica sempre quel che tocca di uno a un altro, di sé e dell’altro. Senza si resta soli, quando si sente dentro non porta confusione. Fa sentire sé dall’altro, non essere l’altro. La prossimità è il “quasi” di ogni relazione che dice della distanza invisibile e della differenza impercettibile dall’altro. Così un padre potrà essere “quasi” amico del figlio, ma “senza” essere amico perdendo la funzione paterna. Così, la maestra è “quasi” madre del bambino, ma non può essergli madre senza perdere la sua azione insegnante. Così anche un amico è “quasi” fratello e senza esserlo. Il “quasi” si dà allora nel “come”, nell’essere “come” l’altro, “con” l’altro. “Comis” in latino si dice dell’essere “cortese”, gioioso”, in altre lingue latine indica l’essere “impegnato”. Ed è l’essere “come” l’altro un impegno di se stessi. La prossimità in questo modo dice dell’empatia. Del sentirsi come l’altro, vicino. Non lo stesso, ma “quasi”. L’empatia non potrà mai dire di sé e dell’altro come uno, ma di una singolarità accanto a un’altra. La prossimità è come diceva il filosofo, Nietzsche, il nostro starci accanto cogliendo una differenza, quella ci permette di non confondere, quella che ci permette di capire l’altro da dentro, come quel che viene, come quel che inventa il nostro essere come siamo. L’altro inventa il mio animo, mi viene incontro, mi tocca dentro, mi fa sentire come sono, quasi come sento e sono. Io Altro. Proprio e improprio. Questo scarto interiore è la prossimità.
Legami di separazione
In questo scarto colgo una separazione e un legame. Lego me stesso all’altro, legandomi a quel che sento proprio e non è proprio, resta improprio. Qualcosa che capisco dentro me stesso quando dialogo, quando cerco un legame dentro me stesso, sentendo una separazione, dentro. Siamo vita e abbiamo vita. Questa la separazione che ogni legame mantiene e fa sentire. Siamo vita come viventi e abbiamo vita come esistenti. La vita che siamo ci è impropria, è la stessa di ogni altro vivente. La che abbiamo invece è nostro, propria, sono le nostre scelte, i progetti, le cose che ci procuriamo. Ci sono due forme di cura che si avvicendano in questa separazione. Ogni lingua europea la sostiene, il greco dice “zoe” e “bios”. In italiano si dice “vita” ed “esistenza”. Non sempre stanno insieme, se non per un legame, per la persona che amiamo, per la quale diciamo “sei tutta la mia vita” e che ci “riempie” l’esistenza di vita e senza sentiamo che resta vuota. La felicità è l’esistenza piena di vita. La sentiamo in ogni legame che ci restituisce la vita e il mondo insieme. Ogni legame è significante di quello più importante che lega la vita all’esistenza. Ne fa sentire la prossimità. Sono i legami di prossimità che significano quello più importante di esistenza e vita in ognuno. Ogni legame dice di una separazione. Ogni prossimità dice della presenza dell’altro, di un’altra, di altro. Così come si è prossimi a un altro mondo nella prossimità di un altro che viene, di un’altra.
Nodi di doni, l’esistenza e la vita
Ogni legame dice della separazione che mantiene. Legarsi è mantenere la separazione. Senza, arriva la confusione cui segue la delusione. Ogni legame mantiene la separazione, la tiene. Legarsi è dare manutenzione al rapporto di esistenza e vita, del mondo e della vita. Tenerli insieme è la prossimità dell’altro che viene, dell’altra che viene ed è, perché ogni essere è venuto al mondo, al nostro mondo. L’essere ha nel venire il suo cammino, la sua origine smarrita che si ritrova sono nell’altro che l’accoglie.
C’è la gratuità nel dono. C’è gratuità in ogni legame che si nodo di dono. Si lega restando sciolto. Sono i legami di libertà. Nessuno è libero da solo. La libertà è fatta di legami. Il grado della propria libertà è dato dalla qualità dei propri legami. Anche un paese, come l’Italia, è libero al grado della qualità dei legami sociali. Quanto maggiore è la qualità dei legami sociali tanto maggiore è la libertà di un paese. Il grado di democrazia si misura dai legami di libertà.
L’umano è gratuità nella prossimità. Un gesto che si dice “umano” è anche gratuito, senza interesse alcuno. La gratuità è nell’emergenza. L’umano emerge. Si dà nell’emergenza del bene. L’emergenza è il pericolo, lo stato in cui si rompe il legame tra la vita e l’esistenza. Allora l’umano emerge, perché il bene che si dà è nell’emergenza, quel che emerge. Il bene si dà, il male si fa. Nel darsi del bene non c’è un fare strumentale. Viene. Si sente dentro. Viene da dentro, come l’altro viene da fuori. Chi è nella vita e chi nel mondo non è dato identificare se non in un’identificazione che scambia l’uno e l’altro, come ogni amante è amato e ogni amato e amante. Può accade che ci sia una rottura, che l’amato non sia amante e che l’amante non sia amato. Allora bisogna essere l’uno e l’altro nel pieno dell’amore che si prova per l’altro. Essere amato dell’amore che si porta all’altro, perché chi ama è amato dall’amore che gli viene per l’altro dall’altro che lo fa venire in se stessi. Anche la terra lambita dall’onda del mare non è mare, ma sa del sale dell’acqua che la bagna, ne è impregnata.
La prossimità dice di tutto questo. Dice della gratuita, perché l’umano è gratuito, come l’amore è gratuito. Si fa dono della vita. È inutile, perché è importante e rende necessario quel che è utile. La prossimità è l’uso dell’umano. L’uso di sé nell’altro e dell’altro in se stessi. Non c’è utile senza l’altro, non c’è inutile senza sé. È quando allora ci si sente “inutili” che bisogna essere se stessi, andare dall’altro, venire a sé dall’altro, perché lo Stesso che compie il Sé è il ritorno che l’io fa dentro come “se stesso”. Si ritorna sempre dall’altro, dall’altra. Da chi viene.
Basta un gesto, non sapremo nemmeno cosa varrà per un altro. Non lo sapremo mai. L’altro è il nostro non sapere di quel che sappiamo, l’altro è la nostra solitudine. La prossimità conosce questa solitudine. Chi è nel volontariato la conosce più di altri. La nostra volontà è sola, quando è volontà di vivere.
Economia della prossimità
Senza questa premessa la prossimità diventa una misura, un calcolo sbagliato. Bisogna pensarla come l’economia della volontà di vivere, come economia del desiderio che dà qualità al bisogno. L’organizzazione del bene è l’espressione di un’economia che risponde al crimine della crisi. L’impresa sociale risponde al crimine della crisi di una cancellazione dello stato sociale. La spending review, la revisione di spesa di questi anni ha sostituito l’espressione del welfare, dello stato sociale. Invece di una revisione di spesa rappresenta un taglio di spesa, un prosciugamento progressivo della funzione sociale dello stato, dell’assistenza come della prossimità ai cittadini. Lo Stato è lontano, distante. L’istituzionale e il sociale sono lontani. La misura maggiore è della scuola per la quale la distanza del curriculo istituzionale è distante dalla vita sociale. Ed è una distanza resa ancora maggiore quando si vuole che la scuola sia legata al lavoro. Ciò significa che nella crisi dell’economia post industriale si vuole fare della scuola una fabbrica, come già accade per l’università e per gli studi che devono espressione d’innovazione essi stessi inseguendo un futuro che si allontana e un presente che è assente. Sono i giovani che non hanno futuro a mantenere nel presente il legame tra il mondo e la vita. Allora ecco le imprese sociali. Sono quelle che prendono il posto dello stato sociale e devono potersi moltiplicare sui territori facendo economia di comunità ciò che s’intende anche dicendo economia di prossimità.
Le associazioni di volontariato rispondono ha questa esigenza di mancanza dello stato sociale, ma non posso sostituirlo, non posso farlo. Deve poter essere altro proprio in ragione di una economia della prossimità che è il contrario di una economia della proprietà. Non è questione di dispendio, si tratta di un’operosità diversa. Fuori della proprietà e fuori dalla produzione, fuori dalla formazione. L’economia della prossimità è generativa. È quella che genera legame, quello più importante di portare la vita al mondo e dare mondo alla vita.
Comunità sociale e società comune
Lo Stato, da troppi anni ormai, non è lo Stato Nazione. Non è data Una Comunità d’appartenenza in cui riconoscersi per nascita. È cambiata la stessa portata della relazione di comunità e società. Lo Stato ha a che fare con più comunità, deve garantire adesso la società delle comunità. Il “male” delle nostre terre, l’Italia del Meridione, può diventare il “bene” da ritrovare. La cultura dell’Italia del Meridione è fatta di comunità che non sempre trovano espressione di società, perdendosi in forme “associazioni” devianti. Questo “male” deve cambiarsi nel bene. Lo Stato è chiamato a garantire il rapporto tra società e comunità, questa la sua funzione istituzionale. La crisi è di una distanza tra società e comunità. Il volontariato, quello che si chiama terzo settore è chiamato a mettere in rapporto società e comunità. È chiamato a istituire imprese sociali di comunità. Le associazioni di volontariato devono diventare delle comunità esse stesse, in una prossimità costante di società e comunità, senza confondere l’una con l’altra, facendosi prossime di altre imprese sociali comuni.
Il compito è di attivare una società comune in una comunità sociale. È un’economia interiore per una comunità interiore di cui sola è capace la prossimità di generare. Si tratta di un’altra economia quella che non distingue l’utile dall’inutile perché non sia distinto il bene come materiale d’uso e proprietà dal bene come valore di prossimità senza proprietà. La distinzione non è tra materiale e immateriale, perché una tale distinzione nell’uso che se ne è dato ha reso l’immateriale ancora più materiale, facendo del desiderio un prodotto da acquistare in rete.
L’economia della prossimità è senza proprietà. Il suo principio è la restituzione. Bisogna restituire come dell’altro quel che si sente propriamente di sé. È la restituzione della vita. È un’economia non produttiva, ma generativa di una società comune per una comunità sociale.
Il disagio della volontà, governare l’esistenza
Non vivere secondo le attese, ma secondo gli incontri. La comunità sociale è l’esposizione di una comunità interiore. Il volontariato in Italia ha sostituito non solo lo stato sociale che si è prosciugato nel corso degli anni, ma ha sostituito anche la contestazione politica e l’agire conseguente che reclamava dalle istituzioni ciò che esse già non potevano più promettere. Si trattava di agire per un’attesa che si sapeva già delusa, per cui l’agire politica si chiudeva su se stesso. Il terzo settore è stato il canale che si è voluto offrire all’agire politico sociale e spontaneo. La diffusione dell’associazionismo per un verso ha richiamato su un piano istituzionale dal basso, venuto dall’emergenza che si è strutturato come servizio non governativo ovvero non istituzionale ma sociale. Accanto a questo è rimasto il volontariato di movimento che si diffuso per luoghi e non per associazioni, identificandosi nei locali occupati piuttosto che nelle associazioni strutturate. La dimensione politica è presente e assente in un caso come nell’altro. Ciò che risponde ad una nuova forma politica di partecipazione diretta. Se la prossimità indica l’essere vicini ad un mondo diverso dentro quello esistente, anche la politica ne partecipa e diventa politica della prossimità. Ancora una volta politica di prossimità a una società comune per una comunità sociale. Tante comunità sociali per una società comune.
Se vale il “postliminio”, la ripresa in modo diverso della dimensione politica di partecipazione, al fondo è la condizione esistenziale di volontarietà che la sostiene. Una condizione esistenziale che trova nella precarietà la propria dannazione e la leva della propria esposizione. Chi è nel volontariato deve lottare contro se stesso e contro l’indifferenza della ordinaria quotidianità. Da una parte la contrarietà interiore e dall’altra la condizione reale. Di nuovo bisogna intendere è reale solo l’uomo che ha un ideale, diversamente non può chiamarsi vera l’umanità che ci si attribuisce.
Il disagio della volontà e nell’accettazione della sua impresa. Accettazione di sé e accoglienza dell’altro stanno insieme, l’una rende l’altra possibile in uno scambio di incontro inatteso. La possibilità che ne viene è la possibilità dell’impossibile, di ciò che non si poteva prevedere e calcolare. Le cose vere sono così. Sono impossibili. Bisogna fare l’impossibile perché siamo siano possibili. A sostegno viene quella che si dice “self reliance”, quella fiducia di relazione a sé, che è impossibile senza la prossimità, senza l’altro, l’altra della prossimità.
La volontà buona non è tale per ciò che essa fa e ottiene, … ma solo per il volere, in se stessa;… anche se il suo maggior sforzo non approdasse a nulla ed essa restasse una pura e semplice buona volontà […], essa brillerebbe di luce propria come un gioiello, come qualcosa che ha in sé il suo pieno valore. L’utilità e l’inutilità non possono né accrescere né diminuire questo valore. (I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi)