Caro Walter, mi hai chiesto, ormai è più di due mesi, di scrivere cosa pensassi a riguardo di quel testo, bellissimo, sul “trapassare” che hai pubblicato sulla tua rivista. Non bisogna mai chiedere a qualcuno di scrivere delle cose che incontra di continuo nel suo studio. Difficile tenere in una pagina tutti i pensieri che arrivano a cercare spazi di linee nella scrittura. Così ti ho fatto attendere. Ci provo ora, seduto sulla panchina del paese, una di quelle messe in disparte all’angolo di Largo Tosti. Scrivo così, assorto e dominato da un solo pensiero: l’aldilà è nell’intimità.
Ciascuno di noi è fuori ed estraneo a tutti gli altri. Solo nell’intimità di chi l’ha caro, ciascuno è veramente se stesso. La morte ci ricompensa dell’ospitalità di chi ci vuole bene e ci mantiene nell’amore del suo ricordo. La morte educa alla comunità che è propria di ogni paese. La morte avvicina, riunisce. La comunità è intimità condivisa di una memoria esclusiva. Ci fa sentire insieme. Le confessioni religiose insegnano questo rito di passaggio dal visibile all’invisibile, dal certo al vero, come Gesù che ammonendo chi voleva convincersi della sua resurrezione toccandolo con mano, gli disse “noli me tangere”, “non mi toccare”, per sapere se sono io, perché non sono come un oggetto qualsiasi che hai davanti e del quale puoi verificare la certezza d’esistenza, io sono vero per come “ti tocca” dentro la mia presenza, come puoi sentirmi nel tuo animo. Tale rimane il suo insegnamento.
“Trapassare” si dice del passare dall’altra parte della vita, quella che non sappiamo. “Trapassato” si è anche dal desiderio, dal portarsi affetto, a volersi bene, amarsi. “Trapassato” è chi è attraversato da parte a parte nel corpo. Anche da un corpo a un altro. La somiglianza testimonia di questo segreto, perché la somiglianza è come il ricordo del proprio corpo in quello di un altro. Ogni vita nelle sue sembianze ricorda quella che l’ha preceduta e avuta. La somiglianza è come la rimembranza vivente del vissuto di altri, il suo desiderio e la sua nostalgia, due sentimenti che si toccano insieme, si sfiorano nel pensiero della mancanza, del perdersi e del ritrovarsi avvenire. La metempsicosi ripresa dai filosofi sa ancora del “trapassare”, lo traduce come passaggio dell’anima da un corpo a un altro. Si può dire ancora così della somiglianza che è quasi della metempsicosi è la traccia, ne è l’impronta. Socrate diceva che non è immortale la mia anima, ma l’anima che è in me. Quel giorno a casa di Menone raccontava come l’anima nostra nasce e muore molte volte, passando da un corpo a un altro. Fu da un tale principio che poté mostrare come anche chi non avesse fatto studi istruendosi di geometria, come lo schiavo di Menone, poteva ricavare la lezione di un teorema, purché fosse però “nato in Grecia e sapesse essere greco”, perché è di quel popolo la nascita della geometria come scienza. Era perciò un sapere diffuso, utilizzato comunemente. È come se in una comunità di pescatori non si conosce l’uso della rete. Socrate così lasciava intendere come non sia immortale l’anima individuale, ma quella che è in ognuno e rappresenta l’anima della comunità, quella del paese, come posso intendere l’anima di San Vito, abruzzese, che permette di riconoscersi nella somiglianza dell’intimità, per quante possano essere le differenze di uno a uno. L’anima dice dell’appartenenza.
Dove allora andiamo, morendo? Andiamo dove restiamo, nell’intimità della benevolenza di chi ci tiene nel suo ricordo, rimaniamo nella somiglianza di chi ci caro, nell’animo di chi ci vuole bene. Non sarà da chiedersi allora dove si va, trapassando, ma dove si resta morendo come parte di una familiarità del bene comune.
Platone racconta così di quel soldato che fu colpito a morte in guerra e trapassò, trovandosi nell’aldilà. Qualcosa però resisteva a tenerlo in vita. Si riprese. Poté allora raccontare di quel che aveva visto al di là, di come la propria anima si ritrovasse in un altro corpo a scelta della misura di quel che era stato prima in vita se giusto o ingiusto. Un sogno fu il suo racconto, come ogni volta è per noi un sogno il pensiero dell’aldilà, il sogno di un mondo migliore di quel che è di qua.
Windsor Adorno fu tra i sopravvissuti alla follia nazista del genocidio. In un suo libro racconta di un sogno da allora ricorrente, sognava di non essere lui a vivere, ma era egli stesso il desiderio di vita di quanti furono trapassati dallo sterminio nazista. Ognuno di noi è il sogno di chi è vissuto, ognuno è come il sogno di un’altra vita, che viene dall’aldilà, altra. La nostra vita è come il sogno del desiderio di una vita non vissuta ancora, di un mondo diverso da quello che c’è. Nell’affetto che ci lega nell’intimità della comunità è custodito il desiderio del bene comune. Trapassare, al di qua dell’esserci, è generare, tramandare, lasciare. È questo che pare mancarci adesso, la tradizione, il movimento reale che modifica l’esistente nella vocazione delle nostre terre. Questa mancanza rischia di farci perdere l’anima della comunità e l’intima utopia di un mondo vero.
La comunità è intimità condivisa, ci si riconosce. Anche la terra ha un’anima. I luoghi hanno la propria vocazione come parimenti chi li abita ha quel tono proprio della voce. L’anima non è dentro il corpo. L’anima è la parte interna del corpo. L’anima è la voce, vive nell’intima risonanza del proprio essere e abitare. Di voce ci si somiglia. I figli hanno la voce del padre. Quasi che sia la voce che trapassa da un corpo a un altro. La voce è come l’impronta genetica dell’anima. Non bisogna allora perdere, la voce e l’anima. Bisogna tenerle insieme, dare voce all’anima e anima alla voce, stare alla vocazione dei luoghi che abitiamo e diventare quel che si è, dando vita al mondo e mondo alla vita.
San Vito Chietino
Agosto 2014