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Il Salotto del Pensiero

Marzo 3, 2012 Posted by Scuole 0 thoughts on “Il Salotto del Pensiero”

Il “Salotto del Pensiero” è un luogo di voci, di parole, di attenzione, di cura, di ascolto. È organizzato all’interno della scuola. Non un luogo di sospensione o interruzione dell’attività curriculare della formazione, ma un luogo dove l’attività formativa possa trovare nuove espressioni e disposizioni su percorsi e per relazioni che decostruiscono il rapporto di classe configurando una più esplicita comunità di ricerca.

Il “Salotto del Pensiero” è il progetto che nasce all’interno del corso di filosofia per la scuola dell’obbligo denominato “Scuola dei Sentimenti” coordinato dal prof. Giuseppe Ferraro, e del quale la prof.ssa Anna Serio è responsabile per la SMS “G. Gigante”. Il progetto trova coinvolte altre scuole che hanno organizzato a tal fine uno spazio alternativo con uguale denominazione a Napoli, Caserta, Chieti, Lanciano, Mantova.

La sua ispirazione s’inserisce nell’esigenza sempre più diffusa di portare la filosofia nella scuola dell’obbligo, non come ulteriore “materia”, ma come pratica di relazione disciplinare al fine di esaltare la funzione delle classi come comunità di ricerca esaltando la relazione di apprendimento e di insegnamento in una circolarità tale che ne riabiliti ruolo e funzione.

La sua pratica aderisce ai Programmi della Comunità Europea nella prospettiva di progetti culturali che liberano le differenze da barriere di esclusione e rilancino il piacere di apprendere, non riferito alle sole facilitazioni ludici, ma per riportare lo stare insieme a scuola alla riscoperta della conoscenza come cura di sé nell’espressione di appartenenza ad una comunità di differenti.

Il principio guida del “Salotto” è di restituire alla scuola una propria “abitabilità”. L’intento è riattivare un patto di fiducia tra docenti e genitori, tra studenti e insegnanti, che permetta una continuità di percorso formativo senza “pena” di confini, senza campi disciplinari astratti dall’esigenza di una vita in comune.

Il presupposto è che i luoghi sono le persone che li abitano. Condizionano e sono condizionati dalle azioni che vi si svolgono. Ogni luogo esprime una precisa organizzazione del tempo che si esplicita nella sua particolare configurazione. Come le stanze di una casa definiscono un ambito diverso di azione, così ogni luogo suggerisce tempi e modi, agio e finalità della funzione per cui è organizzato.

I luoghi nella propria organizzazione dello spazio definiscono una precisa legislazione del tempo, per cui si usano in certo tempo, ospitano in un certo tempo, permettono di operare precise azioni secondo tempi stabiliti. Ogni luogo ha perciò la sua osservanza ed è come tale disciplinare. Non si può svolgere un’azione in un luogo dove l’organizzazione dello spazio e del tempo comporta altre azioni e abitazioni. Ogni luogo pertanto ha una precisa connotazione simbolica. Da queste premesse segue lo statuto:

– Il salotto del pensiero è un luogo di continuità formativa che ospita e rende possibile una relazione educativa ispirata all’idea di una comunità di ricerca.

– Ospita un’intera classe ovvero un gruppo di comunità composito di genitori e di alunni.

– Promuove obiettivi formativi.

 – Procura modalità funzionali di ascolto, di lettura, di dialogo.

 – Esclude attività finalizzate a scopi individuali o di gruppo inaderenti alla relazione educativa.

– Favorisce incontri con genitori e misti, con genitori, docenti e alunni, al fine di riattivare il patto di fiducia formativa che riabiliti un rapporto diretto tra la casa e la scuola come percorso di ritorno formativo di cultura.

Corso di filosofia a Carinola

Marzo 1, 2012 Posted by Carceri 0 thoughts on “Corso di filosofia a Carinola”

Siamo al 13 di ottobre 2011 è il quinto anno questo in cui ci troviamo in cerchio.

Gavino, Croce, Salvatore, Lorenzo, Antonio, Aurelio, Andrea, Antonino, Giuseppe.

L’argomento di quest’anno sarà il rapporto tra Comunità e Società, il Corso sarà dedicato all’Etica Sociale. Lo stesso che terrò con gli studenti all’università, il percorso e i testi non saranno gli stessi, perché un cammino formativo si dispiega dalle esigenze e dalle voci che si esprimono in un dialogo comune.

Oggi abbiamo appena cominciato a porre la questione: parleremo di Etica non più nella prospettiva della relazione personale, ma in quella del rapporto Comunità e Società.

L’incontro ha avuto un’introduzione che può sembrare lontana o estranea al cammino del Corso. Ci siamo seduti in cerchio. Ho chiesto anche per me una sedia uguale a quella di tutti gli altri, non di stoffa e con braccioli, ma di legno, semplice. La trovo più comoda, ma anche giusta. La simbolica della “tavola rotonda” è chi vi siede intorno ha pari dignità, non ci sono gerarchie. Se, però, le sedie intorno non sono uguali anche la tavola non è più rotonda. Si fanno differenze e gerarchie. In una relazione formativa, le gerarchie sono interiori e sono diverse per ognuno e in ogni momento possono cambiare. In ogni caso sono gerarchie di ascolto, di ammirazione.

C’è prima l’esigenza di parlare del Polo Universitario che si sta finalmente costituendo. Arriveremo, si spera, anche a disporre di una sezione specifica, ma importante sarà il servizio di comunicazione tra l’ateneo e l’istituto che consentirà aggiornamenti didattici necessari allo sviluppo del proprio percorso di studi. L’università permette di acquisire una disciplina. Ciò che è più difficile nello studio non è l’apprendimento di questo o quel contenuto, ma lo stare seduto e concentrato per più di cinque minuti. La disciplina è il tempo dell’attenzione e della cura di cui ci si fa capace in una relazione che riguarda dapprima se stesso.

Antonino parla del percorso disciplinare di ognuno che, se immerso in un cammino, può non trovare una critica a quello che svolge. Porta perciò l’attenzione sulla necessità dell’autocritica. Il sapere rende le cose più veloci, aggiungo. Uno quanto più sa, più velocemente riesce a risolvere delle questioni e superare degli inciampi. Anche nella condizione del carcere, quanto più si conoscono le dinamiche di relazione più si riesce ad accelerare richieste ed esigenze. Ci abbiamo messo tanto tempo ad avviare il Polo Universitario, c’è voluto il tempo di sapere il funzionamento di meccanismi di relazione e comunicazione. Quanto più si sa più si vede e più si riesce a fare critica e autocritica. Il sapere innalza, metaforicamente, va volare, permette di vedere dall’alto, offre una visione a più punti di osservazione, permette perciò di trascendere, di avere una visione trascendentale delle cose, che non significa metafisica, ma alta. Si vede di più. Così i paesini costruiti sulle rocche, permettono una maggiore difesa, così le torri. Il sapere si rapporta al vedere e questo alla cura. C’è però l’inciampo più grande per un detenuto quello di trovarsi pure a sapere le cose, ma di trovarsi poi di fronte persone che non vogliono sapere di quel che è giusto fare ed operare. Il sapere non è senza la volontà delle persone che lo svolgono. Così ripeto che non sono le istituzioni cattive o sorde, perché le istituzioni sono le persone che le rappresentano. Cambiano se cambiano le persone. Un giudice è persona d’istituzione, la difficoltà personale è quella di interpretare, considerare, confrontare, intuire, provare, anche osare certe volte. Certo però la cosa più semplice è “far parlare le carte”, trincerarsi dietro i fascicoli.

Parliamo dell’ergastolo ostativo. Di come se ne possa uscire. E di come sia una battaglia per la democrazia e non a favore di uno o di un altro cessare una misura di ostatività che l’ammissione di una misura di prigioniero di guerra senza che sia dichiarata esplicitamente la guerra. Si parla perciò di come la cosiddetta mafia non sia espressione di un esercito in guerra contro lo Stato, ma che produce un danno sociale di cui lo Stato ne risente. Non a caso sono poi anche i funzioni dello Stato a trovarsi vittime.

Lo Stato ha la funzione di garantire la sicurezza sociale e il benessere dei suoi cittadini. Accade però che per tenere la sicurezza manchi l’obbligo del benessere. Basta considerare le spese per la sicurezza dello Stato e come queste potrebbero essere rivolte allo stato sociale e quindi al benessere. È un paradosso. La mancanza di benessere sociale crea insicurezza e per sanare l’insicurezza si manca ancora di più la spesa del benessere.

Come uscire dall’ergastolo ostativo ovvero come uscire dal fine pena mai se non ci sono collaborazioni di giustizia. Ritorniamo a parlare dell’esigenza della collaborazione sociale che rappresenterebbe la vera via di uscita da una storia dentro la quale ci si trova coinvolta e che per molti è ancora una storia finita, non solo sul piano personale, ma su quello epocale.

Storia personale e storia epocale, storia sociale e storia individuale. Bisogna riflettere su questo doppio percorso. Non basta l’ammissione di aver fatto parte di una storia riconoscendo un’appartenenza che confonde la comunità di cui si fa parte, il paese, la cultura, l’ambiente, e la società organizzata entro cui ci si trova impigliati, per scelta consaputa o perché inconsapevolmente travolti. È difficile  per chiunque trovare il filo che permette di individuare la storia personale da quella sociale, il proprio tempo e quello storico di una determinata evoluzione di condizioni generali di vita di un paese.

È tuttavia il percorso personale, il mettere alla prova che diventa necessario indicare. Dopo 20 e più anni di detenzione qualcosa deve pure emergere se quegli anni sono vissuti ad apprendere, a capire, a liberarsi da chi e cosa si è stato, assumendo una disciplina come cura di sé che è sempre effetto delle relazioni.

 

I Letterati: incontro con Giuseppe Ferraro

Marzo 6, 2011 Posted by επιμελεια - Epimeleia 0 thoughts on “I Letterati: incontro con Giuseppe Ferraro”

“A scuola di sentimenti”

Marzo 3, 2011 Posted by Scuole 0 thoughts on ““A scuola di sentimenti””

Il progetto è stato realizzato nell’a.s. 2004-2005 presso la scuola secondaria di primo grado “Chiarini-De Lollis” di Chieti con la classe IF, formata da 20 alunni.

Il progetto è stato attuato in cinque incontri (cinque sabati consecutivi) della durata di circa due ore l’uno e curato dalle insegnanti di lettere e di sostegno le quali preparavano ciascun incontro con la consulenza e la guida del prof. Giuseppe Ferraro.

In ogni lezione venivano analizzati alcuni sentimenti (vedi Mappa). Il lavoro consisteva nel parlare dei sentimenti: come si riconoscono e come si esprimono. È infatti importante distinguere le emozioni, che fanno parte del momento, dai sentimenti che si educano, si formano, si costruiscono nel tempo. Ogni incontro era scandito da particolari momenti: l’arrivo del prof. Ferraro in classe e la presentazione del sentimento, l’entrata in aula di psicomotricità, oscurata da pannelli alle finestre, la visione e l’analisi di diapositive rappresentanti colori, immagini e foto. Ogni ragazzo era libero di manifestare le proprie emozioni in relazione a ciò che vedeva. Gli veniva richiesto di relazionarsi all’immagine, al ….

La verifica e la valutazione delle conoscenze ed abilità e del comportamento sono state svolte in itinere con l’osservazione sistematica e analitica; inoltre sono stati oggetto di valutazione il diario di bordo e tutti i testi poetici e narrativi a carattere soggettivo degli alunni.

Documentazione:

– Materiale inserito nel Portfolio: schede personali sui sentimenti; racconti, narrazioni, riflessioni personali, poesie e temi.

– Diario di bordo.

– Allestimento di una mostra con il materiale raccolto.

– Realizzazione di un fascicolo con il percorso del progetto.

– Pubblicazione del materiale più significativo sul sito web della scuola.

Il potere dei sentimenti

Marzo 27, 2010 Posted by Approfondimenti 0 thoughts on “Il potere dei sentimenti”

Non so quanti di voi erano presenti lo scorso anno a questa manifestazione che si ripete con puntualità a ogni inizio di primavera. Ed è giusto che un convegno che ha titolo «L’arte della Felicità» abbia in queste giornate la sua celebrazione, quando è la prima vera, all’inizio del ciclo del tempo della natura. Fu un sentimento, l’amore della madre terra verso la natura, a commuovere il dio degli inferi a restituire la figlia, a farla rinascere ogni volta, a rifiorire. Si dice “stagione” per indicare un tempo della natura che è uno stadio, una stanza, una “stazione” della natura, un sostare, un dimorare, uno stato, quasi dell’animo della vita. Il tempo in natura dimora, si svolge stando, dimorando. Passa giacendo. E’ l’età, ma che si rinnova ogni volta. E’ sempre là ad aspettare un nuovo passaggio. Alla “prima” “vera” spetta la nascita, il venire ed è un venire ritornate, atteso, come mai prima. Ciò che è vero è sempre ogni volta primo, per quante volte possa essere già stato non sarà mai uguale. E’ così anche quando si ama veramente, sia stati già altri amori, sarà come l’unico vero e primo. La verità è così, si viene sempre a sapere, viene sempre al sapere e quando è saputa scompare. Non è mai scontata. Anche l’amore, che dei sentimenti è il primo, non è mai scontato, mai possibile, è sempre sorprendete e impossibile, porta possibilità mai concepite prima, possibilità impossibili. Se è scontato l’amore, non è più vero, perché il vero è sempre venturo. La verità è inaugurale, stabilisce sempre un inizio, un prima, tutto ciò che la precede recede. Cade indietro. La verità viene sempre prima e le prime cose vere sono sempre quelle che dicono dell’inizio di nuova vita. Un prima che viene da dentro, insorgente. La verità abita dentro noi stessi, diceva Agostino. La si deve saper abitare e abitando accoglierla, abitarla in noi stessi.

Lo scorso anno abbiamo parlato della paura. Allora sostenni il rapporto tra paura e desiderio. Dicevo che le emozioni che accompagnano la paura sono le stesse che accompagnano il desiderio, ma come allo specchio, le parti s’invertono. Concludevo che bisogna donare la propria paura. E la si può donare a chi si ha caro. Nel dono la paura cambia in cura. Una madre dona la propria paura al figlio, a chi ha più caro. Il figlio raccoglie in sé la sua filia. Anche il desiderio quando è donato cambia, diventa amore. Il desiderio è qualcosa che ci supera, come una volontà non nostra. Viene dalla vita. Ed è volontà di vita. Solo quando diventa proprio, solo quando si educa, il desiderio diventa amore. Spinoza parlava del desiderio come un’affezione, così come per la paura, chiarendo che si tratta di un’affezione senza causa adeguata. Quando l’affezione trova causa adeguata diventa allora affetto. Non è più quello che si sente e di cui si è in preda, ma è qualcosa che ha una propria causa e ragione in un altro, in altra che la suscita, allora diventa un affetto. E’ come se le affezioni fosse proprie della vita, insorgenze naturali, che quando si applicano a cosa o chi diventano perciò stesso proprie, della propria esistenza, del proprio mondo interiore, dei propri legami, della vita propria. E’ bene tenere sempre attenzione a questa distinzione tra affezioni e affetti, in essa si ribadisce la distinzione tra la vita che si è, come viventi, ed è impropria, e la vita che si ha come esistenti, ed è la propria. La vita che si è non è nostra, è della vita, lo siamo, la vita propria è quella che diciamo esistenza. I Greci distinguevano Zoe e bios, intendo con l’una la vita che si è, com’è ogni essere vivente, mentre con bios indicavano quella che diciamo esistenza, ciò che viene dalla vita, ex, dalla vita, ponendosi dalla vita. Ed è la nostra vita, con i nostri progetti, le nostre scelte e legami. L’affetto è proprio dell’esistenza, l’affezione è della vita. L’affezione è del corpo. E il corpo diventa propria, lo si accetta, lo si cura, ma è improprio. C’è un’età e non solo in cui lo si deve accettare, e sempre se ne deve avere cura, perché sempre nella vita che si ha, esistendo, bisogna avere cura della vita che si è, vivendo.

Un’esistenza felice è quella piena di vita, infelice è quell’esistenza senza vita. Le affezioni senza affetto saranno perciò subite, più vicine alle passioni, gli affetti saranno perciò vissuti, propri, più vicini ai sentimenti.

Quando l’affezione trova causa e ragione, quando trova l’altro che la suscita si educa al volto, alla sua voce, alle sue sembianze e al suo legame. Il desiderio allora diventa amore proprio dell’altro, dell’altra, e quando la paura trova causa nell’altro e nell’altra diventa conoscenza e cura di sé o, solo, fuggendone, cura di sé. Quando il desiderio trova causa nell’altro e nell’altra diventa amore e cura, svelando un potere del quale prima eravamo in potere. Adesso è nostro. Il potere di amare, il potere di avere cura. La volontà che si dava come impulso, conatus, desiderio, diventa propria volontà nella scelta d’amore. Non si perde come desiderio, resta nel proprio amore qualcosa d’improprio, resta il desiderio dell’altro e dell’altra, ed è l’altro e l’altra l’improprio, la vita della quale avere cura. L’altra e l’altro che amo è mio, ma non di me, non è una proprietà, piuttosto un possesso che mi possiede, lo posseggo come mi possiede.

Non c’è causa senza effetto e senza affetto. E quando si tratta del sentimento, come ancora è dell’amore, non si possono dare definizioni. Dell’amore si può dire che cosa fa non si può dire che cosa è, si possono dire gli effetti di un affetto, ma senza poterne dare una definizione, se accade, allora non è più un sentimento. E’ già finito.

Sembrerebbe essere questo a ribadire l’intreccio singolare tra il proprio e l’improprio, di ciò che si sa e non si conosce o di ciò che si conosce e non si sa dire. Resta sempre uno scarto. Una differenza.

Adesso, che parliamo del “potere” come tema di questa nuova primavera dell’Arte della Felicità mi sono proposto di parlare insieme del potere dei sentimenti. Ed è come riprendere il cammino dell’imparare ad amare. Potere è sapere, si dice. Saper amare è avere anche il potere di amare. Questo rapporto tra potere e sapere attraversa tutta la nostra cultura. Ed è tale da consegnare la rappresentazione del potere all’istituzione, all’ordinamento disciplinare, all’autorità dei simboli, messi bene in mostra. Il potere, diciamolo, “si vede”. “Si fa vedere”. Si mette in mostra. E si rappresenta in una forza simbolica che è espressione di far sapere. Chi ha potere è uno che sa fare, che ci sa fare e che fa sapere, mostra il suo potere. E’ impudico. Senza pudore. C’è sempre una spudoratezza nella manifestazione del proprio potere. C’è esibizione. Chi ha potere esibisce il proprio corpo e crea un proprio corpo amministrativo, militare, consensuale. E’ il potere politico. Si può anche parlare di un potere sessuale, pensando alla differenza di genere. Si può parlare di un potere di genere.

Il potere richiama il fare ed è tale quando si rappresenta in operazioni e in opere. Non c’è uomo di potere che non abbia inteso rappresentare il suo potere in opere simboliche capaci di comunicare nel tempo il suo fare, il suo saper fare. Non c’è potere sovrano che non sente di dover trasferire in opera d’arte la sua potenza. Non c’è potere che non cerchi la sua rappresentazione. Anche le azioni politiche di chi è sovrano finiscono per rappresentare delle opere d’arte. Più ancora lo sono i monumenti. Le mostre d’arti fanno intendere anche il rapporto tra il potere e la bellezza. Quasi che il fine del potere è il “farsi bello”, il “diventare bello”. Nella nostra città il potere di chi ha avuto potere è consegnato alle opere simboliche, dalla piazza del Plebiscito a quel che è diventata piazza del Plebiscito per esempio. Musei, opere d’arte. Ed è importante riflettere che ogni volta il potere si rappresenta in opere d’arte, sfida la bellezza, si dà in opere d’arte ed è un’arte il potere stesso. Un sapere artistico potremmo chiamarlo. Un sapere ad arte. C’è un’arte del potere e il potere stesso è un’arte. Un mezzo e un fine. Bisognerà chiarire una tale ricerca del rapporto tra il bello e il potere, ancora di più se parliamo del potere dei sentimenti. Dire che qualcosa è bella, dire anche che chi si ama è bellissima/o significa riconoscerle/gli un potere, significa anche avere il potere di riconoscerla/lo come tale, significa varcare un confine, superare un limite. Andare oltre ciò che è visibile. Il potere, ancora più il potere dei sentimenti ha a che fare con la trascendenza. Essere al limite. Vedere di là di quel che è visibile. Far vedere anche ciò che non è dato vedere nel visibile.

Occorrerà, certo, anche diffidare di chi ti chiama bellissimo o bellissima. Si, certo. Più importante è però riflettere che di fronte a qualcosa che ci incanta, non abbiamo parole che non si chiudano in quel “bello”. In quel riconoscimento di essere giunti al potere delle parole, al non avere più parole. Il potere produce un tale effetto.

Mi viene subito da chiedermi a che il potere? Perché? A che serve? Sono domande diverse, per quante restino in analogia per l’ambito cui si riferiscono. Già però se scrivo “Potere” con lettera maiuscola non è più il potere come possibilità di fare questa o quella cosa. Eppure è nella domanda sul Potere che si stabilisce il grado anche minimo del potere fare questo e quello. Anche il potere amare, il poter soffrire, il poter ascoltare si riferisce al fine del Potere nella sua espressione maiuscola, si riferisce al Potere come tale. In se stesso. Anche nel potere disseminato, nel micro potere, nella catena dei legami si può sorprendere il senso del Potere come tale. Il sistema di potere. C’è trascendenza anche nell’immanenza delle concatenazioni di flussi quando questi trascendono il proprio volere, le proprie scelte.

Anche nel potere dei sentimenti è così, almeno proviamo a discuterne quest’oggi. Certo non tutti hanno questo potere. Non tutti sono capaci di sentimenti e non tutti sono capaci del sentimento che diciamo di sentire. Non tutti sono cioè capaci di corrispondere al nostro sentimento. “Non capisci”, “non puoi capire”. Lo si dice, o lo si rinfaccia, a chi non sa starti vicino, a chi non ti sa ascoltare e amare, a chi non senti che possa sentire quello che tu senti. Questa catena è importante, è un giro che va da sé all’altro e chiude in un solo cerchio l’uno e l’altro, l’uno e l’altra, quando si sente l’altro/l’altra che non sente ciò che sentiamo, bisognerà anche chiedersi se non siamo noi stessi a volere che sia così e perciò a non volergli riconoscere un tale potere, perché semplicemente discordante.

Il potere dei sentimenti è esclusivo. Il Potere com’è esclusivo. Anche quando include, esclude, perché l’inclusione si misura dall’esclusione.

Ci sono persone che si fanno amare, hanno il potere di farsi amare ovvero siamo noi che riconosciamo loro un tale potere. E’ la seduzione. L’altro, l’altra ci conduce a sé. Si fa opera, diventa qualcosa di simbolico per cui vi riconosco ciò che sento, anzi mi fa sentire quel che pensavo di non sentire, quello che non sapevo di poter sentire. L’altro che ha il potere di farsi amare è l’altro, l’altra che mi dà il potere di amare, quella, quello che amo. Bisogna però, per la seduzione, sentire il sé dell’altro come proprio, in chi ci seduce siamo noi stessi a sedurci in lui e a sedurlo nel compiacimento. La seduzione è come lo specchio su cui ci si riflette. Uno specchio stregato. Siamo noi stessi quello specchio quando diciamo all’altra, all’altra, sei la cosa più bella del mondo.

I sentimenti suscitano potere e sono suscitati dal potere. C’è un potere dei sentimenti ed anche un sentimento del potere che li attraversa. Dovremo passare per questo confine tra potere e sentire per capire non cosa sia il potere e cosa sia il sentimento, ma per capire cosa fa il potere e cosa fanno i sentimenti. Si tratterà di questo fare e operare.

Poter sentire, poter provare anche un’emozione non è lo stesso che poterla far provare. I sentimenti non si possono imporre, seppure l’imposizione produce un sentimento di minorità in chi lo subisce. Si può anche subire l’amore, ma quando questo accade non è più l’amore che l’altro o l’altra sente. Si può anche però subire l’amore quando ci s’innamora del suo amore, restando ammirati della sua ammirazione di cui si è oggetto. E’ un circolo di effetti quello entro il quale ruotano i sentimenti e si stabiliscono i propri affetti. I propri legami.

Poter sentire non è poter far sentire, eppure il proprio sentire non è senza il riconoscimento che viene dall’altro, dall’altra. Si può dire di qualcuno che è insensibile proprio nel momento in cui avverte un sentimento che non riesce a dire. Gli si può dire che è indifferente, quando invece è preso da ciò che l’altro, l’altra, non gli riconosce. Il potere dei sentimenti è lo stesso del potere della differenza, perché i sentimenti si danno e riconoscono, vengono suscitati o deviati in rapporto all’altro, all’altra. Anche se l’altro è lo sconosciuto che avverti e senti dentro di te senza riuscire a rappresentarmi. Il sentimento è come l’Altro è in noi. Ed è come il fuori è dentro ognuno. Singolare nell’individualità di ognuno, uguale agli altri, ma proprio. La singolarità del dolore dice della singolarità di ogni altro sentimento, ma il dolore è solo proprio per quanto possa essere stato vissuto da altri. Il dolore, ma è così per ogni altro sentimento. C’è sempre una riserva di singolarità, è proprio e solo proprio, ma nel dolore la singolarità è totale, sfacciata, ne va del proprio mondo intero, nel dolore ci si confina e si è senza poter essere e provare altro.

Imporre il proprio sentimento è stabilire sull’altro un potere. Viene da considerare allora che il potere è l’effetto di un sentire imposto, che elimina la differenza dell’altro, che non la tollera. Il potere è esprimere la propria singolarità senza riconoscere differenze. Il potere assoluto. Ed è l’opposto del dolore. Strano a riconoscerne l’opposta simmetria. Nel dolore ci si annulla nella propria singolarità, si sopravvive a se stessi a questo, ciò che sarebbe impossibile senza sentirlo. Nel potere si annulla il dolore di ogni altro. Mentre il dolore è il potere di sé, il potere è l’indifferenza del dolore del sentire di ogni altro. Non è paradossale, se non a esprimerlo. Il dolore dice del proprio potere, ma il potere assunto come proprio ignora il dolore. Chi ha svolge un potere assoluto su altri non sente dolore. Chi assume il potere di sé, su di sé, sente dolore come singolare.

Dare a sentire il proprio sentimento ovvero indurre un sentimento di minorità come quando si ha potere su un altro. Si comincia già a delineare una forma di potere rispetto a un’altra. Chi mette paura, chi mette soggezione, esprime un potere di autorità. E’ il dominio sull’altro. A ogni sentimento corrisponde anche un ruolo interiore che ognuno sente di attribuire dentro di sé all’altro, all’altra. C’è un potere esteriore e un potere interiore. Può accadere che chi gode di un potere istituzionale non gode altrettanto di un potere interiore come la/il prof. che ha autorità o manca e di autorità pur avendone il ruolo. C’è sempre un altro, un’altra a dire del proprio sentimento. Si può essere anche innamorati, ma se non si è corrisposti o se non si è riconosciuti, quel sentimento si sgualcisce, avvizzisce e si perde nella solitudine. Anche l’autorità magistrale è sempre l’altro che la rappresenta riconoscendola, nessuno si può dichiarare maestro o maestra senza perderne l’autorità.

Le persone che hanno potere su di noi rivestono un grado simbolico. Hanno un ruolo che riconosciamo tale. Non tutti riescono a trasmettercelo. Non a tutti quanti hanno un ruolo di autorità lo riconosciamo. Il potere si veste sempre di un grado simbolico. Si dà nell’opera che suscita, che organizza in un campo sociale, in un tempo storico, in un sentire comune. Identificativo. Il potere è tale quando suscita identificazioni ed è identificato, identificabile.

Bisogna allora parlare del corpo del potere. Bisogna intendere il potere in rapporto al corpo. Ed è il corpo a rappresentare la linea di confine. Quando la si sospinge in alto tanto più il corpo del potere riluce, quando più si abbassa tanto più quel corpo diventa opaco.

Quanto si costruisce all’esterno si costruisce anche all’interno. Non si può avere potere sui sentimenti reprimendoli, soffocandoli, quanto si può avere potere stabilendo delle opere, definendo dei simboli. Il potere dei sentimenti è un potere simbolico. Una traduzione simbolica. Un operare. Si può usare il termine sublimazione quando si parla dell’opera simbolica in cui viene tradotto il sentimento. Il termine fa pensare a una rinuncia mediata, una sorta di deviazione del corso di una corrente di desiderio. La sublimazione sarebbe come incanalare un flusso di desiderio. Bisogna ripensare forse diversamente il termine “sublimazione” richiamandosi al “sublime”, dissequestrando così quel significato dal termine.

L’uso comune del termine deriva dai processi chimici, indica il passaggio da uno stato a un altro definendo una situazione di equilibrio che salta un passaggio per ritrovarsi in un risultato d’equilibrio. Anche in termini analitici è inteso come valorizzazione di pulsioni portate a produrre uno stato di equilibrio per elementi che porterebbero di per sé allo squilibrio sociale. Possiamo però intendere altrimenti la sublimazione riportandola al sublime. Il potere dei sentimenti ci porta al limite. A ciò che si rappresenta in opera. Si potrebbe anche affermare che i sentimenti sono un grado di sublimazione delle passioni, quello che però appare più interessante, anche per questa via, è capire l’operare, il senso del sublime, la sua operabilità. E’ come portare la bellezza oltre il bello, superarlo come da dentro, superarlo senza distruggerlo, ma resistendovi, mantenendosi in se stessi. Si tratta di uno sconvolgimento di linea che tuttavia non annulla la linea. Si tratta di uno sconvolgimento del corpo che non annienta il corpo.

Il potere si porta al confine della bellezza. Al confine del senza parola. Al sublime. Guai però a superare la linea. Guai a fare del potere una proprietà e reificarsi nell’opera, così guai a reificarsi nel legame del sentimento che si suscita, ciò che significherebbe ghiacciare il potere dei sentimenti e commettere una ubris. Bisogna sempre stare al confine tra il proprio e l’improprio. Non è la lezione del “giusto mezzo” o “meden agan” degli antichi. E’ altro, seppure ci si può richiamare a quella voce antica. Stare tra il proprio e l’improprio significa già stabilire un legame tra la propria vita e la vita, tra l’esistenza e la vita, come nel rapporto di ogni altra vita con la propria esistenza che non ne è indifferente, a meno di non perdere nel sentimento ciò che porta alla cura della vita come tale e perciò al sentimento stesso della vita.

L’autore che non dimentica se stesso nell’opera nemmeno riuscirà a renderla tale, l’opera è senza proprietà, è sempre di chi ne fruisce. Guai però a porre un sigillo assoluto di proprietà anche in chi ne fruisce. Ci si deve abbandonare nell’opera e abbandonarla perché ci sia opera.

In questione è il corpo. Il proprio corpo. Il corpo scritto. Il corpo simbolico. Quello istituzionale, quello “documentale”, oltre che monumentale. Si tratta del rapporto tra il corpo e l’opera. Il divenire dell’uno nell’altra. La messa in opera del corpo proprio.

Il punto di volta è dunque fare del corpo un’opera senza per questo intendere l’opera come il corpo proprio. Banalmente detto è il personalismo in politica o il narcisismo come rispecchiamento di sé in ogni altro volto.

Il passaggio del corpo in opera marca la trascendenza del corpo. Il fatto che è il corpo ci supera, ci espone, ci porta fuori. Nel corpo si manifesta l’improprio, anche l’impuro. Il corpo è l’espressione di una trascendenza impura. Nell’immagine dei filosofi la trascendenza non è senza l’immanenza. Le pagine della fenomenologia di Edmund Husserl sono esemplari in tale senso. Fanno comprendere come la trascendenza sia un effetto dell’immanenza e viceversa, fino a essere l’una l’altra e nel circolo del dentro e fuori che vi si attiva accade anche la trascendenza impura del corpo, del fuori, diventi trascendenza pura nell’immanenza del proprio sentire il corpo proprio. Un processo che ogni adolescente, e non solo, attiva quando si tratta di accettare il proprio corpo, ovvero quando si tratta di accettare il corpo come proprio. In quel processo di propriazione si opera anche una purificazione della trascendenza impura del corpo. Se ne prende cura, e se ne reclama cura. Il corpo è sempre conteso. E’ tra dentro e fuori. Il proprio corpo è sempre conteso da altri e da se stessi. E’ sempre preteso.

Ed è questa la linea di confine tra proprio e improprio, passa sul corpo. E’ come manifestare la propria improprietà. E’ come rendere manifesto l’improprio con il proprio operare. Spiego meglio, perché in questo passaggio ci sono dei rimandi ad altri passaggi che nella periodizzazione di questo intervento sfuggono. Li lascio all’intuizione di ognuno. Spiego solo come sia il corpo a rappresentare la trascendenza. Il corpo ci supera. E’ fuori di noi ed è nostro. Nel corpo vivente avvertiamo la vita che siamo. Ed è una vita impropria. Ci viene da altri. Il corpo nasce, viene al mondo, viene da altri mondi, da tempi che potremmo avvertire senza cogliere, come quando ci si chiede della propria origine. Questo mio corpo che mi fa trovare in questa città e che non so da quali flussi di migrazioni, per quali somiglianze si sia fatto strada fino ad arrivare anche fin qui da dove sto parlando e vivo, secondo questo profilo, in questo viso, in queste mani, passando per questa voce, facendosi luogo di me stesso.

La vita che siamo ci viene data. Altra è la vita che abbiamo, quella che riguarda le nostre scelte, il nostro, appunto, “potere”, i nostri progetti, il nostro proprio cammino formativo. La vita che abbiamo è la nostra esistenza, la nostra vita, quella che ospita la vita che siamo. In questo proprio e improprio della vita si dà il potere che ci domina e per il quale dominiamo. Dominiamo e ci domina, lo elegiamo cioè a dominio, a domus, a casa regale nella quale sia padroni e schiavi.

La relazione insegnante conosce questo rapporto tra trascendenza e immanenza. La insegna. Ne porta i segni. La consegna. La relazione insegnante è un corpo a corpo. Qualcuno, un uomo, una donna e davanti, intorno, dei giovani che si apprestano a essere uomini e donne nella rappresentazione delle relazioni sociali, culturali, del proprio tempo. La relazione insegnante è un corpo a corpo, una relazione di genere, di generazioni differenti. Se ne portano i segni, un tempo davanti ad un altro tempo, nel presente il passato è davanti al futuro, ma non come davanti un tempo che verrà, ma come di fronte ad uno scarto, a una differenza, come di fronte ad un altro tempo che c’è. Il futuro, come vuole la radice del termine latino, indica ciò che scegliamo, quel che decidiamo adesso, nel presente, che sarà il nostro passato remoto. Il futuro è quello che decidiamo adesso di raccontare poi come nostro passato. E un’esperienza d’insegnamento allora si può dire riuscita quando si può raccontare, diversamente non è riuscita. Come quando il ragazzo che torna a casa risponde “niente” a chi gli chiede com’è andata a scuola o come quando nell’altra casa davanti all’altra porta l’insegnante risponde “lasciamo stare” a chi l’accoglie chiedendogli come è andata.

Il presente divide un tempo da una altro, ed è in presenza dell’altro, dell’altra che si divide e si decide il proprio tempo. I sentimenti sono fatti di tempo. In presenza dell’altro e dell’altra si decide il nostro sentire. Chi insegna passa il proprio tempo a chi lo apprende facendolo proprio in un racconto singolare. La scuola è un luogo di passaggio, dalla casa alla città. Un luogo di passaggio del tempo. Ci si passa il tempo a scuola quando ci si educa, ci s’istruisce e ci si forma, quando s’insegna e si apprende. Si perde tempo, si passa il tempo, quando ci si passa il proprio tempo. Quando non ci si passa nell’ascolto lo sguardo dell’attesa di chi vede ciò che l’altro, l’altra insegna.

Ritorneremo su questo punto, ne ho già parlato altre volte. Anzi ne parlo sempre. Ritorniamo invece adesso a quel che avevo lasciato per strada. Sempre in un discorso si ritorna. Insegnare è ritornare continuamente. Chi non ritorna non insegna, mi permetto di affermare. Bisogna ritornare sempre indietro, ma soprattutto bisogna ritornare dentro le cose che si espongono e dentro se stessi.

Se mi chiedo del potere dei sentimenti, devo anche capire come i sentimenti modificano il potere. Dovrò intendere cosa intendiamo intuitivamente per potere, come lo consideriamo immediatamente, come lo riconosciamo. Dovrò anche capire perché si dice che i sentimenti non hanno alcun potere. Anzi, tolgo “potere” perché si dice coerentemente, più esplicitamente, che i sentimenti “indeboliscono”. Non valgono nulla rispetto alla realtà.

Ricordo uno studente al corso di Etica. Parlavo di etica dei legami, di etica dei sentimenti. Mi arrivò la sua email. C’era scritto con voce accorata – si può sentire la voce nei segni scritti sulla carta, si può sentire il sentimento di chi scrive le cose che leggi – il racconto di un’imposizione “educativa” a non manifestare i sentimenti, perché i sentimenti sono per le donne, non per gli uomini. I maschi non piangono. Non si abbandonano ai sentimenti. Mi scriveva dicendomi come per lui era la prima che sentiva un uomo parlare dei sentimenti. Si sentì come liberato da un fardello. Manifestava per la prima volta quello che non aveva mai potuto manifestare.

Potrei allora trovare questa prima conclusione e affermare che i sentimenti aggiungono al potere la liberazione, quando li si manifesta. Il potere dei sentimenti è liberare, ma cosa e come? Come e in che modo liberarsi? Come manifestare ed esprimere i propri sentimenti? Bisogna educare i sentimenti? Bisogna educare ai sentimenti?

Lo ripeto spesso: le emozioni si provano, le passioni si hanno, i sentimenti si educano.  Le emozioni sono come le impressioni. Istantanee. Le passioni sono sponde del fiume delle pulsioni della vita. Le passioni sono due attrazione e repulsione. Ci sentiamo attratti e respinti, attraiamo e respingiamo. I sentimenti si educano, perché i sentimenti sono fatti di tempo. Durano. La materia dei sentimenti è il tempo. Ed è un tempo senza ore. Incalcolabile. La misura dei sentimenti non è la stessa della sensazione. Ciò che è grande per la sensazione è tale per comparazione. Per il sentimento è assoluto e singolare. Incomparabile.

Voglio ricordare anche Giuseppe. Ne parlo spesso. E’ in carcere. Non uscirà mai dal carcere. In Italia c’è l’ergastolo a vita, si chiama ergastolo ostativo. Giuseppe dice che è debole quando si tratta dei propri affetti. E’ sicuro nelle sue argomentazione, la sua logica è perfetta, una ragione capace di analizzare e rispondere a ogni osservazione e riflessione. Quando però si tratta dei sentimenti la ragione si perde. Arretra. E’ curioso, ma se prima potevo affermare che i sentimenti ci liberano quando si liberano manifestandoli, adesso devo dire che ci frenano, ci sono di impedimento.

Quando vengo a questa manifestazione, a parlare qui in Istituto, studio tanto sui libri l’argomento che dovrò affrontare. Poi però vado chiedendo in giro alle persone che frequento e che incontro cosa pensano dell’argomento che devo trattare. Così ho chiesto ieri a una professoressa che sa di scuola, ho chiesto di dirmi, subito, così, senza pensarci, qual è il potere dei sentimenti. Mi ha risposto Il potere dei sentimenti è grande. E si fermata appena pronunciate queste parole, Il potere dei sentimenti è grande, senza riuscire ad aggiungere altro, ma palesemente cercando parole che non trovava.

Ho fatto la stessa domanda a Maurizio, il mio genio. Gli ho chiesto che cos’è il potere dei sentimenti, lui mi ha risposto senza esitazione, ha detto La resistenza. Il potere dei sentimenti adesso, mi diceva, in questo momento che viviamo, è Resistenza.

Ancora ieri però, mi trovavo ancora in carcere, e davanti a me avevo un uomo che è detenuto per reati politici. Aveva davanti un foglio scritto a mano. Dovevamo iniziare il nostro incontro di filosofia, ragioniamo insieme di etica. Mi ha chiesto se poteva leggere quella lettera. Era diretta ai parenti della vittima di cui si era reso responsabile di un’offesa irrimediabile. Una lettera difficile. Impossibile. Parlava di quel che non si può parlare, diceva di quel che non si può accettare, lo richiedeva. Non era una preghiera, era uno scambio di vita. Non la richiesta del perdono, ma la richiesta di essere utile, di fare qualcosa per sanare il loro dolore lui che per quell’omicidio è già scontato trentadue anni di carcere ed è ancora in carcere. Non credete a quelli che reclamano la certezza della pena, ma a quelli che chiedono la giustezza della pena.

Era una lettera di sentimento. Col tempo ho capito che il sentimento non si oppone alla ragione, l’opposizione non è tra ragione e sentimento, ma tra ragionamento e sentimento. Se l’uno, il ragionamento, è il dispiegarsi della ragione, delle procedure di calcolo, della logica, il sentimento è il dispiegarsi del sentire, delle emozioni, degli affetti e della passione. La differenza dell’uno e dell’altro sta nel tempo. Il ragionamento ha un tempo che il sentimento supera di gran lunga o abbandona presto. Sono i tempi che non coincidono. Anche quello di cui, parlando, sto ragionando non ha lo stesso tempo di ciò che sento e che scrivo e penso. Alla fine mi ritrovo ad affermare che il ragionamento e il sentimento fanno insieme ciò che penso e che dico, ma in un tempo tale che nel pensare è assai diverso dal dire. Si ostacolano. Talvolta pensiamo le cose e non le diciamo. Succede in classe, all’interrogazione. Pensiamo una risposta che però non diciamo, ci freniamo, dubitiamo, per poi lamentare con un gesto di stizza che era quello che sapeva. I sentimenti scivolano su pensare dire sapere ragionare, fanno scivolare un momento sull’altro.

E’ un potere che limita. Ci bloccano, ma quando li liberiamo ci liberano. Siamo prigionieri di catene che noi stessi sentiamo e che basta sentire per liberarcene. Un paradosso. Dobbiamo uscirne.

Ho riletto con attenzione Kant. La Critica del Giudizio, parla del sublime e del bello. E dice che il bello è entro un certo limite, ma che il sublime è sub limine, sospinge il limite, eleva il limite. Il potere dei sentimenti credo che sia questo portare al limite la parola, portare al limite il dire, andare oltre quello che diciamo in quello che diciamo, spingendo quella linea sulla quale si da il nostro dire ed esprimerci fino a farcene sentire le vertigini che procura il suo elevarsi, fino a lasciarci senza parola, ma ancora là a cogliere nel dicibile l’invisibile e nel visibile l’indicibile.

Ecco, è questo il potere dei sentimenti. Ed è straordinario. Non è che bisogna raggiungere il sublime, ma i sentimento stanno sul sentiero, e sul sentire, del sublime. Il potere dei sentimenti è quello di elevare il limite. E quello di spingersi oltre il limite pur restando nel dire che ci limita. E’ come trovarsi ingabbiati dal limite che sentiamo come un peso e allargare le sbarre, spingere il limite di là. I sentimenti sono come le scale della trascendenza, gradini che vanno dall’immanenza alla trascendenza, e come le scale di Escher, continuano dalla trascendenza all’immanenza. Sempre oltre, inoltre, sono eccedenti, aprono lo spazio e lo restringono, dilatano il tempo e lo annullano, ma non lo spazio misurabile, piuttosto coniugando spazio e tempo, facendo dell’uno il luogo dell’altro, dando luogo al sentire

I sentimenti sono sempre al limite del possibile e dell’impossibile. Come faccio a dire quello che veramente sento con le parole di cui dispongono? Ciò che è vero è sempre inaugurale, sempre primo. Se solo sono capace di dire il vero amore che sento nasce l’amore che sento. Vado oltre le parole nelle parole che dicono. Come cerco adesso di dire quel che sento ma che non trova parola per dirsi esattamente e che troverà espressione in ciò che uno sente a propria volta nelle proprie parole, no, più ancora, meglio, nella propria voce. Quando si ascolta è nella voce del proprio silenzio che si ascolta. Si ascolta veramente quando ciò che si sente dire da un altro, da un’altra, si sente dentro con la propria voce, risuona del proprio dirsi. Il silenzio, ne parleremo un’altra volta, si costruisce.

Il potere dei sentimenti è questo. Vado alla conclusione di questo discorso, ne anticipo la conclusione, prima ancora di spiegarla. La lascio all’intuitività. Il potere dei sentimenti è di vedere l’invisibile, di toccare l’intoccabile, di ascoltare l’inaudito, di saggiare il non saputo, di fiutare l’essenza. Il potere dei sentimenti è quello di rivoltare i sensi. Un rivoltare il dentro in fuori. Ancora un corpo a corpo in se stessi, di se stessi. Un rivoltarsi in cui ci si riavvolge. “Auslegen” e “Einlegen”, si dice più precisamente in tedesco, un interpretarsi che è un legarsi in dentro.

Tutto quello che sta dall’altra parte e che si sente stando da questa parte. Lo si sente dentro, lo sento in me e sta in me, ma come da questa parte, come io stando da un’altra parte. Dentro. E’ quando siamo dentro noi stessi che ci sentiamo estranei e come da un’altra parte, ma qui è ancora diverso. Essere al limite,sublimine – sub limine fagi, viene in mente la bella espressione di Virgilio –  sospingere il limite quasi a farlo risuonare come corda dentro, come l’ombra del faggio che dice di uno stato d’animo, un limite dato e invisibile, di cosa che si fa immateriale nell’effetto del sentirla, sottile, mobile, un confine, labile, una linea che si muove a ogni nostro avanzamento e che non si spezza, resta limite, anche al limite, cioè fragile. Intoccabile. A superarla si è arroganti, tracotanti, si commette ubris, si offende.

Ci deve essere un limite. I sentimenti sono al limite. Tra ciò che siamo e che abbiamo. Tra la vita che siamo e la vita che abbiamo. Tra la vita e l’esistenza. Tra questo è il nulla, tra questo e tutto. E’ lo stesso, il tutto e il nulla. Tu sei per me tutto, equivale a dire che non c’è nulla che possa essere come te e farmi stare come mi fa stare il tuo pensiero. Tu sei tutto, il resto è nulla. Tutto è nulla senza di te. Dunque, non sei questa cosa, questa persona alla quale parlo e dico queste cose. Sei l’ascolto delle mie parole, sei chi mi fa parlare a questo modo, sei chi suscita in me questo sentire. Non sei tutto, ma ciò che tu mi fai sentire della vita e che la mia esistenza non conosce. Tu l’improprio che io sono, tu che non sarai mai di me e sei mia per questo e per sempre, come non sei e non sarai mai.

I sentimenti ci espongono a questo strano ribaltamento. Ciò che sentiamo è nostro soltanto. Nostro come non può essere di altri e come non può essere neppure stato ed essere per chi lo suscita. Possiamo avere questa stanza in comune nel mentre siamo qui a sentire dei sentimenti. Possiamo avere il mondo in comune. Ma questa stanza come è per me non è la stessa che è per te e per te, per ognuno in questo momento che è in questa stanza. E’ come quando si è in accordo, non per un patto, è come sia è un accordo come nell’accordatura musica, non diciamo le stesse cose identiche cose, diciamo la stessa cosa, non suoni le stesse note, né usiamo gli stessi strumenti, ma risuona la stessa musica. Non c’è niente di più sovrano a noi tutti che la vita che si da insieme in ogni esistenza che, presente, gli dà vita preservandola. In questo momento, come io la sento, perché è il tempo che sentiamo ed è con il tempo che sentiamo. E non il tempo in ore, ma il tempo in suoni, in ciò che questa stanza di questo Istituto lascia risuonare in me di un tempo e di un altro, di un ricordo e di un’emozione, anche di questa adesso che vivo e di cui a sentirle veramente già avverto nostalgia, già sento che mi sfugge. Ricorderò questo momento, com’è nel ricordo che penso e ragiono e che sento. C’è un ricordo anche del presente adesso, quando più intenso l’adesso presente è vissuto. E il suo ricordo è il suo sentimento. Quando lamentiamo la mancanza del futuro è della mancanza di sentire il presente, di un sentimento del presente manchiamo. Il potere dei sentimenti è sentire l’invisibile, l’inaudito, l’impalpabile, l’impossibile.

Le cose che si toccano fanno rumore. Le cose che cadono fanno rumore. Gli oggetti che urtano contro altri oggetti, fanno rumore. Emettono suoni scordanti. Discordano. Ci fanno anche scordare quello che stiamo facendo o quando siamo assorti ci procurano quel disturbo che distoglie da quel che stiamo pensando nel silenzio. Le cose “parlano” tra loro urtandosi. Lo si capisce nel silenzio, quando non bisogna fare rumore. E accade puntuale che qualcosa cada o tocchi un’altra. Il rumore non lascia distinguere i suoni. Rompe il silenzio, che dentro ognuno è la melodia del proprio risuonare di pensieri.

Quando siamo assorti e ci disturba il rumore, comprendiamo anche che il silenzio è il nostro parlare senza parlare, toccare senza toccare. Parlare. Alla fine parlare è toccare. I corpi che si toccano tra loro parlano, fanno rumore, emettono suoni, parlano. Il corpo che da se stesso si tocca, parla. Il corpo che è sente toccato a distanza, in lontananza, in presenza, senza che lo si urti, è parlate e parlato. Il nostro corpo è così. Alle cose non tocca di essere toccate a distanza senza che un altro corpo le urti. Le parole per noi sono corpi invisibili. Ci si può far male con le parole, ma ci si fa male per quello che le parole dicono in noi di quel che altri dice di noi. Potremmo anche non sentirle, se ci feriscono e perché ne siamo offesi e l’offesa che sentiamo peggiore è quella di chi sentivamo appartenerci.

Il corpo che è spinto, toccato, urtato anche senza essere spinto, toccato, urtato da altro, parla. E’ vivente. La cosa non è viva, se dentro di noi, perché ci tocca come nostra. La cosa non è viva, perché risuona del tocco di un’altra, di un urto, di una caduta. Non si solleva da sola, non va da sola, non “intenziona” neppure la caduta. Anche l’orologio nel suo congegno quando emette suono parla dell’ora, “dice l’ora”, si usa ripetere, quasi dandogli una vita, che è semplice animazione meccanica. I corpi che si urtano dicono della discordanza. Si attraggono nel toccarsi. Una forza di gravità li fa cadere e una forza di attrazione li fa urtare. Il corpo che si tocca in se stesso parla.

Parlare è allora toccarsi. Far suonare. E si parla dentro di sé quando si accorda il proprio silenzio. E’ una melodia il silenzio che si accorda nei pensieri, nei ricordi, nelle parole che si scrivono, che si appuntano, che si riflettono. Parlarsi è toccarsi. Quando due persone parlano tra loro, si toccano. Se non si parlano è perché si urtano. Bisogna imparare a toccare, a toccarsi. Bisogna non urtarsi. Come quando si dice che le parole di qualcuno ci urtano, ci fanno male. Ci spingono a dire altro da quel che pensavamo di dire. Ci abbattono, ci fanno cadere. Le parole ci fanno risuonare dentro emozione, turbamenti o momenti lieti. Ci dispongono. Parlando ci tocchiamo. La voce. Con la voce ci tocchiamo, in noi stessi con la voce senza voce. Ci tocchiamo in noi stessi. Il potere dei sentimenti è sapersi sentire. Sentire in se stessi. E’ come una sensazione rivoltata.

Il potere, la proprietà, ciò che si è in grado di fare e ciò che spinge altri a fare o ciò che dispone le cose e le persone come meglio vogliamo fare. Il potere del toccare è sentire. Il potere del parlare è esprimersi, il potere dei sentimenti è toccare. Bisogna avere potere dei sentimenti. Questa volta il genitivo è oggettivo. Non è il potere che hanno i sentimenti, ma il potere di avere i sentimenti. Il potere sentire quello che non si sente. Un potere dei sensi. Quando si è capaci di ascoltare l’inaudito, di vedere l’invisibile, di toccare l’intoccabile, di saggiare l’insaputo, di fiutare l’essenza. Allora anche i seni si alterano e risuonano in se stessi e diventano altre, sensibili. Udire è allora ascoltare, toccare è risuonare, gustare è saggiare, odorare è fiutare, cercare, vedere è ideare.

Il potere dei sentimenti è trasformare le sensazioni, avere un rapporto, mettersi in una relazione. Il potere dei sentimenti è fare proprio. Il potere del potere alla fine è questo soltanto, fare proprio, possedere, disporre, ma con i sentimenti si tratta di apprendere, far proprio, disporsi, sentire l’altro come mai in se stesso per sé è mai stato e come non sarà per nessun altro. Il potere dei sentimenti è amare. Il potere del potere è amare. E l’amore è un possesso senza proprietà, quando si fa dell’amore una proprietà allora si dà solo violenza, quando l’amore è un possesso senza proprietà allora ci si scambiano doni e ognuno restituisce all’altro il suo come propriamente dell’altro.

Questo portare al limite il toccarsi. Questo portare al limite le parole, renderle sublimine, sospingenti il limite. Sospingere il segno, spostarlo, spingere la linea che ci divide nei segni, nei confini, nei tagli, spingere il corpo proprio a farsi nei gesti altro, a elevarsi, farsi sublime, com’è danzare. La danza è sublime. Rende sublime la gravita, rende sublime il corpo. Il canto rende sublime la voce, ed è ancora rendere sublime il corpo. Il pensiero rende sublime la parola che rende sublime il segno, reso sublime dalla voce.

Stare al limite, sospingerlo e tenerlo, alzare il limite senza toglierlo o tagliarlo e spezzarlo. Tenere il limite, non c’è niente di più sublime che stare al limite. Essere nel pieno e vivere. Vivere esistendo. Essere al limite tra l’esistenza e la vita. La gioia immensa e il dolore immenso se si solo si possono raccontare, o anche resistervi semplicemente, sono sublimi, ne siamo capaci, proviamo in noi stessi di avere un potere impossibile, il potere dell’impossibile.

Il potere dei sentimenti è il sapere della filosofia che come tale è il sapere saggiante il legame più importante, quello che si sente come più caro.

Ti meraviglia, ti sorprende. Vedere l’invisibile, significa vedere quel che manca in quel che c’è perché quel che c’è sia veramente quel sia è. Io sento questa città. E’ un sentimento questa città per me. Non è solo la sua geografia, la sua morfologia, la sua economia, le sue strade. Questa città è mia, dentro è come sento che manca per essere veramente quello che è nel suo potere essere la più bella città. Questo accade a chiunque sente anche il proprio quartiere e non semplicemente ci abita. Anche l’andare via è come non voler soffrire di ciò che non si vorrebbe che mancasse.

Il potere dei sentimenti è quello di portare i sensi oltre le sensazioni. Ed è il potere di toccare l’intoccabile in ciò che si tocca, di vedere l’invisibile in ciò che si vede, di fiutare l’essenza in ciò che annusa, di gustare il sapere in ciò che si saggia. Ed è come rendere intoccabile quel che si tocca. E’ cocca nella relazione d’amore. L’altro, l’altra che tocco amando è resa intoccabile a ogni altro e altra ed è a se stessi intoccabile come si dice del santo che indica chi è intoccabile per essere stato toccato dal divino. Quando un amore finisce non si può più toccare, non ci si può più far vedere da chi ci si lasciava vedere e toccare come da nessun altro, perché ci si sente in quel momento, quando non c’è più il sentimento d’amore, toccati come cosa, oggetti, corpo, mentre prima era l’anima, la parte interiore del corpo che si lasciava vedere e toccare.

Il potere dei sentimenti è quello di portare oltre i limiti i sensi nei propri limiti, lasciando sentire quel che non si può sentire senza sentimento.

C’è una questione che lascio in sospeso, non c’è tempo per trattarne. Ed è la questione del volere e potere. Sarà per un’altra volta.

Adesso chiudo con l’invito a leggere i versi di Saffo e poi a leggerli nella versione di Catullo e poi a Leggerli nella versione di Foscolo e poi a leggerli nella versione propria scrivendo altri versi che rivoltano i sensi in sentimenti.

 

φάινεταί μοι κῆνοσ ἴσοσ τηέοισιν  ἔμμεν ὤνερ ὄστισ ἐναντίοσ τοι  ἰζάνει καὶ πλασίον ἀδυ

φωνεύσασ ὐπακούει

καὶ γαλαίσασ ἰμμερόεν τὸ δὴ μάν  καρδίαν ἐν στήθεσιν ἐπτόασεν,  ὠσ γὰρ εὔιδον βροχέωσ σε, φώνασ ὠσ γὰρ  οὐδὲν ἔτ᾽ ἔικει,

λέπτον ἀλλὰ κάμ μὲν γλῳσσα ϝ έαγε,  δ᾽ αὔτικα χρῷ πῦρ ὐπαδεδρόμακεν,  ὀππάτεσσι δ᾽ οὐδὲν ορημ᾽, ὀππάτεσσι δ οὐδὲν ορημ,  ἐπιρρόμβεισι δ᾽ ἄκουαι. ἐπιρρόμβεισι δ ἄκουαι.

ἀ δέ μ᾽ ί᾽δρωσ κακχέεται, τρόμοσ δὲ ἀ δέ μ ίδρωσ κακχέεται, τρόμοσ δὲ  παῖσαν ἄγρει χλωροτέρα δὲ ποίασ παῖσαν ἄγρει χλωροτέρα δὲ ποίασ  ἔμμι, τεθνάκην δ᾽ ὀλιγω ᾽πιδεύϝην ἔμμι, τεθνάκην δ ὀλιγω πιδεύ ϝ ην  φαίνομαι [ἄλλα]. φαίνομαι [ἄλλα].

πᾶν τόλματον [……] πᾶν τόλματον [……]

 

Ille mi par esse deo videtur,

ille, si fas est, superare divos,

qui sedens adversus identidem te

spectat et audit

dulce ridentem, misero quod omnis

eripit sensus mihi: nam simul te,

Lesbia, aspexi, nihil est super mi

* * * * * * * *

lingua sed torpet, tenuis sub artus

flamma demanat, sonitu suopte

tintinant aures, gemina et teguntur

lumina nocte.

otium, Catulle, tibi molestum est:

otio exsultas nimiumque gestis:

otium et reges prius et beatas

perdidit urbes.

 

Foscolo 1

Quei parmi in cielo fra gli Dei, se accanto

ti siede e vede il tuo bel riso, e sente

i dolci detti e l’amoroso canto!-

A me repente,

Con più tumulto il core urta nel petto:

more la voce, mentre ch’io ti miro,

sulla mia lingua: nelle fauci stretto

geme il sospiro.

Serpe la fiamma entro il mio sangue, ed ardo:

un indistinto tintinnio m’ingombra

gli orecchi, e sogno: mi s’innalza al guardo

torbida l’ombra.

E tutta molle d’un sudor di gelo,

e smorta in viso come erba che langue,

tremo e fremo di brividi, ed anelo

tacita, esangue.
Trad. Foscolo 2

Colui mi sembra agli alti dei simile

che teco, siede, e sì soavemente

cantar t’ascolta, e in atto sì gentile

dolce ridente.

Com’io ti veggio, palpitar mi sento

nel petto il core, in quel beato istante

non vien più suono d’amoroso accento

sul labbro ansante.

Muta s’intrica la mia lingua; accensa

scorre ogni vena, ronza tintinnio

dentro gli orecchi; notte alta s’addensa

sul guardo mio.

Sudor di gelo le mie guance inonda.

Fremito assale e abbrivida ogni membro,

e senza spirti, pallida qual fronda

morta rassembro.

 

(trascrizione dell’intervento tenuto all’istituto per gli Studi Filosofici  in occasione della manifestazione de “L’arte della Felicità”, il 27 marzo 2010)