In
fila
per
vivere.
La
disperazione
ha
sempre
questa
immagine
di
attesa.
Si
aspetta.
Lo
sguardo
diviso
dentro.
Rivolto
da
una
parte
al
buio
della
vita
negata
e
dall’altra
all’oscuro
avvenire.
La
solitudine
degl’immigrati
è
divisa
tra
la
nostalgia
di
quel
che
si
perde
e
la
paura
di
quel
che
si
incontra.
Così
si
è
straniero.
L’Africa
mediterranea
stacca
i
biglietti
di
ritorno
del
viaggio
di
andata
del
colonialismo.
È
come
un
ritorno
di
ciò
che
resta
delle
“conquiste”.
Quasi
un
riflusso,
una
colonizzazione
a
canone
inverso,
temuta
perché
arriva
con
l’arma
della
rabbia
sollevata
dal
bisogno,
minacciando
di
importare
il
desiderio
delle
rivolte
per
una
vita
non
più
di
scarto.
Sono
profughi
o
immigrati
economici?
Chiedono
asilo
politico,
chiedono
assistenza
o
esistenza?
Come
si
fa
a
distinguere
la
disperazione?
Il
profugo
è
un
fuggitivo,
il
disperato
è
uno
sbandato.
L’uno
è
un
perseguitato,
l’altro
è
uno
che
lasciano
andare.
Va
bene
pure
che
sia
disperso,
in
mare
o
preso
a
sassate
e
cannonate.
Quella
dell’immigrato
economico
è
l’ultima
trovata
classificatoria.
Come
se
la
politica
non
riguardasse
l’economia.
Di
certo,
l’immigrazione
sulle
coste
italiane
di
questi
mesi
non
è
quella
di
altri
anni.
E’
diversa.
Vale
appena
riflettere
a
come
sia
corrispondente
all’emigrazione
dei
giovani
italiani,
laureati,
dottorati,
formattati
e
masterizzati.
Sono
i
precari.
Si
scambiano
di
posto.
Un
solo
filo
raccoglie
gli
anelli
di
un’unica,
globale,
collana
di
precari
che
va
dagli
immigrati
economici
africani,
ai
profughi,
fino
agli
emigranti
meridionali.
Un
flusso
a
circuito
chiuso
di
un’economia
globale,
non
di
merci,
ma
di
corpi,
meglio,
di
parti
di
corpi,
perché
da
una
parte,
in
un
paese,
emigrano
cervelli,
da
un’altra
immigrano
piedi,
da
un’altra
ancora
mani,
e
altro
ancora.
Una
vivisezione
continua.
Una
spartizione
della
vita.
Sbranata.
Non
si
può
distinguere
il
profugo
dall’immigrato
economico,
perché
la
disperazione
è
la
stessa.
E
di
chi
e
quale
è
il
paese
che
deve
fronteggiare
l’afflusso
d’immigrazione?
Per
l’Europa
sono
problemi
dell’Italia,
per
i
Lumbard
sono
cavoli
del
Meridione.
I
confini
dell’Europa
arrivano
a
Francia
e
Germania,
quelli
dell’Italia
arrivano
a
Lampedusa.
Il
problema
dell’integrazione
mostra
piuttosto
di
essere
la
faccia
truccata
di
buonismo
dell’integralismo
economico
cui
sottostiamo
in
un
regime
di
confessione
liberista,
che
non
ha
niente
di
liberale,
proprio
perché
assegna
quote
di
libertà
vigilata,
privilegi
ed
esclusioni
funzionali,
dentro
le
proprie
città.
Non
c’è
integrazione
in
una
società
disgregativa.
Bisogna
ripensare
allora
all’integrità
dell’umano,
all’integrità
della
vita,
alla
salvaguardia
dell’esistenza
così
come
non
è.
Occorre
ripensare
a
nuove
forme
di
economia
e
di
vita
in
comune.
Dalle
coste
mediterranee
dell’Africa
sta
emigrando
un
bisogno
di
mondo,
un
bisogno
politico,
un
desiderio
di
vita,
dal
quale
possiamo
apprendere
o
almeno
riprendere
a
desiderare
di
vivere
altrimenti.
Dobbiamo
sapere
leggere
tra
corpi
ammassati
i
gesti
minimi,
quelli
“inutili”
e
perciò
importanti,
di
una
mano
che
stringe
un’altra
che
viene
dal
mare,
di
un
sguardo
perduto
e
ritrovato
nella
parola
di
un’altra
lingua
che
si
fa
comprendere
nel
solo
suono
della
voce
che
l’accoglie.
Dall’altra
parte
del
mare
si
sono
ribellati
a
governi
durati
40,
30
e
23
anni,
noi
qui
abbiamo
governi
e
governanti
che
hanno
superato
la
soglia
del
ventennio.
La
preoccupazione
reale
è
che
con
gli
immigrati
insieme
ai
bisogni
possano
arrivare
sui
barconi
il
desiderio
e
l’idea
di
altre
forme
di
relazioni,
di
governo,
di
associazioni,
di
politica.
Certo
è
sorprendente,
gli
immigrati
arrivano
a
Lampedusa
solo
di
passaggio.
Ed
è
qui
il
problema.
L’immigrazione
di
passaggio
sale
il
nostro
Paese
seguendo
il
corso
dell’emigrazione
dei
nostri
giovani,
del
meridione.
Abbiamo
da
apprendere
dagli
immigrati
come
non
emigrare.
Ad
accoglierli
apprenderemo
a
come
starci
accanto.
Qui.