La filosofia tradotta in politica o della politica del desiderio

Febbraio 5, 2014 Posted by επιμελεια - Epimeleia 0 thoughts on “La filosofia tradotta in politica o della politica del desiderio”

«il problema potrebbe riguardare l’esistenza di colui che crede al mondo, non come esistente ma come possibilità di movimenti e di intensità, atti a generare ulteriori e nuovi modi di esistenza, più vicini agli animali e alle rocce. Può darsi che credere in questo mondo, in questa vita sia diventato la nostra impresa più difficile o l’impresa di un modo di esistenza da scoprire oggi sul nostro piano di immanenza. […] Sì il problema è cambiato. »  (G. Deleuze, Che cos’è la filosofia?)

Die Philosophen haben die Welt nur verschieden interpretiert; es kommt aber darauf an, sie zu verändern

Si legge appena ci si trova nell’atrio della Humboldt Universität, a Berlino. A leggerla, suona come un’apostrofe. È incisa sulla parete. Le scale che salgono sinuose ai suoi lati si discostano come tende di un sipario aperto su quella scritta didascalica della scena primaria della storia del disaccordo tra la filosofia e la politica. L’undicesima tesi su Feuerbach di Karl Marx. La traduzione in italiano ripete:

I filosofi hanno solo diversamente interpretato il mondo; ma è arrivato il momento di cambiarlo.

Si può dare enfasi diversa a quel “es kommt an”, al “darauf”, allo “aber”, legittimando ora un’urgenza, un passaggio, un’attualità. Saremmo però ancora dentro quel “nur verschieden” dell’interpretazione, che è appunto il motivo della critica alla filosofia, se non ne è di fatto il suo licenziamento. Ancora una volta, come sempre, l’inattendibilità del suo esercizio per la pratica. A meno di non abbandonare l’immagine della filosofia come interpretazione e visione del mondo per fare della traduzione il suo agire. A meno, forse, perciò, e meglio, di provare a tradurre, riferendo l’alterazione, quel verändern, ai filosofi, per richiamarli ad altro che non sia un’interpretazione, facendo così alterare quelli che ancora fanno della filosofia uno schermo sul quale rappresentare visioni speculative di potere:

I filosofi hanno solo diversamente interpretato il mondo, è il momento, adesso, di cambiare la filosofia.

 Il mondo può cambiare se solo cambia il modo di essere nel mondo. Il modo di vivere l’esistente. Il proprio sguardo. Senza lasciarsi fissare dalle cose, né fissandole in una immutabile definizione che arrivi sempre puntuale all’ineluttabile e arrendevole “è così”. “Non può essere altrimenti”. Le cose così come si danno diventano un danno, fanno dannare. Resta la sola estraneità. Il destino o, che è lo stesso, il “danno della storia per la vita”, come ripetono le pagine di Nietzsche. L’abbandono all’accadere come evento, la Gelassenheit, dell’ontologia fondamentaleheideggeriana non fa che legittimare l’esistente. Ancora di più se messa a confronto con l’Aquiescientia spinoziana che suppone l’amor dei intellectualis. Forse però, ancora, di questo si tratta, della «storia del mondo come storia (della) politica nel suo legame con l’amore, appunto, con l’amicizia e con l’amore, più precisamente con la storia greca, ebraica, cristiana di questo legame, dell’allacciamento e dello slacciamento di questo legame? E dunque con l’inimicizia, con l’ostilità, con la guerra?» (Derrida) E non sarà che l’essere si manifesti in quel che c’è, in presenza, per cui basti descriverlo in fenomenologia. È nel linguaggio che l’essere si dà e si nasconde, ma in un conflitto di voci. Forse bisognerà convincersi che in filosofia non si tratta di una teoria universale e neutrale, ma ogni volta è lo stile di una vita cui si cerca di condurre, tradurre, la propria esistenza, singolare, indeterminata.

Una pratica. Una postazione. Non una visione, ma un esame. Bisogna viverle le cose che si dicono in filosofia philosophounta me dein zen  ed esaminare se stessi, kai exetazonta emauton, invece di abbandonarsi alla morte e ad altre eventualità, ripete ancora Socrate sotto processo (28e). Bisognerà allora, forse, dare sguardo alla voce o vedere dentro, “einsehen”, è l’espressione che si legge nei Quaderni di Malte. Imparare a vedere, ascoltando, vedere dentro e vedersi dentro, perché il dentro di ogni cosa è quello che sentiamo a pronunciarne la parola che la voce estrae pronunciandosi. Vedere quel che manca in quel che c’è. Vedere quel che ci manca e che manchiamo noi stessi a vedere. Uno sguardo che ascolti. Quel che il darsi non dà a vedere nell’alterarsi e perseguitarsi delle voci. Se solo, allora, adesso, si riesce a vedere quel che manca in quel che c’è, perché ciò che c’è sia veramente quel che è. E non così com’è. La politica, ecco, entra subito in scena, ma come traduzione, come un passare attraverso, non un passaggio, ma mettere al passo ciò che è dato e ciò che non si dà nel darsi dell’esistente. Si tratterà ogni volta di capire se la filosofia sia come tale politica, fuori dall’uso, inusabile, inattuale, o se la politica sia filosofia, come conflitto di voci, o quando l’una diventa l’altra in un continuo dare ascolto. Nel dare alla voce che resta fuori dal pubblico la sua parola in comune e fare della politica un partage des voix, come nella bella espressione di Nancy, una partecipazione di voci. Dare ascolto per dare parola alla voce che resta muta, attonita, esclusa. Dare tempo. Non aspettare che venga, darlo. Fare di ogni evento un dono. Darlo. Darsi. Dare all’altro, a uno il proprio ascolto è donare il proprio tempo. Non semplice ascoltare, ma dare ascolto. È diverso. Darlo senza richiesta. Donare, in fondo, è un dare senza dare. La vita si dà così. Non chiesta. Si dà. Sarà allora donare il gesto che imita nell’esistenza, nel mondo, ciò che è dato nella vita, com’è in natura. Sarà come si dà il movimento degli astri, siderale. Sarà l’amicizia siderale, stellare, ancora di Nietzsche, senza tempo e rancore, senza vendetta. Semplicemente ritornando. Forse il tempo senza tempo è quello che ritorna. Forse il dare senza dare è il donare, ma com’è nel ritornare, restituendo. Ogni volta restituire la vita, la voce, la parola, sentirne la mancanza, sentire quel che manca. Potrà essere in questo modo il darsi della vita nel dare vita. Iniziare. Non mettere in essere, come si ripete nel linguaggio giuridico, ma dare vita. Iniziare. Cominciare da quei a tradurre la filosofia in politica. Forse la traduzione dell’una nell’altra sarà il continuo passare il segno del giuridico, far valere l’uno e l’altro il pregiuridico e il pregiudicato. Il preliminare. Il “prelimine”, prima della soglia e il “postliminio”, come ripeteva Leibniz, ma intendendolo ora come la ripresa del già stato, il portarlo di nuovo sulla soglia. E in un continuo passare da parte a parte il limine, cancellare la sua linea e ritracciarla, spostarla, tradurla.

Bisogna capire se non sia proprio il disaccordo, come lo nomina Ranciere, tra filosofia e politica a riversare l’una sull’altra o se sia possibile una politica, invece, di contro e senza disaccordo, o come provare a pensare a nuovo accordo tra la filosofia e la politica. A una nuova accordatura. Si può anche non essere d’accordo quando si è in un accordo di voci. Di voci. Senza tradurre l’una nell’altra, semplicemente tradurre la filosofia in parole nuove, in nuove voci capaci di farne risuonare l’inizio, un nuovo inizio, com’è il semplice aprire l’esistenza a un altro tempo. Come tradurre la filosofia in politica, perciò adesso, in questo tempo.

È come pensare a una politica senza politica. Forse l’effetto della traduzione, lo stato del tradurre, è questo “senza”. Una parola al posto di un’altra, che è la stessa, in un’altra parola, qui la stessa, per cercarne la voce che viene da dentro la sua autentica espressione. “Politica senza politica”. La filosofia opera di questi passaggi, non di assenza, ma di mancanza. Politica senza politica è come chiedersi di quel che manca alla politica per essere tale. Nessuna fuga nell’assenza, né in un al di là che non sia il farsi idea, un vedere dentro quel che manca in quel che c’è. Quel “senza” allora traduce ciò che è nominato nella sua voce. Mostra come ciò che si nomina non sia che il riflesso di quello di cui il segno è senza. Sarà come dire la comunità senza comunità, anche la filosofia senza filosofia. L’esistente senza esistente. La scrittura senza scrittura. Era questa l’indicazione di Platone: scrivere senza scrivere, ricavando la pratica della filosofia, che si esplicita ancora più intensamente nell’esercizio della sua disciplina come dialogare “aneu fones”, senza voce, si legge nel Sofista. Sarà allora una politica senza politica, quando si tratta di tradurre la filosofia. Sarà ancora di più una filosofia senza filosofia, capace di tradursi nella sua pratica restituendo senso alla sua parola. Una doppia traduzione, un doppio “senza” dell’una e dell’altra, una nell’altra, per sentirne la vera voce.

L’inattualità è l’latra espressione del disaccordo, quando la filosofia diventa politica. Fuori tempo. Fuori luogo. Il desiderio è sempre fuori luogo. Non sarà una mancanza come di un sentire mancante, ma di un sentimento non ancora tale. Semplice sentire di un mancare che è fuori. Dall’altra parte manca qualcosa. Nel tempo della politica e della storia. Manca qualcosa che è già in quel che c’è, ma che viene sottratto, nascosto, semplicemente non si vede. Il desiderio è un vedere dentro. Sarà per questo la sua immediata vicinanza all’idea. Così come l’idea è “vista” di qualcosa che non si vede, una vista dell’invisibile. Non ancora visto, “inveduto”. Che può essere reso non visibile, perciò invisibile. Può però anche intendersi nella “vista” dell’idea come ciò che si può vedere se si pone “vista”, si si vede altrimenti.

Nietzsche ha chiamato inattuale la pratica della filosofia. Un disaccordo di tempo. Deleuze ha parlato di “collera” per dire dell’inattuale. La collera della filosofia per il tempo attuale, cioè per il tempo della politica, per la politica del tempo, perché la politica questo ha di proprio di essere attuale. “Collera”, diceva Deleuze. La philosophie ne se separe d’une collère contre l’époche, si legge in Spinoza e il problema dell’espressione. In fondo è collerico è il desiderio divenuto rancore. Un desiderio che si fa vuoto della sua mancanza. Kant scriveva “critica” e se la prendeva con la collera della filosofia, col desiderio, con la ragione pura. Investiva il piano giuridico. Della legge. In questione è invece il piano pre giuridico quello che da senso al senso giuridico. In fondo è su questo piano la posta in gioco del disaccordo tra filosofia e politica ovvero, come si comprende, il disaccordo di un tempo presente attuale con un tempo presente inattuale, mancante solo perché reso invisibile. Occorre un’altra vista, l’idea, appunto, per vederlo come è invisibile. Invivibile. La “s” è sdrucciola, ci si scivola, alla fine anche sulla parola l’invisibile lascia affiorare l’invivibile, ma del tempo che c’è, attuale. Il tempo del mondo che rende la vita invivibile. La parola della filosofia reclama questa semplice verità, il legame tra la vita il mondo. Tra la storia e il divenire, tra il tempo e l’eternità, tra la politica e la filosofia.

Forse la politica non è che il desiderio della filosofia. Forse la filosofia non è che la politica del desiderio. Manca. Vedere quel che manca in quel che c’è, perché ciò che c’è sia veramente quel che è. Ecco, la mancanza. Quel “senza” della traduzione sarà il desiderio di essere veramente. Esserci. Forse la politica non è che il conflitto che il desiderio ingaggia con l’interesse e l’opportunismo, il malaffare, la corruzione, la proprietà, l’ingiustizia e l’esclusione. Forse l’Idea non è più che la messa in vista del desiderio. Tanto più politica nel momento in cui si traduce, si porta in mezzo tra ciò che è e quel che c’è. Tra quello che si vede dentro e quel che si dà a vedere. Non sarà perciò un sogno immaginario, ma ciò che ci spinge a sognare, ciò che ci spinge a vivere, alla felicità di esistere, scoprendo che il desiderio è prima ancora della nostra volontà. Non nostra, impropria, il desiderio è come una volontà involontaria, ciò che avvertiamo di volere proprio della vita. Il voler vivere. Ci prende. È come un volere da cui si è voluti e al quale dobbiamo aggiungere il volere nostro di un’esistenza che risponde al desiderio di vivere. Forse la volontà che è nostra è il dovere di volere ciò che ci vuole. In conflitto. Il desiderio non è senza conflitto. Non è senza paura cui riflette le stesse emozioni. Il desiderio della volontà di vivere potrà anche segretare la paura di vivere che potrà forse, talvolta, esprimersi nella nostra propria volontà di riconoscimento, quando si rischia di “approprietarsi” la vita di un altro, di un’altra per tenere ferma, catturare la vita, non perderla per non morire. Certo il desiderio è una caccia, perciò è anche una fuga, una concatenazione di passaggi, com’è nell’uno e l’altro caso, e come tale conservato nella parola fugen, che dal greco rimbalza nel tedesco a dire dell’una e dell’altra, della caccia e della fuga.

Bisogna ammetterlo, ciò che ci manca è proprio il sentimento di una tale mancanza. Preservarla, custodirla. Anche. Farla risuonare, farla sentire, darle voce, per sentire da ciò che non si sente quel che manca in quello che c’è. Non accettare l’esistente così com’è a nostro danno come a danno per la vita. La filosofia bisogna tradurla in politica così che la politica sia del desiderio di dare vita che sappia tradurre ciò che manca in possesso senza proprietà. In una relazione che lascia emergere la passione da educare in sentimento per un legame, il più importante, per aver caro, filei, il legame tra l’esistenza e la vita. Sapere questo legame, filosofein. Il più caro. Il più importante. Tra la vita che si è come viventi e la vita che si ha come esistenti. Tra ciò che si è e ciò che si ha, perché, forse, è questo ciò che manca, e non sia ha, quel che si è, viventi. Possederlo non sarà rendere vivibile ogni volta l’esistenza. Mettere la vita al mondo e dare mondo alla vita. Vero si dice dell’una e nell’altro e dell’uno nell’altra. Vero mondo e vita vera.

La verità si accompagna alla mancanza. La verità manca sempre. Prima o poi, si dice, si viene a sapere. La verità si viene sempre a sapere, ma quando si è però saputa, sfugge, non è più vera. La si viene sempre a sapere così come si sottrae alla certezza. Pasolini in quel suo documento filmato il cui titolo promette una risposta alla domanda “che cosa sono le nuvole”, lasciava intendere come la verità basta appena a pronunciarla che subito sparisce quasi scivolando via con la voce. Come le nuvole che si scompongono in figure che si diradano lasciando azzurro il cielo sul quale navigheranno ancora come sotto un mare azzurro. La verità risuona. Non più di un suono, una nota, che cerca di far parte di una melodia, ma che se sola, si dissipa. Dissipare, disseminare. Sarà come seminare senza seminare, come raccogliere senza raccogliere. La verità è sempre altra, altera, è altro ancora, per dirsi ancora altrimenti. La verità è nel racconto. Bisognerà allora, forse, intendere che solo nel racconto è dato sapere ciò che sfugge alla certezza di ogni definizione saputa. Il desiderio che non trova il suo racconto perde anche la volontà propria del sentimento di un legame.

Il racconto è una traduzione continua, una tradotta di parola in parola di ciò che nella voce si dà ad ascoltare nel tono di un’emozione che aspetta di farsi sentimento, risonanza. La verità stabilisce con il sapere questa relazione avvenire, per cui sarà forse il caso di dire, che la verità sia l’avventura del sapere. Il futuro. Strana parola, il “futuro”. È il participio di un passato remoto, “fu”, il non ancora avvenuto di ciò sarà accaduto, lo stare per avvenire, di un passato. Lo compresi quella volta in carcere, quando il detenuto che mi parlava del suo futuro, di quel che avrebbe letto e conseguito e fatto, sarebbe rimasto là, in carcere, ancora per molti anni. Fu allora. Capivo che il futuro è ciò che racconteremo di questo presente adesso. Capivo che il futuro è ciò che scegliamo di raccontare adesso come nostro passato. Non sarà il futuro “anteriore” della grammatica, ma il futuro “interiore” dell’abitarsi, del così come abitiamo. E se, come si sente ripetere, non c’è futuro, che i giovani non hanno futuro, non sarà per la mancanza di un tempo a seguire, ma solo dell’irracontabilità di questo presente. Il futuro è interiore. Presente adesso in ciò che scegliamo di raccontare, dando voce a questo. Prendere allora la parola. Dare voce a qual che manca, dare ascolto a chi viene, giovane e straniero, immigrato come arrivato adesso in questo mondo. Così com’è, senza futuro. Manca. Dentro. È questa città, questa politica, questo mondo che hanno un futuro interiore. Non lasciano che ci si racconti.

Alla fine viviamo in un mondo opulento, come dicevano già altri, viviamo in un mondo opulento dove non ci manca nulla. Sono quelli che vengono da fuori o che sono giovani adesso, emigrati da un altro mondo o stranieri, strani o resi tali nella denominazione di centri sociali risacca di giovani pericolosi. Strano questa equiparazione. Sono gli esclusi. Il futuro escluso. Il desiderio è escluso. Non ci manca nulla. Non c’è desiderio. Non c’è racconto che possiamo cercare di tradurre in futuro con altre parole, altre volte.

In te redi in interiore homine habitat veritas, pure ci ripete il ricordo del testo di Agostino. Dunque la verità abita. La si abita. È come abitiamo dentro noi stessi che siamo veri. È come è il tempo dentro di noi che quel che è adesso diviene anche passato, quel che racconteremo. La filosofia tradotta in politica è il racconto di una città. Futura, cioè quella che scegliamo adesso di raccontare. Presente. Data e mancata. La filosofia tradotta in politica è quando ci si racconta, quando si dà ascolto e si lascia raccontare. Così chi racconta abita la sua verità che lo abita dentro nel modo in cui passa il tempo, passa, cioè traduce in esistenza la vita facendola propria, facendo il desiderio di vivere la volontà propria di esistere.

Non basta. Gli amanti non si bastano mai. Manca sempre qualcosa. C’è sempre dell’altro, ed è il mancante. Il desiderio.  Questo, l’escluso. Il desiderio è l’escluso, così come gli esclusi sono coloro che restano deprivati, non privi, ma deprivati del desiderio. Bisognerà pure afferrare ancora una volta, e non sarà l’ultima, che il rapporto tra il desiderio e la mancanza non è di assenza. Il desiderio è come il tratto che si pone tra la voce e la parola, tra il gesto e il segno, tra pensare e scrivere, tra sé e quel che c’è, tra dentro e fuori. Meglio, è il tratto posto tra un’affermazione e ciò che manca, per cui vi si ritorna, è scrivere senza scrivere, parlare senza voce, sarà custodire quel tratto per riempirlo ogni volta. Ancora. Il desiderio è la mancanza di quel che si è. Il desiderio è il sentimento dell’eros, raccontava Aristodemo ad Apollodoro che racconta a noi dalle pagine del Simposio la riunione sull’amore che tennero insieme a Socrate che raccontava loro del dialogo avuto con Diotima. Il discorso sull’amore non è che il racconto di un ricorso e il ricordo di un racconto che si rimandano in caccia e fuga, in risonanza di ciò che ci spinge ancora e che ancora vogliamo che continui a tradurre la vita nell’esistenza. Sarà che Diotima non c’era. Non partecipò a quella riunione. Sarà che la sua voce non fu sua perché fu quella di Socrate che ne ricordava le parole. Sarà anche questa una traduzione, non per ripetere quel che l’altra ha detto, ma per dire quel che si compreso dall’incontro con la differenza. Si tratta anche di dare ascolto alla traduzione differente. Farsi da parte e ascoltare.

Diotima allora diceva a Socrate che Eros è e non è, ricco senza ricchezza, umano senza umanismo, sapiente senza sapienza, ricco e non ricco, sapiente e non sapiente. Eros, diceva, è filosofo. Il desiderio è ciò che sentiamo di Eros. Desiderare è volere avere ciò che si possiede. Questo. La mancanza, questo diceva Diotima come Socrate lo ricordava, è il sentimento di qualcosa di cui si sente di essere privi, qualcosa che si vuole avere sentendosene mancanti. Si ha senza averlo. Il desiderio è il sentimento di quel che si possiede e non si ha. Strano sentire. Il possedere è dunque la passione, un possesso, ciò da cui si è posseduti, così come l’avere è una proprietà, la si vuole. Il desiderio allora è un possesso senza proprietà. Desiderare è possedere quel che non si ha.

Strano. Il desiderio è come il riflesso del dono. Se come ricorda Derrida Plotino affermava che donare è dare ciò che non si ha, chi dona è ciò che possiede e non ha che dona. La propria passione. Quel che si ha dentro. La cosa che si dà allora non ha valore, non importa la cosa, che è piuttosto un “porta valore” di ciò che è senza valore. Il proprio dentro, ciò che si possiede, la passione, il proprio abitare la verità che ci abita. L’uno il riflesso dell’altro. Una traduzione. Il desiderio traduce il dono che traduce il desiderio.

Il saggio di Mauss su dono ci ha lasciato intendere che la comunità si fonda sul dono quanto la società si fonda sullo scambio. La politica della filosofia ovvero la filosofia tradotta in politica è la costante traduzione della comunità nella società e della società nella comunità. Il tentativo di rendere sociale una comunità e di fare una comunità sociale. Senza far coincidere la comunità con la società, com’è accaduto nell’esperienza dei totalitarismo. Una comunità senza comunità è, forse, una comunità sociale e una società comune.

Quel giorno Diotima spiegò a Socrate, che il desiderio è come il sentimento di Eros, ed è mancanza. A desiderare si vuole avere ciò di cui si manca, ma quel che si sente come mancanza proprio per tale si possiede. Quasi a significare un proprio che è improprio. Sarà su questo tradursi continuo del proprio e dell’improprio quello su cui gli amanti si fanno politica, si prendono, si giurano, si promettono su ciò che li porta al dono dell’uno e dell’altro, all’altro e all’uno. Gli amanti sono sempre in uno stato di conflitto. Non si bastano. Si giurano l’un l’altro su ciò che possiedono e non hanno. Gli amanti si giurano sulla passione. Fanno del desiderio dell’altro il dono di sé. Una politica senza proprietà.

Si corrispondo l’incorrispondente. Corrispettivamente. Corrispondenza di eccedenza. Gli amici no. Non si giurano. Congiurano. Non si separano dal mondo per recludersi in un proprio mondo, gli amici cercano il proprio mondo nel mondo che c’è. Congiurano, non si giurano l’amicizia, Sono congiuranti di un mondo che sentono che manca alla loro dimensione di amicizia. È ancora amore l’amicizia. Quasi sono amanti gli amici e quasi sono amici gli amanti. Ed è il “quasi” che traduce, e il caso di affermare, il “senza”. Quasi per dire che la politica senza politica è la politica che è quasi filosofia, altrettanto che la filosofia senza filosofia è quasi la politica. Bisognerà riflettere, non sarà bastante, molto su questo “quasi” e “senza”. Bisognerà riflettere su “quasi” come espressione del “senza essere”. Forse, a insistere, la filosofia tradotta in politica è come l’amore tradotto in amicizia, com’è il desiderio tradotto in legame nel sentimento del mondo e della vita. In una tale risonanza dell’una e dell’altra.

“Vedere quel che manca in quel che c’è, perché quel che c’è possa tradursi in ciò che veramente è”, sembra un inutile raggiro di parole. Eppure se solo si riesce a vedere quel che manca alla democrazia per essere veramente democrazia o quel che manca alla scuola per essere veramente tale, se solo si riesce a vedere quel che manca alla propria città perché sia veramente quel che è nella bellezza che le attribuiamo come ringraziamento di ospitalità del nostro abitarla e sentirci abitare dalla sua immagine che si riflette nello specchio del tempo in cui ci abitiamo, se solo – soltanto questo – se solo si riesce a vedere quel che manca ad un uomo per essere vero si potrà anche ripetere “se questo è un uomo” non è giusto, se questa è la democrazia, non basta, se questa la mia città manca la gioia di viverla.

Se solo si vede il mondo non com’è, ma com’è negato da ciò che si lascia vedere nell’impressione dello scorrere delle istantanee messe in onda, portate a riva e risospinte indietro. “Se soltanto”, “appena”, “se solo”. Un gesto minimo, ma un gesto. Uno spostamento. Un volto. Un voltarsi altrove. Porsi in un’altra prospettiva, non per stare a vedere, ma operare. Applicare la filosofia. È questo. Tradurre il desiderio in dono come riflesso di quel che si da e non si ha di quel che manca e si possiede dentro.

La filosofia ha sempre a che fare col vedere, si esprime con l’idea, educa, si apprende, non s’insegna. Meglio, ancora una volta, la filosofia s’insegna senza insegnare. Come l’amore. Nemmeno si può dire che cosa è. Si può dire cosa fa. Raccontare gli effetti. Come l’amore. La politica che ritrova il suo racconto, nell’entusiasmo il desiderio del suo tempo.

Senza insegnare. Come un sapere artigianale. Bisogna diventare ciò che si fa per dirne l’arte. E’ il sapere di quel che non si vede in quel che è dato vedere, un vedere senza vedere, ancora. Non si può spiegare, in ciò che appare e si dà, eppure si lascia intendere dall’incedere, dai gesti, dal ritmo del tempo interiore. Il mondo si cambia se ci si cambia. Si trasforma se ci si trasforma. L’artigiano del suo saper fare non ha sapere che si possa spiegare e insegnare. Non lo sa spiegare. A chi gli chiede di insegnarglielo risponderà “guarda”, stai vicino e guarda. E in quel vedere diventi altro. Strano, starsi vicino. Stai qui, e guarda. Stammi vicino e capirai. Starsi vicino. “Quasi” e “senza” adesso si comprendono come “vicinanza”. Sara che la politica deve stare vicino alla filosofia e la filosofia stare vicina alla politica per tradursi quasi e senza essere l’una l’altra. Non sarà allora più il disaccordo che dovremmo spiegare, ma sarà l’accordo che dovremmo invece capire. Il filosofo, questo si, lo sappiamo, è come un artigiano di mondi, almeno a leggere il Timeo, è questa anche l’immagine del dio cui stare vicino e quasi, senza esserlo, guardare, in questo caso, guardare da vicino la vita per poter fare il mondo in modo artigianale. Bisogna essere artigiani di mondi, di relazioni, di legami, artigiani di mondi. Fare arte con le mani. Fare corpo, vivente. Ben sapendo che la voce è corpo. Di voce ci si somiglia tra padre e figlio, madre e figlio, come ci si somiglia nella parti del corpo. E la voce è la parte interna del corpo. La voce è come il corpo interiore. Sono le parole che fanno mondo, solo però a pronunciarle sono vive e vivo è anche il mondo che da ascolto alla voce, le voci che le parlano.

È anche una questione di tatto, di voce, di sguardo. Un vedere con mano. E con le mani spostare, scrostare, scavare, scoprire, far luce, toccarsi, dire parole che toccano. Un vedere ascoltando. Vedere con la voce. Anche le mani, nei gesti, esprimono la voce, danno voce a quel che si opera, danno voce alla materia, la fanno muovere, quasi se ne sente la voce, come ha saputo “spiegare senza spiegare” Gaudì nella sua opera dispiegando la materia lasciandole il conflitto di eccedenza con le forme, quasi che debbano essere amanti e nemici, amici e amanti la materia e la forma, per farsi viventi. Quasi che è così che siamo viventi come nemici amanti e come amanti amici. Portare quel “senza” e “quasi” dentro ogni organo di senso, incorporare il “senza” e il “quasi”. Avvinare l’orecchio. E udire quel che non si ode, ascoltare l’inaudito, il non sentito. Avvinare lo sguardo. E vedere quel che non si vede, l’invisibile. Toccare quel che non si tocca, l’intoccabile. Gustare, farsi sapio dell’insaputo. Ascoltare con la voce. Interiore. “Senza”, cioè dando ascolto. E scoprire che ascoltare veramente è quando ci si parla dentro di quel che l’altro dice e parlandosi aprirsi un varco interiore, allestire il proprio abitare il mondo. I sensi sono stravolti ogni volta che l’incorporazione scopre che c’è un dentro del corpo che solo la voce lascia trasparire e traduce. Incorporare è rivoltarsi.

Solo cambiando la filosofia cambia anche il mondo che si percepisce e si comprende, solo trasformandosi si trasforma il mondo. Cambia il proprio stare al mondo. Non più un’interpretazione, una visione del mondo, non più una filosofia politica, ma una filosofia che si fa politica nell’esercizio della traduzione, in trasformazione. Solo come trasformati si può trasformare il mondo. Forse, quasi, la filosofia cambia, trasforma, ed è questa pratica artigianale, della vicinanza, senza essere filosofi.

E’ difficile. Rimasi sorpreso la prima volta quando in carcere i detenuti mi chiesero degli intellettuali. Cosa fanno gli intellettuali? Prima prendevano posizioni, erano critici, indicavano le questioni, si facevano portavoce di disagio, denunciavano ingiustizie, facevano arte. Sono i detenuti a chiedere di quelli che hanno sapere perché non facciano sapere delle loro condizioni e aprano a soluzione, a spostamenti, provvedimenti. Una domanda che mi porta disagio. Sapere perché? Mi sono chiesto altre volte. A fare filosofia in carcere si comprende della funzione del sapere senza potere.

Di quali intellettuali mi parlano? Mi dicono di un tempo che non era così. Mi portano all’immagine dell’intellettuale organico del partito. L’intellettuale della resistenza che parlava di un mondo non ancora visto e che si doveva pure vedere in quello che accadeva. Poi ripenso a quella stagione quando l’intellettuale fu espressione irridente di chi resta chiuso nelle proprie elucubrazioni, fuori della realtà. Aveva una valenza negativa, irridente. Allora si ricorreva alla Undicesima Tesi su Feurbach.

Adesso parrebbe che il mondo sia intrasformabile proprio perché è in continua trasformazione. Liquido. Scorre via dalle mani. E’ come se la trasformazione fosse tale da non dare tempo a pensarla, a indirizzarla. Si è come travolti. E se la trasformazione significa insieme il senso, l’orientamento, il desiderio ancora, parrebbe di trovarsi di fronte e dentro una trasformazione senza desiderio. Avviene da sola. Così com’è.

Quel giorno Pasolini scrisse “io so chi sono i responsabili, conosco i nomi”. Non ebbe bisogno di indicarli, li nominò senza farne il nome. Senza averne le prove. «Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.» È un tale intellettuale, forse, che manca. Meglio, è l’uso del sapere che sembra aver perduto la sua applicazione. A che dunque sapere? Solo descrivere o raccontare quel manca e non quel che c’è e si dà? Non basta farsi scrittore della cronaca. Non basta farsi scrittore di prove, ma essere scrittore di verità, sapere la verità. Senza prove. Colmando il vuoto, lo spazio congiuntivo e muto. Dare voce alla parola inattesa. Dare parola alla voce attonita.

Non a caso sono i detenuti a reclamare l’assenza degli intellettuali. Loro, detenuti, dicono che gli intellettuali sono tenuti, a cosa? Se non a dar voce? A dare la voce. E’ questo che si dice anche del fare sapere. Dar voce. Sono i senza voce a reclamarlo. Reclusi. Non esclusi. Reclusi. La parola suona a doppia mandata sull’esclusione. Non hanno diritto, nemmeno la pena è intesa come un diritto a risarcire e restituire. Sarebbe nella sfera del diritto, perciò della democrazia. Un diritto da esercitare su se stessi a ritrovare, a ripensare o, in tanti casi, a scoprire quel che pure sono stati in una storia rovesciata, un’altra storia che incrociata a quella saputa.

Alla fine, a fare filosofia in carcere si finisce sempre per incontrare lo stupore di chi ti ripete che le cose che ci diciamo le si sapeva già, ma che non si sapeva di saperle. “Già”, è lo stesso che “Si”, un “si” retroattivo, rivolto a passato che si fa presente. Prende voce. “Già”. Non c’erano parole che le esprimessero facendo risaltare un Sé mai allestito dentro se stessi. Le parole sono relazioni. Sapere è farsi sapio di relazioni, sentirle e organizzarle in un racconto che ne ristabilisca una logica delle relazioni. Vere, senza prove. Vere, senza certezza. Come solo sono le cose vere, come sola è la vera libertà, il vero amore e l’amicizia vera. Senza certezza, perché vera è ogni cosa e relazione e valore che non si vuole perdere e che si sa si perde se non si sa essere veri. La verità si dice della relazione. In filosofia dell’amicizia o, almeno, della filia, per la quale sempre si tratta della verità. Alla fine si finisce sempre per chiedersi della verità nel dire la vera amicizia, chiedendosi, se esista. Come per la richiesta di una prova, ma senza certa. La verità è quasi certa. Una prova senza prova. Così si dice la verità, senza prove. Sarà così anche a tradurre la filosofia in politica, senza parti, senza partiti? Sarà una politica senza prove. Improbabile. Pasolini scrisse quel giorno del sapere senza prova, dando prova solo del sapere di verità, di se stesso, della sua esposizione. Lasciò scritto di un sapere sapio di desiderio, della mancanza di ciò che possedeva.

Una questione propria, personale. Ed è qui l’inciampo proprio della filosofia, la sua politica è personale. Riguarda le persone che la fanno, che operano politicamente. L’inciampo è che si tratti di qualcosa che resti limitata alla singolarità di un operare. L’inciampo è solo per chi intenda la politica come sistema, senza volti e persone. Invece è proprio dei molti, “poloi”, che si parla nella politica quando non è consegnata a sistemi di partiti. Voti e non volti.

Ogni volta ci si trova a dover fare la distinzione tra la politica e i politici. Ci si richiama all’Etica, per dire che è la scienza della politica, al suo grado più alto, ma che fa inciampo alla politica che se ne separa. Ci si affretta a distinguere la politica dai politici, bisognerebbe però nominare diversamente una tale distinzione che forse non è altra che la distinzione tra la politica e la filosofia ovvero che quando si fa riferimento alla politica non dei politici, Nietzsche diceva la “grande politica”, bisognerà intendere la filosofia tradotta in politica ovvero la politica, appunto, in grande. Così come ne ereditiamo il senso che evoca. Quasi filosofia, senza filosofia, vicina alla filosofia.

La politica dunque, a prenderla in parola: le cose che riguardano i molti che vivono insieme. Nemmeno la moltitudine, ma i molti. Il cerchio dei molti, là dove si trovano molti, le cose che riguardano molti. Non c’è universalità nelle cose che riguardano i molti. C’è il presente. Si comprende che la posta in questione non è il singolare versus l’universale, ma il plurale e l’universale. Sono le molte persone che organizzano per sé un luogo vivendo in un luogo comune. I molti che si danno luogo. Molti. I “poloi” della “polis”, c’è da riflettere se ancora si tratti di “polis” ovvero se i molti non siano diventati ancora di più. Bisognerà pure riflettere, quando si tratta di molti di quali siano i restanti. Ed è questa la difficoltà. I molti, quelli che rientrano in comune, in una normalità, in una normatività, sono i molti che fanno il comune e la normalità. I molti che si aggregano, che si seguono, in fila. Bisognerà allora vedere forse che la politica dei molti è l’esclusione ovvero che l’altra politica è contro i molti ovvero che la politica non è di molti. Dei restanti. Di quel che resta e di quelli che restano. Non di quelli che restano indietro, come vuole la propaganda dei politici, ma dei restanti, di quel che restano mostrando il confine dell’omologazione, del normale, dell’è così e non altrimenti. I restanti che non possono essere normali, gli esclusi dicono di un’altra immagine di società. Reclamano un’altra politica. Hanno desiderio di ciò che manca. Sono i fuori luogo. Quelli che vivono i luoghi d’eccezione. E dove è sempre il filosofo se non fuori luogo? La difficoltà è propria questa. Chiunque si trovi a leggere questo scritto capirà che si parla di una politica fuori luogo quando a tradurre la filosofia in politica si parla di una politica del desiderio. Un possesso senza proprietà. Ciò che dice, forse, ancora più marcatamente che chi fa politica non può avere interesse di proprietà, ma solo la passione di quel che manca perché quel che c’è, l’esistente, sia l’espressione vera di quel che è, il vivente.

In carcere. Sono i detenuti a reclamare gli intellettuali. Lamentano che non fanno niente, ricordano che un tempo partecipavano della vita politica, denunciando, prendendo posizione, schierandosi. Lo sento ripetere, senza poter dare una risposta. Gli intellettuali continuano a dare interpretazioni della globalizzazione e dello stato presente delle cose. Niente su come cambiarle. Eppure sono là con loro. A discutere, a ragionare di cura, di senso, di legami, di libertà. Non basta. Occorre la traduzione in politica. La filosofia che fa comunità. Occorre incidere sulle condizioni. Non essere un intellettuale. Né avere un partito che non sia il partito preso degli esclusi, dell’esclusione, dei non molti o di altri molti, forse, certamente, più molti dei molti che si stanno nel cerchio della normatività e della politica del comune. E’ qui, tra altri molti dei non molti che si dà la comunità senza comunità. Sono molti di più, molti altri,ma non sono molti, sono uno e uno e uno, uno alla volta. Ad uno a uno. Nemmeno singolare, se non, appunto, nel modo di un singolare indeterminato. Uno. Non individuato. Così come i molti senza molti. Singolare indeterminato. È singolare essere uno in questo modo in un indeterminato che è senza certificazioni di competenze e di registro penale o di merito. Singolare indeterminato è il racconto a dirlo, l’ascolto, non una tessera, non una matricola e nemmeno l’anomino dei molti nei “quartieri del buon dio” che non hanno volti.

Uno è qualsiasi. Tra i molti senza che si possa riconoscere tra i molti. Dentro il comune è dunque l’esclusione. Gli esclusi sono dentro, il fuori è dentro. La comunità senza comunità è dunque dentro la comunità, anzi, proprio per tale, per essere dentro la comunità è senza comunità. Uno è tra i molti. Allora ancora è politica, riguarda ancora i molti, ma singolari non determinati se non dal proprio racconto, dal proprio desiderio di avere quel che possiedono e che manca, semplicemente perché tolto. Sentirsi tolto ciò che non si aveva e che si possedeva è come togliere ciò cui tenere. È come togliere il desiderio. Escludere. Recludere. Debordare. Delirare. Stare al limite, Sul confine dove la vita non esiste e dove l’esistenza è senza vita. Tante volte c’è da riflettere come la questione etica, perciò filosofica e politica insieme, quella dell’eutanasia, si dà in tanti altre espressioni e situazioni. Anche per un ergastolano si tratta di una vita senza esistenza. Anche per un quartiere del disagio o del rischio, non importa la definizione, si tratta di un’esistenza senza vita. Anche nelle comunità di accoglienza, delle pene alternative, delle dipendenze. Ci si deve chiedere quale sia il centro, quale città. Se non sia perciò che i “molti” bene pensanti non siano quelli che pensano bene, ma che si danno pensieri a tenersi distanti, al sicuro, dall’esclusione, dagli esclusi. I confini della città sono interni alla città, sono interiori. Quando Platone pensava che il governo dei molti dovesse realizzarsi come governo di sé, parlava di una politica epimeletica, della cura—di. Non una cura accusativa. Non una terapia di oggetto, non di patologia. L’epimelesi è la cura al genitivo, generativa. In quella circolarità del legame di cura per il quale aver cura dell’altro perché l’altro prenda cura di sé e sia il Sé solo quel che si dà di altro per cui solo si può dire del se stesso come di un ritorno all’altro dall’altro. L’io è l’indeterminato del sé quanto il sé è l’indeterminato dell’io. Occorre conoscere se stesso e avere cura del se stesso. Della comunità stessa, in se stessa. Della comunità, perciò, senza comunità. Senza, lo stesso. Come può intendersi di ciò che ritorna a essere quel che non è stato ed è.

A partire da uno, dall’indeterminato singolare. Non è un paradosso. L’indeterminato singolare. E’ come “una vita” nell’espressione di Deleuze, in quel suo ultimo scritto, quando dice di una vita che si mostra in un uomo che non è più quel determinato uomo, ma una vita com’è nell’uomo. Non l’uomo universale, ma come l’uomo è nell’indeterminato essere singolare. Indeterminato, semplice vita. Nuda. Com’è la vita nel suo segreto. Non da scoprire, piuttosto da proteggere. Difendere. Ancora uno scoprimento che lascia nascosto. Se si vuole, ancora una questione di verità. Senza prova. Senza determinazione alcuna che non sia quella di un’esistenza che ne accolga la non comprovabilità. Ogni segreto dice del segreto come fragilità. Una vita. La vita come tale. La semplice vita. Nell’indeterminato uno si palesano l’uno e i molti, la vita e l’esistenza insieme. Ciò che c’è e ciò che è. L’indeterminato uno è il confine dei molti, dove i molti sono. La filosofia tradotta in politica non muove dai molti per arrivare a tutti. Non dai molti alla totalità, ma dai molti a uno e un altro e molti altri. Stare su questo confine è stare tra la vita e l’esistenza. La filosofia tradotta in politica è opera di legame, l’aver cura del legame tra l’esistenza e la vita.

Adesso è questo il punto: come incidere sulla realtà, come trasformare il mondo, senza più interpretarlo o darne una visione, ma cambiarlo fuori dalle organizzazioni che definiscono rapporti di forze e strategie. Il fatto è che anche le organizzazioni della politica sono diventate delle forze sociali, rappresentano delle aziende, collocamenti, imprese. L’una vale l’altra. Cambia la firma. Così accade che i partiti siano firmati. Così fan tutti i molti. Ed è in questo passaggio che si dà l’essere normale. Un partito è come un’agenzia, un’impresa. Si può essere assunti. Si è assunti. Non si assumono responsabilità. Chi fa filosofia ma è chiamato a farlo anche dentro il partito, stando da fuori. Per un partito senza partito. A meno che non sia il “partito preso delle cose” del poeta come quello di Francis Ponge o com’è quello del filosofo il partito preso della vita.

Uno, molti, altro. È la struttura del dialogo. Ancora a partire dal dialogo è possibile, ma per attraversare il discorso, passare attraverso il discorso, passare parola, dare la parola. Facendone sapere. Dare voce. Dialogare non è più che dare voce al discorso, dargli più voci e una e un’altra ancora. Ciò che non è normale.

Sarà, forse, questo il desiderio del filosofo. La politica senza normalità, fuori luogo dentro ogni luogo. Indeterminata. Singolare. Come può essere la politica del desiderio. Niente è più indeterminato e singolare del desiderio. Questo ne fa anche un segreto che si disvela solo nell’altro che lo accoglie per segretarsi ancora in un legame che resta indeterminato, senza prova, sempre da determinare, com’è in ogni relazione vera d’amore. Quel che manca, quel che ci manca. Accade, si può dire, è questo: la politica si enuncia sul desiderio e lo tradisce, lo manca. La politica manca il desiderio piegando sul realismo e sull’interesse. È la politica della proprietà.

Non sarà poi così sorprendente riflettere che la storia del disaccordo tra la politica e la filosofia nasca su un processo, su una questione giuridica, su un caso giudiziario. Atene. Socrate, il filosofo. Mettere sotto processo il filosofo che ha osato mettere sotto esame il politico. Un esame subito come intollerante dagli imprenditori del tempo, dai commercianti, dai retori, dagli intellettuali. Erano Anito, Licone, Meleto che li rappresentavano. Adesso sono altri i nomi, la questione è la stessa. Il Bene. Socrate accettò di mettersi a morte per lasciare la democrazia sul confine di un pericolo, quello di non essere democrazia. Occorre riflettere il doppio confine di quel “senza”. Non sarà, anche questa volta che la parola prenda in giro il pensare? Con “Essenza” è indicato quel che resta e manca di quel che c’è. Il che cosa era essere o l’essere che cosa uno o il che cosa era in essere, così si può intendere la traduzione della perifrasi To ti en einai con cui si dice “essenza”. La perifrasi gira intorno a queste volte del pensare che ritorna ancora una volta a quel “senza”, che non è negazione, ma mancanza che viene dall’essere che c’è e si traduce in desiderio. L’essenza è perciò vicina all’esigenza. Sarà anche ousia fondo su cui si regge ciò che c’è e che non si lascia investire, sostiene e si ritrae. Resta perciò da sostenere come ciò che ci sostiene. Un’esigenza ancora. Senza, non sarebbe possibile. Sarà ancora, di nuovo, l’arché, tradotto come origine, principio, ma ancora come l’arco che sostiene, come l’architrave, come sostanza che sostiene.

Strano argomento allora quello di Socrate che accetta la condanna della democrazia. Condanna che la democrazia gli commina e che nell’accettarla commina egli stesso alla democrazia. La lascia ancora sotto esame, sul confine. A fare i conti con la sua essenza, a ciò che le viene e resta dal senza al suo interno. La democrazia per affermarsi ha bisogno di questa condanna, della condotta, del filosofo. Ne ha bisogno per consolidarsi. La politica ha bisogno della condanna della filosofia, del suo disaccordo per farsi alibi della pratica concreta dell’agire. Ed è la condanna dell’innocenza. Del non colpevole. Il filosofo è solo, anche il solo, colpevole del desiderio. Colpevole del mancare. Si sottrae. Il suo sapere di non sapere immette una mancanza nel sapere che è la sua mancanza. È il desiderio di sapere, l’amore del sapere, che nell’accezione demonica dell’eros, sta a intendere un sapere che non sa.

Socrate dunque s’intendeva di erotica, come si legge nel Simposio. Non di politica. O non sarà proprio questo il punto del disaccordo? L’inconciliabilità di erotica e politica? O non sarà che come ricordavano Fedro, Pausania, Erissimaco, lo steso Aristofane, facendo da apristrada al discorso di Socrate, non sarà che occorre distinguere un eros da un altro, quello volgare, interessato a corpi e proprietà e guadagni invece che alla generazione, all’educazione, alla politica, appunto? La politica è erotica, erotizza. Fa però, forse, scadere l’eros a vuota seduzione, a ricerca di consenso, a inganno, buono a elargire sogni quando si tratta di enunciare un programma elettorale, che poi si lascia cadere come un foglio staccato dalla realtà dell’esistente.

A leggere il Simposio si capisce della traduzione della filosofia in politica, si tratta in quel dialogo della traduzione dell’eros in filia. De desiderio in legame. Del mettere insieme ciò che si possiede e non si ha. Si tratta del possesso senza proprietà. Si tratta di un bene senza beni. È sorprendente quando si legge nel Simposio quel passaggio: a che la filosofia? a che fare filosofia? A che giova a uno il bello? (204d) C’è quella semplice risposta, racchiuso nel generare nel bello il bene. E non nel bello di un corpo, ma nel bene che il bello dice di un corpo, di un’agire. Nel “bello” che si dice di ciò che è bene e nel bene che si riceve e che si dà. Il legame. Essere amico, meglio, aver caro il dio, legarsi in modo divino. La democrazia si regge sulla filia. Sull’amicizia, si dice traducendo la parola greca. Il tentativo del filosofo, di Socrate come filosofo, fu quello, ed è questo, di portare l’eros al grado della filia, facendone così politica. A ben riflettere il passaggio, la traduzione, dell’eros a filia, altro potrebbe, forse, non essere che il passaggio dalla passione al legame. Un passaggio strano perché porta su un piano di legalità ciò che non rientra sul piano giuridico. L’inciampo è questo.

La filosofia si separa dalla politica quando la politica si rinserra nel giuridico. Quando – è il caso di affermare – le regole si svuotano di relazioni. Quando il certo che è così si separa dal vero che è. Quando ciò che ci tocca e ci prende, e perciò si pone, nell’e/senza del desiderio si identifica con che tocchiamo facendone una proprietà. Quando l’identificazione certifica qualcuno facendolo essere ciò che non è. “Cartacertificando” competenze e pene, abilità e disabilità, occupazioni e disoccupazione. Tutto ciò che sfugge e si “indetermina” nella precarietà. Una precarietà indeterminata, a tempo indeterminato. Esposto. Posto sul confine. Lasciato senza desiderio. Perciò senza futuro. Bisognerà pensare allora a un futuro senza futuro. Interiore. Sarà allora di dare voce, di fare sapere, fare della stessa precarietà l’espressione di un legame di senso, di amicizia, di confine tra esistenza e vita. Ben sapendo che in questione non è il posto e il luogo, ben sapendo che i luoghi sono le persone che li abitano e che i posti sono delle postazioni, il da dove si guarda insieme legando le differenti prospettive e provenienze. In questione allora sono i legami. Sociali. La legalità in questo senso, che è pregiuridica, prima del giuridico, senza pregiudizio e pregiudicati.

In questione non è che uno non resti precario finché non trova collocazioni, è l’idea stessa di collocazione di mercato della società che cambiare ritrovando il senso mancante della comunità. Sono i legami sociali a rendere precaria un’esistenza. Sono le cose che riguardano i molti a rendere precario uno. Le cose che riguardano i molti, la politica cioè. I legami tra i molti.

La filosofia tradotta in politica è erotica. Generativa. È il caso di ribadire proprio in ragione di ciò che si perde e che muore. Ogni legame è precario quando non è si è legati insieme in una legalità sociale che dice di comune partecipare. Di una partecipazione di voci. Non si liberi perché si possa dire quello che si vuole. Si liberi sulla qualità del legame che si riesce a stabilire. La libertà è legame. Seppure potremmo affermare di essere in un paese libero, non per questo potremmo anche affermare che stiamo bene in questa libertà dove ognuno può dire quel che vuole e più vuole quanto ha più proprietà. La libertà è fatta di legami, qualcosa che precede il giuridico, ma che da senso al giuridico, in ragione del riconoscimento sociale. Chi non è libero è clandestino, chi non è libero è precario, chi non è libero è solo. Non ci si libera da soli, né si è liberi da soli, né la libertà di tutti è la libertà di uno solo. Si è liberi per legami.

La libertà è legame, la si misura dalla qualità dei legami che si riesce a stabilire. Ed i legami sono sentimenti, relazioni, sono fatti di tempo, del tempo che si trascorre e si ricorda e che ritorna. La liberà è quando si sa ritornare. Allora si può anche non ritornare. Ma se non si sa ritornare non si può ritornare. Il ritorno dice anche del riparo. La libertà si misura dai legami. Ci sono di quelli che costringono. Si tratta di allora di essere liberi di legarsi e slegarsi ogni volta. Un legame senza legame. Ancora una volta a dire della libertà è questa e/senza. Sarà il paradosso della lingua a dire dell’impossibile: la libertà senza libertà è legame, il legame senza legame è libertà.

Desiderio, nel Simposio si legge epitumia. Mancante è nel Simposio lo endees, da endeo, un verbo che indica l’uno e l’altro: il legare stretto e il mancare proprio. Stupefacente segreto della parola che indica in ciò cui ci si lega ciò di cui si manca. Stupefacente segreto questo del legarsi dei mancanti.

A un certo punto si chiede in quel ricordo/dialogo tra Socrate e Diotima, quale sia il vantaggio che procurano i filosofi ed è lo stesso di quello che procura Eros. Fare bene. Agire secondo ciò che è bene. Per la città. L’agire erotico è rivolto alla città, al bene della città, così si può traduce la passione in virtù, allo stesso modo che il desiderio è nel voler avere ciò che si possiede e che si può realizzare solo nel donare quel che non si ha, nel dono. Il proprio e l’improprio. Il comune. Un tale passaggio traduce l’erotica in politica. Lungo tutto il Simposio, nel corso perciò di tutta la riunione tenuta a casa di Agatone si discusse di come l’amore potesse tradursi in amicizia, eros in filia. La passione in politica. La conclusione è la generazione del bene nel bello. Non è così semplice.

Generare non è produrre. I corpi non sono prodotti. Nemmeno gli alunni di una scuola, gli studenti, potranno mai essere dei prodotti se l’educazione è generativa, se l’educare è un modo di amare. E lo è. La cura dell’animo è generativa. La filosofia tradotto in politica è educativa, traduce l’amore in amicizia, la passione in sentimento, il legame in libertà, la differenza nella singolarità, l’universale in uno, indeterminato. La filosofia fa politica nella scuola e come scuola, fa della città una scuola. Rimanda ai gradi di conoscenza. Un tempo si poteva dire presa di coscienza. Ed è lo stesso. Ciò che è personale e politico, meglio ciò che è proprio e improprio, ciò che è comune. Questo passaggio è sempre in questione.

Ed è il passaggio da eros a filia, dal desiderio al legame che ne organizza la relazione come sentimento, essendo il legame non più che la disciplina del sentimento. Il legame è nella legislazione del tempo proprio dedicato, ritmato dalla relazione, sentito come ricordo, “ritornativo”. Un tempo proprio capace di farsi voce nel presente comune. Parte del suo racconto, l’uno dell’altro, perché raccontare è dare voce al tempo. Al proprio tempo. Farlo risuonare. Il racconto è il tempo cui si da, messo in voce. Vissuto.

La traduzione di eros in filia passa per un rimando che non appare così scontato. Da eros a filia il passaggio è dal bello al bene. Come mantenere l’uno nell’altro. Come operare un tale passaggio senza passaggio? Come trovare il bene dentro al bello? L’uno non è l’altro. L’uno è quasi l’altro, senza l’altro eppure vicino. Lo riflette. Il bello che non riflette in sé il bene è un bene di proprietà. Il desiderio non fa bene, almeno non fa sempre bene. Può deviare, proprio quando giunge alla proprietà. Si conclude nella proprietà. Sarà perciò bene quando resterà anche bello senza essere bello, se non in sé, appunto, gravido. Mancante e pregnante.

Nel desiderio è esplicito un conflitto di volontà. Tra la volontà impropria e quella propria. La volontà da cui si è voluti, trascinati, e quella che invece è propria, il proprio volere, il proprio condurre, avanzare. La volontà del voler essere e quella del voler avere. Come fare dell’una l’altra? Come volere ciò che vuole la volontà involontaria, quella impropria? La volontà involontaria, il voler essere, s’impone ed è propriamente quella della vita. È il voler vivere. L’una è l’altra nel voler esistere. Ancora però un tale volere dell’una nell’altra volontà si apre alla volontà propria e impropria, quella di altri. Sarà allora l’esistenza comune, in comune a tenere insieme ancora un tale proprio e improprio.

Questo rispecchiamento della propria volontà di esistere nella volontà della vita e perciò insieme voler vivere, questa risoluzione del conflitto è in questione nel legame d’amore. In questione è il legame tra l’esistenza e la vita. Un conflitto generativo. Nel Simposio lo si comprendere chiaramente, ed è la questione. La volontà della vita è quella di riprodursi continuamente. La vita si riproduce, invade, come la natura selvaggia che s’impone. S’impone. Come trasferire una tale volontà nella propria. Come portare la vita al mondo. E  non scambiando la generazione in produzione e la riproduzione della vita in clonazione? Il punto è come trasferire la generatività della vita in un’esistenza generativa. La traduzione di eros in filia è la stessa traduzione della filosofia, una politica generativa. Generare il bene nel bello. Non produrre, non riprodurre, ma generare. Fare della produzione dei bene la generazione del bene. Già questo è ciò che è nel “bello”.

La generazione è anche la relazioni tra generazioni. Il passaggio mantenuto dell’una all’altra. Generare, alla fine, tempo, dare generativo della vita e il donare generativo dell’esistenza. La metepsicosi platonica altro non è che la conservazione dell’anima nel passaggio generazionale. Ed è una tale relazione che sta al fondo dell’educazione maieutica che è appunto tale perché aiuta a generare. Al fondo della scena maieutica già quella premessa che Socrate fa a Menone. L’anima è immortale. Nasce è muore continuamente. È immortale perché continua a nascere e morire. E non sarà immortale la mia anima, l’anima di ognuno, ma quella che è in ognuno. Sarà come l’anima che si ha in comune. La generazione di una cultura, di un’anima, che possa così trasferirsi in altri, farsi memoria di altri, rappresentare la cultura entro la quale si fa mondo della vita. Alla fine è questa la traduzione della filosofia in politica, questo passaggio dall’eros alla filia che significa semplicemente: mettere la vita al mondo e dare mondo alla vita. Generare mondo per la vita. Legare insieme esistenza e vita. Non lasciare una vita senza esistenza e un’esistenza senza vita. Mai. Ovunque mai. Una città è tale quando ovunque non è mai una vita non esiste e un’esista non ha vita. Ovunque mai. Senza esclusione.

È difficile. Socrate non capiva. Diotima gli ripeteva la domanda di quale vantaggio, in greco, traslitterato, ti estai ekeino, quale vantaggio ne viene a uno dalla ricerca del bello che è propria del desiderio? Socrate non capiva. Si rimetteva alle sue parole. Forse perché era una donna a dirlo? O forse perché solo una donna può dirlo? O perché ad ascoltarla si potesse tradurre? Ascoltare cioè. E ripetere. Trasferire in un’altra lingua. In un altro genere. Tradurre al maschile qualcosa che è proprio del femminile? Anche di questo si ha forse bisogno in politica, non di un’appropriazione del discorso dell’altra e negarla. Il bisogno è quello di continua traduzione da un genere ad un altro. Una traduzione di ascolto. Forse anche di questo si tratta adesso in politica. Restituire. Occorre ripeterlo, e non è mai abbastanza. Già la traduzione è una restituzione impossibile di ciò che viene reso in un’altra lingua. Forse però di queste traduzioni continue di restituzioni si ha bisogno per una politica che non sia di un solo genere. Forse l’amicizia di cui farsi capace è un’amicizia nell’amore, una filia tradotta nell’eros, quanto fin qui il tentativo è stato di una traduzione dell’eros in filia. Forse c’è bisogno di tradurre l’una e l’altra. Una doppia traduzione, capace di rappresentare una restituzione continua tra generi e generazioni. Non è difficile capirlo. Non è difficile intenderlo, Viverlo è difficile, far esistere una città mondo della vita dando vita al mondo in questo generare.

Socrate non capiva. Allora Diotima opera un passaggio, che appare ingiustificato, surrettizio, ma che Socrate capisce. Non gli fa un esempio. Cambia binario. Socrate non capiva quale “vantaggio” ne viene al voler possedere il bello, com’è nel desiderio d’amore. Allora Diotima gli dice di pensare al bene. Quale vantaggio ne viene a possedere il bene. Qui Socrate comprende che il bello è il familiare e il contrario è l’estraneo, così come il bene si vuole per tenere lontano il male. Bello è l’estraneo che diventa familiare quando nell’estraneo si ritrova il comune essere estranei, ospiti, della vita che ospitiamo. Strano trovarsi a riflettere che si dice “ospite” per indicare chi ospita ed è ospitato. Sorprende che anche con “amico” s’intende nella stessa, sola, parola l’uno e l’altro, l’essere amico dell’uno e dell’altro.Non sarà come per l’amante e l’amato che è una volta l’uno e una volta l’altro. L’amico è lo stesso. È due di uno. Uno e uno, ciascuno nella singolarità indeterminata del tempo dell’amicizia che è il tempo del ritornante, così come gli amici ritornano e come gli amanti conoscono l’eternità, gli amici conoscono l’eterno ritorno e nel ritorno è doppia ospitalità. Ritornare a vivere.

Allora di nuovo, che cosa Socrate non capiva o faceva finta di non capire per farci meglio capire a noi che leggiamo? Socrate non capiva quale vantaggio venisse dal volere qualcosa di bello. Allora Diotima gli fa capire che ciò che è bello deve educare il proprio sguardo a vedere il bello, fino a trovare il bello come un’espressione di ciò che si fa e si dice e si opera. Fino a operare nel bello. Fino a generare il bene nel bello. Solo quando l’uno è nell’altro, e non quando l’uno è l’altro, allora soltanto si da il bello in sé. Allora però non sarà una cosa che è bella, ma ciò che è bello nel generare il bene.

La filosofia tradotta in politica è una pratica di relazione sui confini del giuridico. Sui confini della città. Una politica che non si spinga sui confini della città è una politica che non da ascolto. Può anche ascoltare, ma non da ascolto, non permette ad una voce di farsi parola e comprendersi come propria. È sui confini dove si ammassa l’esclusione ammessa dalla città, prodotta dalla politica della città. In limine. Di qua da ogni linea giuridica e di là da ogni linea giudiziaria. La filosofia tradotta in politica dice di una politica senza politica, per ritrovare il desiderio per cui solo la politica è tale, usufruire insieme il bene comune. Ciò che è proprio e improprio. Com’è la vita. Propria e impropria. Senza proprietà, senza perciò operai schiavi. Senza studenti prodotti, formattati, masterizzati. Senza la precarietà a tempo indeterminato. Non è così difficile capirlo, è difficile operarvi, adoprarsi. Il punto è sempre quello: legare la vita all’esistenza e l’esistenza alla vita, la vita propria quella che si esiste e la vita impropria, quella che si è, perché ad essere felici lo si è solo quando la propria esistenza è piena di vita. L’improprio che è vita è in ogni vita, in ogni uno, singolare indeterminato. I luoghi di confine sono quelli abitati da singolari indeterminazioni.

Sono le scuole dove non si fa scuola, le carceri, gli ospedali, le periferie, i campi ovunque la vita è lasciata sola, senza esistere, ovunque una voce sia lasciata senza la parola per esprimersi e darsi il proprio tempo, il progetto della propria vita. Esistenza. Ovunque si sta senza esistere, senza venire dalla vita e vivere.

Piazza Tahrir è diventata un simbolo per l’Africa Mediterranea e per l’Europa. Piazza Tahrir è già stata altre volte. Già è stata prima la verità del suo desiderio. La politica degli amanti non è quella che si esprime nella lotta per un’idea di Amore. Non si dà un partito dell’amore. Si dà il suo racconto. I giovani di ogni piazza Tahrir, sono desideranti, amanti. Sono mancanti. Si mancano. Si cercano. Si ritrovano là dove non si erano dati appuntamenti, ma dove un luogo è diventato per gli amanti. Un luogo del desiderio. Simbolico. Si racconteranno per anni dei giorni della piazza, sarà una storia, un futuro, quello che hanno scelto di poter raccontare che fu, come “fu stato”.

Mancante è ciò che si fa simbolo, come dice ancora la parola greca “symbolon”. Mancante di quel che gli corrisponde come simile e dissimile. L’uno e l’altro come uno e altri. Molteplice e molteplici. I giovani delle piazze di Tahrir, uomini e donne, generazioni differenti, generano non una cosa, lasciano una mancanza. Non un partito, né uomini al governo. Lasciano un governo mancante. Da fare, da generare, generante un altro tempo, bello. Bene nel bello. La filosofia non fa politica, sta nella politica, si introduce, vi si traduce, traduce la politica nel “senza” di ciò che di cui non può fare a meno per essere la felicità di tutti, la posta del desiderio di una città adoprandosi a vedere quel che manca in quel che c’è perché ciò che c’è, la città, sia veramente quel che è.

I ragazzi di piazza Tahrir sono ragazzi in fuga, come gli amanti sono fuggitivi. Sono profughi del desiderio di un mondo imperfetto che racconti quello perfetto, come gli amanti si raccontano dell’amore vero.

La politica del filosofo è una politica raccontata, raccolta nei legami. Pregiuridica. Pregiudicata. Si dà nelle relazioni. In ciò che è caro e che non si può perdere. È la politica dei sentimenti. A Scampia, la mia Africa, le mamme, le donne, raccolte intorno. In cerchio. Raccolte intorno al fuoco delle voci che s’innalzano e s’inseguono come le fiammelle del camino. Parlano di sé. Fanno legame. Usciranno da quegli incontri per andare alle loro case, non più come prima. Lo spazio pubblico che è attraversano è adesso uno spazio comune. Proprio e improprio. Di nessuno e di ciascuno. Di tutti e di ognuno. Se ne ha cura come proprio e non è proprio. Si ha cura del fuori. Dentro.

La legalità è fatta di legami. Prima che giuridica e affettiva. In carcere, a stare insieme, guardie e ladri di giustizia, in cerchio, capiamo che le regole sono le relazioni che le generano. Capiamo che le regole senza relazioni sono vuote e che le relazioni senza regole sono cieche. Ci raccontiamo il sapere che abbiamo e che ci ingabbiati per non essere girato nel proprio non sapere. Per sapere ancora.

Tra gli immigrati riconoscere i gesti, gli stessi di chi emigra da dove altri immigrano. Passando da una parte all’altra. E capirsi tra lingue straniere al solo suono della voce che significa quel che si sente e fa di ogni segno il ricordo di un gesto. E sentirsi straniero avvertendo nostalgia per ciò che si è lasciato insieme avvertendo la paura per ciò che ci si trova intorno. La solitudine dello straniero è tra la nostalgia e la paura. Sono gli affetti più vicini al desiderio che è nostalgia di ciò che c’è e che manca, mentre della paura mantiene l’emozione, ma all’inverso, chi desidera vive quella strana paura di avvicinarsi a ciò che non conosce ed è il suo sapere di non sapere.

In questi luoghi si apprendono legami e limiti. Altri. Singolari. Indeterminati. Non d’eccellenza di un centro. Eccezionali. Si stabiliscono regole di relazioni. Si è come all’inizio. A prima. A una politica prima. Vi si apprende presto che le cose inutili sono quelle importanti e che le cose utili sono quelle necessarie. Tanto più necessarie quanto rendono possibile le cose importanti. E sono i gesti di attenzione. La parola del sentire. Quella che non si sa dire e che lega. Le parole dei legami. Della vicinanza. Le parole per non dire se non il sentirsi l’uno e l’altro. La filia che traduce l’eros, facendo del desiderio un sentimento di legame, è vicinanza. Starsi accanto. La politica non può aspirare a una città più perfetta, quella che si scopre nei momenti di pericolo, dove ci si sente mancanti e mancare e dove ognuno si fa vicino all’altro che era estraneo riconoscendosi estranei l’uno all’altro e perciò uguali, mancanti uguali, desideranti uguali di non perdere ciò che sentono, possiedo e vogliono avere per essere, viventi.

La pratica della filosofia come questo tradursi dell’eros in filia che è ancora tradursi, come l’amico che si traduce nell’amico e lo traduce in se stesso, non per empatia. Non perché è lo stesso. L’amico vero è chi traduce, ti fa tradurre. Non sarà chi ti giustifica o ti giudica. L’amicizia non è giuridica. Non è accusativa. È genitiva. E non di un genitivo soggettivo e oggettivo, ma di un genitivo che è dell’uno e dell’altro. L’amicizia è l’amore di genere, generativo, ancora di più se è filia di generi differenti, di generazioni diverse. Il tempo della filia è senza tempo. Chi vede da lontano due amici penserà che si stanno raccontando l’uno dell’altro in quei racconti in cui ci si ritrova. Gli amici ritornano sempre, sono ritornanti, aggirano il mancante con l’essere ritornanti. Non si mancano, ritornano. A vederli da lontano sembra che si racconti del tempo passato, in vero è solo che si vogliono bene e vogliono il bene, saranno in piazza, a Tahrir, s’incontrano, si ritornano dove non erano mai stati.

C’è una responsabilità politica per chi fa filosofia. Non è istituzionale, ma si può dare, si deve anche dare nell’istituzionale per modificarlo verso il comune, come di ciò che è proprio ed è non proprio. Non è giuridica, ma deve spingere il giuridico come a spingere le regole a rappresentare le relazioni che le sviluppano, come spingere il diritto verso il giusto, il bisogno verso il desiderio, l’utile e necessario verso l’inutile e importante.

La filosofia è in pericolo. Sempre è in pericolo. La sua istituzionalizzazione accademica è la preservazione di un morto. L’eliminazione di un pericolo. Tutto ciò che è in pericolo è anche pericoloso. La filosofia è in pericolo. Ragiona di stati di eccezione. Fa del vivere qualcosa di eccezione per l’esistenza. È pericoloso, perché la sua politica è fuori dalle amicizie di partito, fuori dell’interesse dell’amicizia fatta a scala. La filosofia è in pericolo, perché la verità è sempre in pericolo. Sempre è da venire e si può fare di tutto per non farla venire, basta dire di saperla. La filosofia si occupa solo di ciò che è vero. È pericolosa. In pericolo. La chiusura o il ridimensionamento dei dipartimenti di filosofia accademica, toglie ancora di più la filosofia dal mercato. Ciò che favorisce ancora di più l’espressione di una filosofia fuori le mura, come di una filosofia politica degli amanti.

Nomade, come sono gli amanti, perché amore non significa “senza morte”, ma mancante di dimora, “senza dimora”, di luogo in luogo. Sempre fuori luogo a vedere quel che manca in quel che c’è in ogni luogo perché possa essere veramente quel che è. Come a vedere quel che manca ad un paese, il nostro perché sia quel che veramente è. Com’è vedere quel che manca all’esistente perché sia esistenza vera.

“Lo affermo non già in quanto filosofo, ma sopratutto come educatore … perché la ricerca, la difesa, l’illustrazione, la diffusione e la discussione della verità è ciò che rende simile la filosofia all’educazione. Mi spingo perfino ad affermare di avere seri dubbi sul fatto che oggi la filosofia possa essere altro che la filosofia possa essere altro che la riflessione sulle verità della nostra conoscenza; una riflessione che deve servire da imprescindibile base e precedere qualunque compito educativo. Senza verità non c’è autentica educazione, naturalmente: ma non varrebbe neppure la pena di sforzarsi perché quell’educazione ci fosse”. (Savater)

Educare è un modo d’amare. Si può solo nell’indeterminato singolare. Tale è la relazione educativa. Com’è la relazione d’amore. Eccedente. Corrispondenza del non corrispondente. Un di più che viene da una parte e dall’altra. Gli amanti non si corrispondono se non in questa eccedenza dell’incorrispondente amore dell’uno per l’altro quale espressione di un possesso che non si ha. L’altro. La filosofia è nella relazione di verità educativa. Non educazione. Educativa. Non certo una pedagogia. E’ un’educazione senza didattica che non sia indeterminata, senza prova. Una scuola senza scuola. Semplicemente fuori della scuola, ma dentro. In questo continuo rimando del senza, come luogo senza luogo, in questo rimando del fuori e del senza, s’incontra l’indeterminato singolare, il non normale nei molti, come non fanno tutti. Il volto dell’indeterminato singolare è chi senza e fuori e viene da fuori ed è senza essere quel che veramente è. Una vita. E’ nel carcere, nella scuola, come su ogni confine interna della città, sui luoghi d’eccezione della democrazia, dove solo la democrazia può parlare della sua verità, insieme alla colpa dell’innocenza o al giusto che non trova diritto. Luogo. Ancora. Ancora, com’è nel desiderio degli amanti.

La filosofia non deve fare politica, né farsi politica, peggio ancora, se è filosofia della politica. Il disaccordo deve poter stabilire un altro accordo saranno come due voci, che non dicono le stesse parole, ma che non per questo non sono in accordo. L’una traduce l’altra nella sua esigenza, nel suo “senza”, del quale non può fare a meno per continuare a esprimersi nel proprio nome. L’una traduce il “quasi” dell’altra, per dire di quanto l’esistente ne sia l’espressione. Una si traduce vicina all’altra. Si accostano. Vanno insieme. Come amanti e amici. L’una sa il segreto dell’altra. La sua fragilità, che custodita e sostenuta, si traduce in potenza. Ed è il desiderio il segreto della fragilità, lo stesso che potere senza potere, come si può affermare che sia la potenza dell’esistenza che custodisce la vita come bene comune. La politica è chiamata dalla filosofia ad assicurare il diritto di un tale segreto, quello per ognuno di sapere e dare senso alla propria esistenza, il diritto del privilegio di vivere.

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Testi ripensati

 

K. Marx, Tesi su Feurbach

J. Ranciere, Il disaccordo, Melteni, Milano 2007

J. Derrida, Politiche dell’amicizia, Cortina, Milano 1995

M. Heidegger, L’abbandono, Il Nuovo Melangolo, Genova 2004

Platone, Apologia, Simposio, Menone

R. M. Rilke, Quaderni di Malte, Garzanti, Milano 2002

J-L. Nancy, Le partage des voix, Galilée, Paris 2002

G. Leibniz, Discorso di metafisica, La Nuova Italia, Firenze 1992

Agostino, Le confessioni, Newton Compton, 2010

M. Mauss, Saggio sul dono, Einaudi, Torino 2002

G. Deleuze, Due regimi di folli e altri scritti, Einaudi, Torino 2010

G. Deleuze, Che cos’è la filosofia, Einaudi, Torino 2002

G. Deleuze, Spinoza e il problema dell’espressione, Quodlibet, Macerata 1999

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